Una
ventata di mentalità totalitaria vestita di politicamente corretto sta
distruggendo il sistema dell’istruzione che ha governato l’Occidente per un
paio di secoli: non più creazione di conoscenze e cultura come strumenti di
libertà dell’individuo, ma meccanismo standardizzato per plasmare gli individui
entro ideologie preconfezionate. Certo, il mondo è complesso, standardizzare è
difficile, le differenze nazionali persistono, pur indebolite, e Giulio Meotti
(L’abracadabra del pol. corr. Il Foglio,
29 agosto) ha bene descritto la realtà francese, le sue inveterate tendenze
laiciste e giacobine. Ma il motto “la scuola non deve trasmettere conoscenze ma
forgiare i valori dell’individuo” non esce solo dalla cucina francese: circola
ovunque. Un professore mi racconta di un consiglio di classe aperto dal
dirigente con la perentoria indicazione: “è prioritario stabilire il modello di
persone che vogliamo formare”. E non è roba che esce solo dalla cucina della
“gauche”. Si pensi a Monsieur Claude Thélot, uno dei massimi esperti mondiali
di problemi scolastici, che presiedette nel 2003, su mandato di Jacques Chirac
(un “gauchiste”?) una commissione sul futuro della scuola. Tre anni fa,
invitato in Italia con tutti gli onori, dichiarò che i professori insistono
sulle conoscenze e invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e
di più della formazione della personalità degli allievi. Del resto, tanti
docenti francesi da anni si battono contro questa visione totalitaria e si
scontrano con i poteri enormi della burocrazia centralista: hanno subito
ispezioni, ammonimenti, tagli di stipendi perché “insegnavano” invece di
“formare le teste”. Nel 2005, il celebre matematico Laurent Lafforgue entrò a
far parte dell’Alto Consiglio dell’Educazione francese. Inorridito dalle
prescrizioni di funzionari ed “esperti”, scrisse al presidente del Consiglio
che «per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti
dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo
di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Fu cacciato su due piedi. Va
detto che la critica di Edgar Morin del provvedimento di Peillon
(“L’uguaglianza imposta uccide la libertà, non può essere stabilita per decreto”)
è una manifestazione sesquipedale di ipocrisia. Proprio lui ha proposto
l’ideologia della “costruzione delle persone” con il libro-manifesto “La testa
ben fatta”, che ha distorto il senso del detto di Montaigne contro il
nozionismo – “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” – in un
proclama contro la trasmissione delle conoscenze. Certo, Morin avrebbe
applaudito se avessero scelto la sua versione del costruttivismo. I fabbricanti
di teste hanno vedute differenziate ma sono liti in famiglia. Li unisce il
proposito fondante dell’internazionale della “nuova” istruzione: basta con le
conoscenze e con la cultura, basta con i “saperi del passato”, l’istruzione
deve essere un sistema di fabbricazione di individui nuovi, dotati di capacità
adatte alle esigenze della società contemporanea. In sintesi: basta con le
conoscenze, viva le “competenze”, nel linguaggio della convenzione di Lisbona.
Qualcuno parla addirittura, ridicolmente, di “competenze della vita”, le
sfumature sono tante, ma è comune la pretesa totalitaria di fare
dell’istruzione un sistema di “formazione di teste”.
Se
qualcuno non è convinto che la distruzione cultura passata sia vista come la
chiave per imporre la dittatura del politicamente corretto consiglio di leggere
Humanism and Democratic Criticism (2004)
dell’intellettuale americano-palestinese Edward Said (il celebre autore di Orientalism). Said descrive le
università statunitensi prima degli anni ottanta: culle della tradizione
culturale e letteraria dell’Occidente, in cui si leggevano con devozione Omero,
Erodoto, Eschilo, Platone, Aristotele, la Bibbia, Virgilio, Dante, Cervantes,
Sant’Agostino e Dostoievski. Racconta compiaciuto come nel giro di un ventennio
questa tradizione fu distrutta per creare un nuovo “umanesimo” libero dagli
efferati “essenzialismi” e razzismi della letteratura classica; e cita come
modello la “rigenerazione” della Columbia University, di cui era diventato
professore. Fu un gigantesco svuotamento di teste per rifarle daccapo. Manco a
dirlo, nelle teste venne messo qualcos’altro. Difatti, è un gigantesco
imbroglio far credere che si possano confezionare teste “ben fatte” senza
metterci nulla dentro: il modo con cui le si confeziona presuppone il contenuto
auspicato. Ma è la pretesa in sé, l’idea di “svuotare” e rifare il recipiente
che costituisce l’aberrazione primaria. Voler rifare le teste secondo i
principi del laicismo giacobino è aberrante, ma non sarebbe meglio se si
trattasse di principi religiosi integralisti, o dell’ateismo di stato che veniva
praticato in URSS, o delle ideologie nazi-fasciste.
Piaccia
o non piaccia, la Francia è un paese molto importante in ambito culturale: un
tempo si diceva che “ogni uomo colto deve passare per Parigi”. L’antica gloria
è ormai scolorita – anche se il postmodernismo statunitense è frutto di una
colonizzazione del pensiero di Foucault e Derrida – ma il suo passato ha molto
da insegnare. Prendiamo, ad esempio, il riferimento al 1789. Di per sé non vuol
dir molto: nel 1789 vi sono molte cose diverse. A quale 1789 si riferisce il
ministro Peillon quando dice di volerne realizzare gli ideali? Pensa alle
visioni dell’istruzione del Marchese di Condorcet o alle teorie educative di
Jean-Jacques Rousseau? Non c’è dubbio: Jean-Jacques è il profeta del ministro
Peillon, e di tanti rifacitori di teste di altri paesi, anche di tendenze
tutt’altro che laiciste.
Condorcet
e Rousseau: da tempo si dibatte in Francia sui due pensatori, individuando la
contrapposizione tra “istruzione” ed “educazione” come il nodo da dirimere. Non
intendiamo riproporre tal quale lo scientismo di Condorcet che – lo ricordavamo
su queste pagine contro le teorie della democrazia temperata dal governo dei
tecnici – pretendeva che “una nazione che non è governata da filosofi cade in
mano ai ciarlatani”. Ma la visione dell’istruzione di Condorcet è una delle
espressioni più alte della democrazia liberale. È l’idea moderna di un sistema
di istruzione di massa garantito dallo stato che offra pari opportunità a
tutti. Lo scopo non è affatto indottrinare i cittadini, bensì fornire cultura e
conoscenza come strumento di libertà, con cui essi decideranno autonomamente le
forme della loro presenza nella realtà sociale. La scuola non educa ma
“istruisce”, formando con la cultura capacità critiche autonome. Da questo
punto di vista, la “trasmissione” della conoscenza è fondamentale e fa
dell’insegnante una figura centrale nella società. È una funzione che è stata
mirabilmente descritta da Hannah Arendt: l’insegnante «si qualifica per
conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre
è autorevole in quanto, di quel mondo di assume la responsabilità. Di fronte al
ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che
indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». È evidente che – come
spiega Arendt – questo richiede un fondo di atteggiamento “conservatore”: solo
così, offrendo gli strumenti per la comprensione critica del mondo in cui entra
il giovane si dimostra «che noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli
dal nostro mondo lasciandoli in balia di sé stessi, se li amiamo tanto da non
strappargli di mano l’occasione di intraprendere qualcosa di nuovo».
Purtroppo
dilaga il motto opposto: non bisogna fornire conoscenze, ma forgiare gli
individui, secondo i precetti di Rousseau. Come dice Rousseau nell’Émile, l’istruzione deve essere
“educazione a vivere”, insegnare al giovane l’uso delle facoltà che danno il
sentimento dell’esistenza. Parlando dei giovani e, in particolare, dei suoi
figli, Rousseau esclama: “vivere è il mestiere che voglio insegnargli!”.
Peccato che ai suoi cinque figli abbia insegnato questo mestiere abbandonandoli
tutti nella ruota... scacco dell’arrogante pretesa di volere nientemeno che
insegnare agli altri a vivere, invece di attenersi all’intento di fornire gli
strumenti critici per decidere liberamente come costruire la propria vita.
Ma
i rousseauiani di ogni sponda rovesciano la frittata: secondo loro, la scuola
come istruzione sarebbe “impositiva” in quanto “trasmette” conoscenze. Loro, si
“limiterebbero” a fornire i metodi per fare da sé, come se imporre la
metodologia del vivere non fosse ciò che di più impositivo si possa immaginare.
Predicano le virtù dell’autoformazione: ognuno ricomincia da zero, ricostruendo
il sapere e l’insegnante fa solo l’allenatore, il “facilitatore” (come si dice
oggi). È faticoso confutare una visione tanto irragionevole e ridicola: è la
fatica che prova il buon senso di fronte al muro dell’ideologia. Il trionfo
postumo dell’educatore ginevrino si manifesta nel dilagare universale del
costruttivismo. Dopo gli orrori dell’eugenetica si credeva ingenuamente che la
pretesa di “costruire l’individuo perfetto” fosse un brutto ricordo del
passato: e invece la vediamo riemergere in ogni ambito, dalla genetica alle
scienze sociali. Si credeva che il ricordo degli asili infantili sovietici di
Aleksandra Kollontai, in cui si costruiva il nuovo uomo socialista, potessero
destare soltanto ilarità e la pena, e invece pullulano pedagogisti che citano
come la Bibbia il poema pedagogico di Makarenko. Ed ecco che il ministro di uno
stato democratico si propone di formare l’ “uomo nuovo” laico, facendo fare una
figura da ultraliberale a Jules Ferry.
La
manifestazione forse più importante di tale rigurgito di totalitarismo è
l’ossessione di introdurre nella gestione sociale, e nell’educazione, i
concetti (rozzamente mutuati dalle scienze esatte) di “oggettività” e
“standardizzazione”. Il risultato, nell’istruzione, è la progressiva riduzione
della figura dell’insegnante a un burocrate votato ad applicare le direttive
che vengono da centri esterni: amministrazioni statali, enti di valutazione,
aziende private – tutti autoreferenziali e fuori controllo – sia pure entro
differenti tradizioni nazionali: in
Francia prevale il centralismo statalista, negli USA l’invadenza di
imprenditori privati come Bill Gates, che propongono di mettere un bracciale
elettronico agli studenti per stimare il grado di attenzione in classe e così
“valutare” gli insegnanti.
Ci
vorrebbe un libro per analizzare le varie forme che assume il dilagante
costruttivismo sociale. Ora è sotto i riflettori quello francese. Ma merita
attenzione il modo con cui, negli USA, il crollo della diga rappresentata dal
legame con la tradizione umanistica classica ha trasformato il costruttivismo
pedagogico di John Dewey in un’ideologia violenta che definisce l’insegnamento
dell’ortografia e della fonetica come una “violenza su minori” da rimpiazzare
con i precetti del politicamente corretto.
Limitiamoci
a dare un’occhiata in casa nostra. Strano paese l’Italia, in cui la gran
varietà di opinioni e l’individualismo sembrano escludere la presenza di
tendenze orientate in una direzione definita. Eppure il costruttivismo sociale
pedagogico dilaga anche qui. Nessun proclama laicista, nessun manifesto
ideologico esplicito, ma l’idea di trasformare la scuola in un luogo in cui si
“costruiscono le persone” è diffusa, coperta dietro la maschera “buona”
dell’assistenzialismo agli “esclusi”. È il progetto dell’ex-ministro Profumo di
trasformare la scuola da centro d’istruzione a “ambiente d’interazione
allargata... aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione
territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico”.
Avete un problema, vi fa male la pancia, vi ha lasciato la fidanzata, avete un
disagio psico-fisico o la vostra famiglia è un disastro? Andate a scuola.
Esagerazioni? Si legga la normativa del diluvio che sta per cadere sulla
scuola, i BES (Bisogni Educativi Speciali). Prevede che «ogni alunno, con
continuità o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per motivi
fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali,
rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata
risposta». E per farlo si ricorre a strutture pesanti, come i “Gruppi di lavoro
per l’inclusione” formati da “educatori culturali”, “assistenti alla
comunicazione”, esperti istituzionali o in convenzione, genitori e, by the way,
insegnanti.
La
capacità di questi “esperti” di imporre la loro dittatura è collaudata. Mi
limito a citare il caso di un dipartimento universitario di psicologia che,
ottenuta una convenzione con un plesso scolastico elementare per esplorare le
“caratteristiche cognitive e psicologiche di bambini che presentano ritardo
mentale”, infilò nelle cartelle dei bambini una richiesta ai genitori di
autorizzare un screening di massa, con l’avvertimento intimidatorio che la
mancata collaborazione avrebbe avuto “gravi conseguenze a livello sociale”.
Nella
disattenzione generale la scuola viene trasformata in un sistema di costruzione
e controllo sociale, in cui l’apprendimento è marginale rispetto alla creazione
di una coscienza politicamente corretta dell’“inclusione”.
Come
mai si è giunti a questo punto in un paese per decenni dominato dalle culture
comunista e cattolica? Qualche osservazione, in estrema sintesi. Certo, il
costruttivismo sociale era costitutivo della cultura comunista. Ma, la
tradizione italiana, ha difeso a oltranza l’importanza dello studio rigoroso e
“faticoso” e, in particolare, il valore degli studi classici. Si pensi alle
celebri pagine di Gramsci sul valore del latino, di sapore quasi gentiliano, o
al culto per la letteratura e il rigore linguistico di Togliatti. Negli anni
settanta Luigi Berlinguer attaccava duramente le tendenze nella comunità
europea verso un’istruzione praticistica e difendeva il sapere disinteressato e
il primato della conoscenza. Con il muro è crollato tutto e l’antico
costruttivismo ha assunto vesti postmoderne in cui, primeggiano i dogmi del
politicamente corretto e la scuola va trasformata nel senso descritto dal
ministro Profumo.
Sul
versante della cultura cattolica un’opera decisiva di demolizione è stata
compiuta dal “donmilanismo” – uso questo termine per venire incontro a chi dice
che don Milani non è mai giunto alle aberrazioni dei suoi interpreti più
fanatici. Ma c’era anche un altro polo, rappresentato da don Giussani, cui si
deve una critica chiara, diretta e devastante dell’ideologia
dell’autoformazione, contro la distruzione della figura del “maestro”. Eppure,
è sconcertante vedere che parecchi suoi seguaci, mentre ribadiscono l’adesione
ai suoi insegnamenti, perseguono forme di costruttivismo educativo, esibendo
una singolare schizofrenia tra una visione che mette al centro la persona e i
valori umani e una visione tecnocratica, tra l’educazione centrata sulla
trasmissione della cultura e l’educazione come ingegneria sociale. Ci si chiede
come possa un cattolico proporre l’Emilio di Rousseau come vangelo della pedagogia.
Eppure anche questo accade.
Così,
nello sbandamento e sgretolamento culturale, capita in Italia che si operi per il trionfo di qualcosa che, per altro
verso, viene additato come un nemico: un relativismo e un politicamente
corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via
ministerial-burocratica, meno clamorosa di quella francese ma non meno
insidiosa.
(Il Foglio, 11 settembre 2013)