domenica 28 aprile 2013

Le falso contrapposizioni tra “vecchio" e "nuovo"


È unanime il giudizio che da molti anni, in ambito politico-istituzionale, non si udiva un discorso del livello di quello tenuto dal Presidente Napolitano davanti alle Camere: c’è chi si è spinto a dire che andrebbe letto e commentato nelle scuole. La vicenda ha alimentato il solito argomento critico del “nuovismo”: la qualità non ha età. Ma la credenza che la gioventù porti automaticamente con sé un positivo rinnovamento non è falsa per questo motivo ovvio, ma per una carenza più profonda che è la fonte di molti nostri mali: l’assenza di un rapporto vitale tra tradizione e innovazione.
L’assoluta necessità di tale rapporto fu ben spiegata da Hannah Arendt: se i vecchi vogliono preparare i giovani a rinnovare il mondo occorre che «non li estromettano dal mondo presente lasciandoli in balìa di sé stessi», evitando di fornir loro gli strumenti per intraprendere qualcosa di nuovo. Questi strumenti sono la trasmissione critica della tradizione, che ha assoluto bisogno – dice Arendt – di un minimo di conservazione. Gli errori più devastanti sono quelli di trasmettere la tradizione come qualcosa di intoccabile o, all’opposto, di ignorarla per inseguire la mitologia del “nuovo” che, senza radici,  si riduce a vuota declamazione.
Un’immagine del primo errore è data dalla gerontocrazia sovietica degli ultimi anni, chiusa in un’autodifesa dogmatica, incapace di trasmettere alcunché, e quindi di crearsi una discendenza nelle nuove generazioni, se non imponendo un ottuso asservimento. Il prodotto di entrambi gli errori si vede nella crisi attuale del Partito democratico. Spiegare questa crisi come una decomposizione in bande significa scambiare l’effetto con la causa, che è invece una grave carenza di prospettive. Quali sono i progetti ideali e concreti del Pd? Difficile dare una risposta. Se è fallita la miscela di componenti legate alla tradizione socialista e comunista e di indirizzi meglio rappresentabili da una cultura liberale o tecnocratica, è a causa di scelte mancate. Una tradizione imponente come quella comunista non poteva essere liquidata senza un ripensamento profondo che la traghettasse verso una visione socialdemocratica o comunque verso qualcosa di definito. Si è preferito fare operazioni di maquillage, fare una sommatoria di spezzoni “progressisti”, mettere in soffitta la tradizione senza discuterla a fondo e quindi lasciare che pesasse sulle teste sotto forma di nostalgie e attaccamenti inveterati che ancor oggi si fanno sentire. È davvero spenta la disperazione per aver messo da parte la parola “compagno”? E quanti militanti si sentono ancora come quel dirigente che anni fa lamentava «dovremo stare in clandestinità per chissà quanto»? Non rielaborando criticamente la tradizione, si è finito col trasmettere ai giovani solo riferimenti identitari e sentimentali vuoti di contenuto: “sinistra”, “progressismo”, “sociale”, “egualitarismo”, e magari anche “rivoluzione”. E i contenuti non ci sono perché, quando si scrivono programmi enormi in cui c’è di tutto, è come se non ci fosse nulla. Allora, tutto si riduce a una questione geometrica: a Renzi, che pensa un Pd un po’ più a destra dell’attuale, si contrappone Barca che lo vuole tra il Pd attuale e Sel, e via situando. Purtroppo, tutti i riferimenti si definiscono rispetto agli altri e la sinistra è come una geometria impazzita. È inquietante sentire alcuni giovani dirigenti mentre proclamano con sicurezza che le giovani generazioni sono perfettamente in grado di prendere in mano il partito: come e per fare cosa? È l’immagine di una generazione in balìa di sé stessa – per dirla alla Arendt – senza una cultura di riferimento; e, di certo, per colpa di una classe dirigente che, per troppo tempo, ha giocato ambiguamente con la tradizione, evitando un confronto aperto e, per altro verso, ha giocato a ricorrere le mode “giovani”, incapace di trasmettere un patrimonio critico.
Ma occorre essere consapevoli che questo male investe ogni aspetto della nostra società ed è drammaticamente evidente nel disastro dell’educazione e dell’istruzione. Ne è una manifestazione emblematica la sostanziale scomparsa dalla memoria dei più giovani di cosa siano stati il Risorgimento e i processi fondanti l’unità nazionale. Anche degli eventi fondanti la Repubblica si sa poco o niente e, in questo vuoto malamente riempito nel passato da troppa retorica acritica, si fa persino spazio la rivalutazione del fascismo, peraltro anch’esso sconosciuto. Come mai? Perché a scuola non si studia più seriamente la storia. Perché si crede che il modo migliore di “rinnovare” sia accantonare la tradizione, senza fare lo sforzo di ripensarla e rinnovarla. Perchè – in una pulsione di adulazione del “giovane” – si tende a sostituire la lettura dei classici della letteratura italiana con brani antologici del genere “diario di una schiappa”. Perché si crede che un rinnovamento dell’istruzione possa essere miracolosamente prodotto dalle metodologie e dalle tecnologie, accantonando come secondari o irrilevanti i contenuti, e anche la figura dei maestri. Ma un paese che perda i suoi legami con la sua cultura, la sua storia, le sue tradizioni e la capacità di ripensarle e rielaborarle continuamente ha un futuro precario.
Giorni fa, in un dibattito, un imprenditore supplicava: «Per favore, date cultura e conoscenza ai giovani, cultura e conoscenza, non solo tecniche, ché quelle si acquisiscono facilmente». Speriamo che un simile appello venga raccolto, come parte dell’opera di riscatto nazionale cui ha invitato il presidente Napolitano e confidiamo che la ventata di novità rappresentata da tanti giovani al governo vada in direzione opposta al falso nuovismo.
(Il Messaggero, 28 aprile 2013)

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