È unanime il giudizio che da molti anni, in
ambito politico-istituzionale, non si udiva un discorso del livello di quello tenuto
dal Presidente Napolitano davanti alle Camere: c’è chi si è spinto a dire che andrebbe
letto e commentato nelle scuole. La vicenda ha alimentato il solito argomento
critico del “nuovismo”: la qualità non ha età. Ma la credenza che la gioventù
porti automaticamente con sé un positivo rinnovamento non è falsa per questo
motivo ovvio, ma per una carenza più profonda che è la fonte di molti nostri
mali: l’assenza di un rapporto vitale tra tradizione e innovazione.
L’assoluta necessità di tale rapporto fu ben
spiegata da Hannah Arendt: se i vecchi vogliono preparare i giovani a rinnovare
il mondo occorre che «non li estromettano dal mondo presente lasciandoli in
balìa di sé stessi», evitando di fornir loro gli strumenti per intraprendere
qualcosa di nuovo. Questi strumenti sono la trasmissione critica della
tradizione, che ha assoluto bisogno – dice Arendt – di un minimo di
conservazione. Gli errori più devastanti sono quelli di trasmettere la
tradizione come qualcosa di intoccabile o, all’opposto, di ignorarla per
inseguire la mitologia del “nuovo” che, senza radici, si riduce a vuota declamazione.
Un’immagine del primo errore è data dalla
gerontocrazia sovietica degli ultimi anni, chiusa in un’autodifesa dogmatica,
incapace di trasmettere alcunché, e quindi di crearsi una discendenza nelle
nuove generazioni, se non imponendo un ottuso asservimento. Il prodotto di
entrambi gli errori si vede nella crisi attuale del Partito democratico. Spiegare
questa crisi come una decomposizione in bande significa scambiare l’effetto con
la causa, che è invece una grave carenza di prospettive. Quali sono i progetti
ideali e concreti del Pd? Difficile dare una risposta. Se è fallita la miscela di
componenti legate alla tradizione socialista e comunista e di indirizzi meglio
rappresentabili da una cultura liberale o tecnocratica, è a causa di scelte mancate.
Una tradizione imponente come quella comunista non poteva essere liquidata
senza un ripensamento profondo che la traghettasse verso una visione
socialdemocratica o comunque verso qualcosa di definito. Si è preferito fare
operazioni di maquillage, fare una sommatoria di spezzoni “progressisti”, mettere
in soffitta la tradizione senza discuterla a fondo e quindi lasciare che
pesasse sulle teste sotto forma di nostalgie e attaccamenti inveterati che
ancor oggi si fanno sentire. È davvero spenta la disperazione per aver messo da
parte la parola “compagno”? E quanti militanti si sentono ancora come quel
dirigente che anni fa lamentava «dovremo stare in clandestinità per chissà
quanto»? Non rielaborando criticamente la tradizione, si è finito col
trasmettere ai giovani solo riferimenti identitari e sentimentali vuoti di
contenuto: “sinistra”, “progressismo”, “sociale”, “egualitarismo”, e magari
anche “rivoluzione”. E i contenuti non ci sono perché, quando si scrivono
programmi enormi in cui c’è di tutto, è come se non ci fosse nulla. Allora, tutto
si riduce a una questione geometrica: a Renzi, che pensa un Pd un po’ più a
destra dell’attuale, si contrappone Barca che lo vuole tra il Pd attuale e Sel,
e via situando. Purtroppo, tutti i riferimenti si definiscono rispetto agli
altri e la sinistra è come una geometria impazzita. È inquietante sentire
alcuni giovani dirigenti mentre proclamano con sicurezza che le giovani
generazioni sono perfettamente in grado di prendere in mano il partito: come e
per fare cosa? È l’immagine di una generazione in balìa di sé stessa – per
dirla alla Arendt – senza una cultura di riferimento; e, di certo, per colpa di
una classe dirigente che, per troppo tempo, ha giocato ambiguamente con la
tradizione, evitando un confronto aperto e, per altro verso, ha giocato a ricorrere
le mode “giovani”, incapace di trasmettere un patrimonio critico.
Ma occorre essere consapevoli che questo male
investe ogni aspetto della nostra società ed è drammaticamente evidente nel
disastro dell’educazione e dell’istruzione. Ne è una manifestazione emblematica
la sostanziale scomparsa dalla memoria dei più giovani di cosa siano stati il
Risorgimento e i processi fondanti l’unità nazionale. Anche degli eventi
fondanti la Repubblica si sa poco o niente e, in questo vuoto malamente
riempito nel passato da troppa retorica acritica, si fa persino spazio la
rivalutazione del fascismo, peraltro anch’esso sconosciuto. Come mai? Perché a
scuola non si studia più seriamente la storia. Perché si crede che il modo
migliore di “rinnovare” sia accantonare la tradizione, senza fare lo sforzo di
ripensarla e rinnovarla. Perchè – in una pulsione di adulazione del “giovane” –
si tende a sostituire la lettura dei classici della letteratura italiana con
brani antologici del genere “diario di una schiappa”. Perché si crede che un
rinnovamento dell’istruzione possa essere miracolosamente prodotto dalle
metodologie e dalle tecnologie, accantonando come secondari o irrilevanti i
contenuti, e anche la figura dei maestri. Ma un paese che perda i suoi legami
con la sua cultura, la sua storia, le sue tradizioni e la capacità di
ripensarle e rielaborarle continuamente ha un futuro precario.
Giorni fa, in un dibattito, un imprenditore supplicava:
«Per favore, date cultura e conoscenza ai giovani, cultura e conoscenza, non
solo tecniche, ché quelle si acquisiscono facilmente». Speriamo che un simile
appello venga raccolto, come parte dell’opera di riscatto nazionale cui ha
invitato il presidente Napolitano e confidiamo che la ventata di novità
rappresentata da tanti giovani al governo vada in direzione opposta al falso
nuovismo.
(Il Messaggero, 28 aprile 2013)
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