mercoledì 25 settembre 2013

Valutare, valutare... e ricomincia la ridicola solfa dell'«oggettività»


La necessità di un’azione profonda e durevole sull’istruzione non è favorita dal contesto instabile della politica. Ma l’esigenza resta. Alla scuola dovrebbero essere dati gli strumenti per divenire protagonista, e non oggetto, di un’azione che ne inverta il declino. Il primo obbiettivo dovrebbe essere una grande indagine conoscitiva, mediante un questionario con cui le scuole illustrino, in prima persona e in modo non burocratico, la condizione degli edifici e delle strutture, dell’organico, la densità delle classi, la presenza di studenti immigrati e di studenti diagnosticati con disturbi di apprendimento, la propria valutazione dei risultati conseguiti sul piano didattico.
A tale indagine dovrebbe accompagnarsi l’inizio di un processo di autovalutazione che si sviluppi in modo progressivo negli anni. È chiaro che una valutazione deve riferirsi a obbiettivi prefissati. Crediamo poco alle mitologie aziendaliste dei “benchmark” quantitativi. Diane Ravitch, già consigliere del presidente Clinton e autrice della riforma basata su test e “accountability” ha scritto un libro di radicale autocritica in cui sostiene che il ricorso estensivo ai test sta distruggendo l’istruzione negli USA. Secondo noi, Ravitch ha indicato perfettamente in che cosa consista il successo educativo e quindi l’obbiettivo da perseguire. Esso è dato dalla definizione di persona ben istruita: «Una persona bene istruita ha una mente ben fornita, formata dal leggere e dal pensare la storia, la scienza, la letteratura, le arti e la politica. Una persona ben istruita ha appreso come spiegare le idee e come ascoltare rispettosamente gli altri». Sono indicazioni quasi rivoluzionarie in un contesto in cui troppi predicano che i contenuti e le discipline non contano nulla, che leggere non è importante, ancor meno sapersi spiegare e non si fa nulla per educare all’ascolto, anzi si incentiva la chiacchiera presuntuosa. Occorre inoltre che la scuola sia un luogo in cui si lavora in modo disteso e sereno, che non è sinonimo di un clima “ludico”, che può ben essere improduttivo e isterico.
Le scuole debbono impegnarsi a farsi valutare. Invece di insistere con progetti confusi e sperimentazioni di scarso successo, occorre seguire l’unica via sensata: un sistema di ispezioni incrociate da parte di commissioni composte da insegnanti esterni e ispettori. In attesa che questo sistema venga definito in dettaglio, le scuole potrebbero promuovere un processo virtuoso sottoponendosi a forme di giudizio tra pari. Ad esempio – sul modello di istituzioni estere – si potrebbe introdurre la prassi di sottoporre al giudizio di colleghi di altre scuole una scelta a campione di testi e valutazioni di compiti scritti. Questi giudizi andrebbero discussi nell’ambito di una commissione di valutazione d’istituto ponendoli a confronto con quelli dei docenti interni. Ciò determinerà forme di confronto, anche dialettico, che saranno un sicuro fattore di crescita. Un maestro che propone a raffica calcoli ripetitivi o un professore di letteratura che propone schede di lettura standardizzate avranno modo di riflettere, di difendere o rivedere le proprie scelte.
Quanto all’Invalsi è bene che si limiti alla valutazione complessiva del sistema senza entrare direttamente in campo. La prova Invalsi di terza media basata sull’idea assurda di interferire sulla valutazione e poi valutarla, va cancellata. Per riqualificare la scuola italiana occorre responsabilizzarne i protagonisti e non deresponsabilizzarli riducendoli a esecutori di precetti standardizzati. Una forte parsimonia nel ricorso ai test può evitare la piaga dell’insegnamento volto al superamento dei test (“teaching to the test”) che ovviamente fa emergere gli insegnanti peggiori, quelli che anziché fare il lavoro di classe si limitano a trasmettere ricette confezionate altrove. 
(Il Messaggero, 24 settembre 2013)

Aggiungo un post scriptum suggerito dalle dichiarazioni del ministro Carrozza:

Alcuni giorni fa si è svolta una tavola rotonda sulla valutazione all'università di Roma Tre con presenze autorevoli e, pur nella varietà dei punti di vista, è apparsa difficilmente confutabile la tesi che parlare di valutazioni "oggettive standardizzate" è a dir poco avventato. Persino nelle scienze esatte si parla con cautela di "oggettività", ma quantomeno quando esiste la possibilità di fare misurazioni sulla base di unità di misura standard universali il sostantivo assume un senso. Ma quando si parla di valutazioni di soggetti da parte di soggetti la cosa diventa francamente ridicola, persino urticante per chi abbia un minimo di competenza epistemologica. Ricordo il caso di quell'“esperto” che da me richiesto di dire quale sia l'unità di misura delle competenze ha risposto: "il test". 
Come se i test non li facessero dei soggetti… E abbiamo visto i "soggetti" dell'Anvur che "metri universali" partoriscono….
Ci saremmo attesi dal ministro Carrozza un punto di vista più aperto, visto che fin dall'inizio disse di andarci cauti con i test, e con le valutazioni automatiche, mettendo nel mirino gli eccessi dell'Anvur.
Niente. Il fascino discreto dello statalismo burocratico è più forte di qualsiasi cosa.
Il ministro ha dichiarato di essere contraria al valore legale del voto di maturità di laurea. Posizione legittima, non c'è che dire. Ma quel che lascia basiti è la motivazione: «Sono contrarissima a dire che bisogna dare valore al voto, soprattutto se abbiamo commissioni che dipendono dalla soggettività».
In altri termini, se le commissioni non "dipendessero dalla soggettività" il valore legale potrebbe forse anche andar bene… 
Abbiamo capito l'antifona, non siamo mica tonti: se il voto lo darà l'Invalsi – che possiede l'oggettività per investitura divina, o piuttosto ministeriale – allora potrebbe anche andar bene.
Non le commissioni, che “dipendono dalla soggettività”. E da cosa diamine dovrebbero dipendere? Salvo prova contraria, sono formate da persone. 
Già ma il problema è proprio questo: BASTA CON LE PERSONE.
Un lettore segnala che nella prosa delle circolari ministeriali si dice che il collegio dei docenti deve individuare le "funzioni strumentali", ovvero i "docenti che porteranno avanti" le attività previste dal POF. Giustamente osserva che neanche Stalin e Hitler arrivarono al punto di definire delle persone, degli esseri umani, come "funzioni strumentali". Ma è proprio quel che si vuole. Togliersi di mezzo quei rompiscatole di "soggetti", ridurli a "funzioni strumentali" degli "organismi", ognuno dei quali controllato gerarchicamente dall'organismo superiore. Via via salendo. 
Persino nelle peggiori previsioni non si poteva pensare di arrivare tanto in basso da deprecare le "commissioni" perché dipendono dalla soggettività". 
Chissà da cosa dipendono i pensieri e le decisioni del ministro?...


martedì 17 settembre 2013

Svuotare il guardaroba del razzista


Una storiografia mediocre (e comunque dura a morire) sul tema delle politiche antiebraiche del fascismo identifica la loro origine in una scelta di mera opportunità di alleanza col nazismo o, all'opposto, in un sentimento antisemita che sarebbe stato connaturale al fascismo (e al pensiero dello stesso Mussolini) fin dalle origini. Si dimentica, in tal modo, che il tema della razza, e del primato della razza italica, è stato un tema costitutivo dell'ideologia fascista, anche quando Mussolini respingeva esplicitamente, e con disprezzo, le teorie antisemite di "oltralpe". E si dimentica che il primo atto legislativo razziale del fascismo non fu rivolto contro gli ebrei bensì contro le popolazioni autoctone dei territori africani annessi all'Impero. Il rapporto diretto, per la prima volta, con una popolazione di razza diversa e "inferiore" suggeriva di evitare commistioni che avrebbero contaminato la razza "superiore". Era inevitabilmente coerente con questa scelta quella di colpire la minoranza ebraica. La matrice delle politiche antiebraiche del fascismo fu quindi in primo luogo razziale, anche se nello specifico era inevitabile che si nutrisse dell'enorme arsenale dei pregiudizi e degli stereotipi antiebraici consolidati nei secoli. Non diversamente, il razzismo antiafricano si nutrì dei classici stereotipi del "negro", che si ritrovano purtroppo in uno dei capisaldi del razionalismo illuminato moderno, l'Encyclopédie (brutti, viziosi, disonesti, vendicativi e bugiardi). In un celebre numero de "La Difesa della razza"  gli stereotipi delle due "razze" erano rappresentati sinteticamente nelle due teste affiancate dell'ebreo e del negro, con i connotati "tipici", naso adunco e capelli lanosi. Pertanto, quel che più conta – il nucleo duro del problema – è il razzismo e non lo stereotipo: per parafrasare André Neher, i protagonisti del razzismo «dispongono di un guardaroba inesauribile: vi trovano la maschera appropriata all'hic et nunc del loro folle ruolo».
Queste considerazioni ci sembrano particolarmente appropriate in relazione alla vicenda di cui è stata vittima il ministro Cécile Kyenge: ancora una volta il razzismo ha attinto a un guardaroba molto ben fornito, anche se ha fatto ricorso a uno stereotipo consunto, quello del negro simile a una scimmia. Di questo episodio (accompagnato da altri analoghi) ci debbono preoccupare diversi aspetti. In primo luogo, che si tratta di una manifestazione indiscutibilmente razzista, e quando il razzismo scende in campo finisce col colpire a destra e a manca, come la storia insegna. Non a caso, anche l'ostilità anti-israeliana che alligna in diverse forze politiche si nutre sempre di più, e sempre più spudoratamente, di stereotipi antiebraici. In secondo luogo, preoccupa il fatto che affermare che si tratti di autentico razzismo non è banale, visto il numero elevato di tentativi di derubricare quegli episodi a semplici manifestazioni di cattivo gusto. In terzo luogo, che troppe persone, dalle più disparate sponde politiche hanno ripreso la battuta, con variazioni sul tema, senza alcuna vergogna. Si configura una situazione in cui gli anticorpi del razzismo sembrano essersi gravemente indeboliti. Il quarto motivo di inquietudine sono i tentativi di strumentalizzare questa vicenda per farne un viatico delle tesi del ministro Kyenge, quasi che non accettare la discutibilissima proposta dello "jus soli" sia una manifestazione di razzismo: l'ennesimo scacco alla ragione. Ma c'è un ulteriore motivo di preoccupazione ed è relativo ai modi confusi e inefficaci con cui si tenta di contrastare questa situazione. Non sarà certo una valanga di parole, di ammonimenti e di retorica a servire a qualcosa; e neppure il ricorso a leggi e sanzioni. La censura contro le manifestazioni verbali o scritte non è mai servita e non servirà mai a nulla – ancor più oggi quando la rete offre una miriade di canali incontrollabili – se non a colpire nel mucchio la libertà di espressione. Occorre cambiare qualcosa di profondo nelle coscienze e a ciò può servire soltanto la formazione culturale ed etica. Quanti sanno che il razzismo ha purtroppo radici profonde che sono state alimentate non soltanto dai miti romantici ottocenteschi ma anche, e assai, dal razionalismo scientifico illuminista, che ha contribuito a creare la nefasta antropologia fisica che continua ad alimentarsi di elucubrazioni pseudoscientifiche che giustificano con la genetica pretese forme di superiorità mentale di certi gruppi o ceti? Quanti sanno che, purtroppo, il razzismo non è un'ideologia esclusivamente reazionaria, ma che ha attecchito come una gramigna dappertutto se anche Karl Marx arrivò a scrivere frasi indecenti come quella secondo cui Ferdinand Lassalle era «il più barbaro di tutti i giudei di Polonia», perché «la forma della sua testa e dei suoi capelli dimostra che egli discende dai Negri che si sono uniti alla truppa di Mosé nell'esodo dall'Egitto»?
Un dovere primario, prima di affogarsi in altri fiumi di retorica e baloccarsi con leggi inutili se non controproducenti, sarebbe di insegnare a scuola, come parte di una formazione razionale ancor prima che etica, che il concetto di razza è inconsistente scientificamente e di illustrarne la storia come esempio di come si possa fabbricare una giustificazione pseudoscientifica di un'aberrazione morale sanguinaria. Ma per far questo ci vorrebbe una scuola che parli ancora di cultura e di valori, che sappia far conoscere criticamente la storia e la scienza, e non un sistema di addestramento alla soluzione di quiz e di "misurazione" delle "competenze" del "capitale umano".
(Shalom, settembre 2013)

giovedì 12 settembre 2013

LA SCUOLA SVUOTATESTE


Una ventata di mentalità totalitaria vestita di politicamente corretto sta distruggendo il sistema dell’istruzione che ha governato l’Occidente per un paio di secoli: non più creazione di conoscenze e cultura come strumenti di libertà dell’individuo, ma meccanismo standardizzato per plasmare gli individui entro ideologie preconfezionate. Certo, il mondo è complesso, standardizzare è difficile, le differenze nazionali persistono, pur indebolite, e Giulio Meotti (L’abracadabra del pol. corr. Il Foglio, 29 agosto) ha bene descritto la realtà francese, le sue inveterate tendenze laiciste e giacobine. Ma il motto “la scuola non deve trasmettere conoscenze ma forgiare i valori dell’individuo” non esce solo dalla cucina francese: circola ovunque. Un professore mi racconta di un consiglio di classe aperto dal dirigente con la perentoria indicazione: “è prioritario stabilire il modello di persone che vogliamo formare”. E non è roba che esce solo dalla cucina della “gauche”. Si pensi a Monsieur Claude Thélot, uno dei massimi esperti mondiali di problemi scolastici, che presiedette nel 2003, su mandato di Jacques Chirac (un “gauchiste”?) una commissione sul futuro della scuola. Tre anni fa, invitato in Italia con tutti gli onori, dichiarò che i professori insistono sulle conoscenze e invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e di più della formazione della personalità degli allievi. Del resto, tanti docenti francesi da anni si battono contro questa visione totalitaria e si scontrano con i poteri enormi della burocrazia centralista: hanno subito ispezioni, ammonimenti, tagli di stipendi perché “insegnavano” invece di “formare le teste”. Nel 2005, il celebre matematico Laurent Lafforgue entrò a far parte dell’Alto Consiglio dell’Educazione francese. Inorridito dalle prescrizioni di funzionari ed “esperti”, scrisse al presidente del Consiglio che «per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Fu cacciato su due piedi. Va detto che la critica di Edgar Morin del provvedimento di Peillon (“L’uguaglianza imposta uccide la libertà, non può essere stabilita per decreto”) è una manifestazione sesquipedale di ipocrisia. Proprio lui ha proposto l’ideologia della “costruzione delle persone” con il libro-manifesto “La testa ben fatta”, che ha distorto il senso del detto di Montaigne contro il nozionismo – “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” – in un proclama contro la trasmissione delle conoscenze. Certo, Morin avrebbe applaudito se avessero scelto la sua versione del costruttivismo. I fabbricanti di teste hanno vedute differenziate ma sono liti in famiglia. Li unisce il proposito fondante dell’internazionale della “nuova” istruzione: basta con le conoscenze e con la cultura, basta con i “saperi del passato”, l’istruzione deve essere un sistema di fabbricazione di individui nuovi, dotati di capacità adatte alle esigenze della società contemporanea. In sintesi: basta con le conoscenze, viva le “competenze”, nel linguaggio della convenzione di Lisbona. Qualcuno parla addirittura, ridicolmente, di “competenze della vita”, le sfumature sono tante, ma è comune la pretesa totalitaria di fare dell’istruzione un sistema di “formazione di teste”.
Se qualcuno non è convinto che la distruzione cultura passata sia vista come la chiave per imporre la dittatura del politicamente corretto consiglio di leggere Humanism and Democratic Criticism (2004) dell’intellettuale americano-palestinese Edward Said (il celebre autore di Orientalism). Said descrive le università statunitensi prima degli anni ottanta: culle della tradizione culturale e letteraria dell’Occidente, in cui si leggevano con devozione Omero, Erodoto, Eschilo, Platone, Aristotele, la Bibbia, Virgilio, Dante, Cervantes, Sant’Agostino e Dostoievski. Racconta compiaciuto come nel giro di un ventennio questa tradizione fu distrutta per creare un nuovo “umanesimo” libero dagli efferati “essenzialismi” e razzismi della letteratura classica; e cita come modello la “rigenerazione” della Columbia University, di cui era diventato professore. Fu un gigantesco svuotamento di teste per rifarle daccapo. Manco a dirlo, nelle teste venne messo qualcos’altro. Difatti, è un gigantesco imbroglio far credere che si possano confezionare teste “ben fatte” senza metterci nulla dentro: il modo con cui le si confeziona presuppone il contenuto auspicato. Ma è la pretesa in sé, l’idea di “svuotare” e rifare il recipiente che costituisce l’aberrazione primaria. Voler rifare le teste secondo i principi del laicismo giacobino è aberrante, ma non sarebbe meglio se si trattasse di principi religiosi integralisti, o dell’ateismo di stato che veniva praticato in URSS, o delle ideologie nazi-fasciste.
Piaccia o non piaccia, la Francia è un paese molto importante in ambito culturale: un tempo si diceva che “ogni uomo colto deve passare per Parigi”. L’antica gloria è ormai scolorita – anche se il postmodernismo statunitense è frutto di una colonizzazione del pensiero di Foucault e Derrida – ma il suo passato ha molto da insegnare. Prendiamo, ad esempio, il riferimento al 1789. Di per sé non vuol dir molto: nel 1789 vi sono molte cose diverse. A quale 1789 si riferisce il ministro Peillon quando dice di volerne realizzare gli ideali? Pensa alle visioni dell’istruzione del Marchese di Condorcet o alle teorie educative di Jean-Jacques Rousseau? Non c’è dubbio: Jean-Jacques è il profeta del ministro Peillon, e di tanti rifacitori di teste di altri paesi, anche di tendenze tutt’altro che laiciste.
Condorcet e Rousseau: da tempo si dibatte in Francia sui due pensatori, individuando la contrapposizione tra “istruzione” ed “educazione” come il nodo da dirimere. Non intendiamo riproporre tal quale lo scientismo di Condorcet che – lo ricordavamo su queste pagine contro le teorie della democrazia temperata dal governo dei tecnici – pretendeva che “una nazione che non è governata da filosofi cade in mano ai ciarlatani”. Ma la visione dell’istruzione di Condorcet è una delle espressioni più alte della democrazia liberale. È l’idea moderna di un sistema di istruzione di massa garantito dallo stato che offra pari opportunità a tutti. Lo scopo non è affatto indottrinare i cittadini, bensì fornire cultura e conoscenza come strumento di libertà, con cui essi decideranno autonomamente le forme della loro presenza nella realtà sociale. La scuola non educa ma “istruisce”, formando con la cultura capacità critiche autonome. Da questo punto di vista, la “trasmissione” della conoscenza è fondamentale e fa dell’insegnante una figura centrale nella società. È una funzione che è stata mirabilmente descritta da Hannah Arendt: l’insegnante «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo di assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». È evidente che – come spiega Arendt – questo richiede un fondo di atteggiamento “conservatore”: solo così, offrendo gli strumenti per la comprensione critica del mondo in cui entra il giovane si dimostra «che noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di sé stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano l’occasione di intraprendere qualcosa di nuovo».
Purtroppo dilaga il motto opposto: non bisogna fornire conoscenze, ma forgiare gli individui, secondo i precetti di Rousseau. Come dice Rousseau nell’Émile, l’istruzione deve essere “educazione a vivere”, insegnare al giovane l’uso delle facoltà che danno il sentimento dell’esistenza. Parlando dei giovani e, in particolare, dei suoi figli, Rousseau esclama: “vivere è il mestiere che voglio insegnargli!”. Peccato che ai suoi cinque figli abbia insegnato questo mestiere abbandonandoli tutti nella ruota... scacco dell’arrogante pretesa di volere nientemeno che insegnare agli altri a vivere, invece di attenersi all’intento di fornire gli strumenti critici per decidere liberamente come costruire la propria vita.
Ma i rousseauiani di ogni sponda rovesciano la frittata: secondo loro, la scuola come istruzione sarebbe “impositiva” in quanto “trasmette” conoscenze. Loro, si “limiterebbero” a fornire i metodi per fare da sé, come se imporre la metodologia del vivere non fosse ciò che di più impositivo si possa immaginare. Predicano le virtù dell’autoformazione: ognuno ricomincia da zero, ricostruendo il sapere e l’insegnante fa solo l’allenatore, il “facilitatore” (come si dice oggi). È faticoso confutare una visione tanto irragionevole e ridicola: è la fatica che prova il buon senso di fronte al muro dell’ideologia. Il trionfo postumo dell’educatore ginevrino si manifesta nel dilagare universale del costruttivismo. Dopo gli orrori dell’eugenetica si credeva ingenuamente che la pretesa di “costruire l’individuo perfetto” fosse un brutto ricordo del passato: e invece la vediamo riemergere in ogni ambito, dalla genetica alle scienze sociali. Si credeva che il ricordo degli asili infantili sovietici di Aleksandra Kollontai, in cui si costruiva il nuovo uomo socialista, potessero destare soltanto ilarità e la pena, e invece pullulano pedagogisti che citano come la Bibbia il poema pedagogico di Makarenko. Ed ecco che il ministro di uno stato democratico si propone di formare l’ “uomo nuovo” laico, facendo fare una figura da ultraliberale a Jules Ferry.
La manifestazione forse più importante di tale rigurgito di totalitarismo è l’ossessione di introdurre nella gestione sociale, e nell’educazione, i concetti (rozzamente mutuati dalle scienze esatte) di “oggettività” e “standardizzazione”. Il risultato, nell’istruzione, è la progressiva riduzione della figura dell’insegnante a un burocrate votato ad applicare le direttive che vengono da centri esterni: amministrazioni statali, enti di valutazione, aziende private – tutti autoreferenziali e fuori controllo – sia pure entro differenti tradizioni nazionali:  in Francia prevale il centralismo statalista, negli USA l’invadenza di imprenditori privati come Bill Gates, che propongono di mettere un bracciale elettronico agli studenti per stimare il grado di attenzione in classe e così “valutare” gli insegnanti.
Ci vorrebbe un libro per analizzare le varie forme che assume il dilagante costruttivismo sociale. Ora è sotto i riflettori quello francese. Ma merita attenzione il modo con cui, negli USA, il crollo della diga rappresentata dal legame con la tradizione umanistica classica ha trasformato il costruttivismo pedagogico di John Dewey in un’ideologia violenta che definisce l’insegnamento dell’ortografia e della fonetica come una “violenza su minori” da rimpiazzare con i precetti del politicamente corretto.
Limitiamoci a dare un’occhiata in casa nostra. Strano paese l’Italia, in cui la gran varietà di opinioni e l’individualismo sembrano escludere la presenza di tendenze orientate in una direzione definita. Eppure il costruttivismo sociale pedagogico dilaga anche qui. Nessun proclama laicista, nessun manifesto ideologico esplicito, ma l’idea di trasformare la scuola in un luogo in cui si “costruiscono le persone” è diffusa, coperta dietro la maschera “buona” dell’assistenzialismo agli “esclusi”. È il progetto dell’ex-ministro Profumo di trasformare la scuola da centro d’istruzione a “ambiente d’interazione allargata... aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico”. Avete un problema, vi fa male la pancia, vi ha lasciato la fidanzata, avete un disagio psico-fisico o la vostra famiglia è un disastro? Andate a scuola. Esagerazioni? Si legga la normativa del diluvio che sta per cadere sulla scuola, i BES (Bisogni Educativi Speciali). Prevede che «ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta». E per farlo si ricorre a strutture pesanti, come i “Gruppi di lavoro per l’inclusione” formati da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione”, esperti istituzionali o in convenzione, genitori e, by the way, insegnanti.
La capacità di questi “esperti” di imporre la loro dittatura è collaudata. Mi limito a citare il caso di un dipartimento universitario di psicologia che, ottenuta una convenzione con un plesso scolastico elementare per esplorare le “caratteristiche cognitive e psicologiche di bambini che presentano ritardo mentale”, infilò nelle cartelle dei bambini una richiesta ai genitori di autorizzare un screening di massa, con l’avvertimento intimidatorio che la mancata collaborazione avrebbe avuto “gravi conseguenze a livello sociale”.
Nella disattenzione generale la scuola viene trasformata in un sistema di costruzione e controllo sociale, in cui l’apprendimento è marginale rispetto alla creazione di una coscienza politicamente corretta dell’“inclusione”.
Come mai si è giunti a questo punto in un paese per decenni dominato dalle culture comunista e cattolica? Qualche osservazione, in estrema sintesi. Certo, il costruttivismo sociale era costitutivo della cultura comunista. Ma, la tradizione italiana, ha difeso a oltranza l’importanza dello studio rigoroso e “faticoso” e, in particolare, il valore degli studi classici. Si pensi alle celebri pagine di Gramsci sul valore del latino, di sapore quasi gentiliano, o al culto per la letteratura e il rigore linguistico di Togliatti. Negli anni settanta Luigi Berlinguer attaccava duramente le tendenze nella comunità europea verso un’istruzione praticistica e difendeva il sapere disinteressato e il primato della conoscenza. Con il muro è crollato tutto e l’antico costruttivismo ha assunto vesti postmoderne in cui, primeggiano i dogmi del politicamente corretto e la scuola va trasformata nel senso descritto dal ministro Profumo.
Sul versante della cultura cattolica un’opera decisiva di demolizione è stata compiuta dal “donmilanismo” – uso questo termine per venire incontro a chi dice che don Milani non è mai giunto alle aberrazioni dei suoi interpreti più fanatici. Ma c’era anche un altro polo, rappresentato da don Giussani, cui si deve una critica chiara, diretta e devastante dell’ideologia dell’autoformazione, contro la distruzione della figura del “maestro”. Eppure, è sconcertante vedere che parecchi suoi seguaci, mentre ribadiscono l’adesione ai suoi insegnamenti, perseguono forme di costruttivismo educativo, esibendo una singolare schizofrenia tra una visione che mette al centro la persona e i valori umani e una visione tecnocratica, tra l’educazione centrata sulla trasmissione della cultura e l’educazione come ingegneria sociale. Ci si chiede come possa un cattolico proporre l’Emilio di Rousseau come vangelo della pedagogia. Eppure anche questo accade.
Così, nello sbandamento e sgretolamento culturale, capita in Italia che si operi  per il trionfo di qualcosa che, per altro verso, viene additato come un nemico: un relativismo e un politicamente corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via ministerial-burocratica, meno clamorosa di quella francese ma non meno insidiosa.
(Il Foglio, 11 settembre 2013)

mercoledì 11 settembre 2013

Salvare la formazione


Le somme stanziate dal governo per l’istruzione possono sembrare poca cosa rispetto alla rilevanza dei problemi. Ma il presidente del consiglio e il ministro Carrozza hanno fatto una scelta coraggiosa dedicando un Consiglio dei Ministri ai problemi dell’istruzione: finalmente si riconosce che questo è uno dei settori più importanti, se non il più importante, per il futuro del paese. Inoltre, non ci troviamo di fronte ai soliti tagli e ridimensionamenti ma a scelte di sviluppo, sia per il diritto allo studio, sia per gli organici, che per il caro libri, il wifi nelle scuole e altri provvedimenti significativi. Su tutto svetta la decisione coraggiosa di cancellare il “bonus maturità”, non dall’anno prossimo ma da subito.
Il nuovo interesse per l’istruzione è un primo passo positivo che deve inaugurare una fase nuova: la scelta di una linea chiara sull’istruzione che vogliamo. La questione è troppo importante per indulgere nel consueto errore di mettere tutto nelle mani di qualche esperto di fiducia o in quelle alquanto invadenti e dirigiste dell’amministrazione ministeriale. Abbiamo seguito troppi percorsi contraddittori, nell’arco di qualche decennio. È ora di fermarsi a riflettere e discutere, affinché, su queste basi il ministro compia scelte che riflettano opinioni diffuse nel paese, soprattutto tra i principali attori del sistema, gli insegnanti.
La questione del “bonus maturità” indica questa esigenza di chiarimento di fondo. Fin dagli inizi, il ministro Carrozza disse che l’uso di sistemi automatici numerici nella valutazione – nell’università o nella scuola – pur non dovendo essere del tutto proscritto, andava ripensato. In coerenza, ha abolito l’algoritmo di “rinormalizzazione” del “bonus”. Ora la selezione di chi potrà accedere alle facoltà a numero chiuso sarà fatta direttamente e senza pregiudizi. Ma è evidente che la selezione di un futuro medico – una missione che mette in gioco tante capacità e attitudini – non può essere fatta con qualche decina di crocette. D’altra parte, veniamo da una sequenza interminabile di disastri nel campo della selezione con test perché la materia non vada ripensata da cima a fondo. In pochi anni ci siamo buttati a capofitto nella numerologia e nel testing. Esistono opinioni diverse e anche opposte in materia: è giunta l’ora di tenerne conto e di pervenire, con calma e ponderazione, a soluzioni meditate e ragionevoli.
Questa problematica fa parte di quella generale della valutazione: un tema su cui si susseguono da anni sperimentazioni costose e di scarso successo. Il punto è che tutti parlano di “meritocrazia” e poi ognuno la intende a modo suo. La faccenda sembra banale come una sentenza del “filosofo” Catalano di “Quelli della notte”: i migliori devono avere i voti più alti e i peggiori i più bassi… Già, ma voto di cosa? Dipende dall’idea che si ha del ruolo della scuola. Per alcuni la scuola è un sistema d’istruzione – quale che sia il metodo didattico – per altri è un sistema che aiuta a saper vivere. Per i primi forma competenze disciplinari e lavorative, per i secondi forma le “competenze della vita”. Ma se la formazione di conoscenze storiche, matematiche, ecc. diventa un frammento di un’attività enorme che coinvolge tutti i problemi – sociali, medici, psicologici, ecc. – dell’individuo, la scuola diventa altra cosa e così la valutazione. Nell’ottica del centro socio-assistenziale, allora sì, bocciare diventa un atto estremo. Ma se un problema di disagio può valere come un rendimento scolastico altissimo, parlare di “meritocrazia” diventa vano. Un ospedale non assegna voti agli assistiti. D’altra parte, che si voglia trasformare la scuola in centro assistenziale risulta dalla nuova normativa dei BES (Bisogni Educativi Speciali) di cui abbiamo parlato qui giorni or sono. Se il ministro avesse idea del disagio che sta provocando questa normativa tra tanti insegnanti, ne sospenderebbe l’attuazione con un atto di coraggio simile a quello del “bonus maturità”.
Un’altra questione cruciale su cui occorre uscire dagli slogan è quella del rapporto scuola-lavoro. Il ministro dice che nessuno deve arrivare ai 25 anni senza aver fatto un lavoro, in particolare uno stage nel mondo produttivo. Forse, ma non necessariamente. Può essere corretto per certi futuri ingegneri. Può essere giusto chiedere a un laureando in materie letterarie di fare uno stage in un centro bibliografico, in uno scavo archeologico o in un museo. Ma spedirlo (magari con un fisico teorico o un biologo) per qualche mese in una ditta di piastrelle, che senso ha? A meno che sotto sotto non vi sia una visione ideologica: il lavoro in azienda è una cosa seria mentre lo studio è una perdita di tempo, un’ozio. Certo, per i Greci, “scuola” voleva dire “ozio”, ma non nel nostro senso dispregiativo, bensì come “sospensione” delle pratiche comuni per dedicare un tempo della propria vita a problemi di fondo da cui dipendono tutti gli altri. Anche se questa visione è lontana, noi crediamo che lo studio sia un’attività fondamentale, impegnativa, molto dura (e per questo degna di essere premiata) e da cui dipendono tante altre, inclusa la formazione della capacità di lavorare e di “faticare”. Non è vero che in azienda si fanno le cose serie e a scuola quelle poco serie. A meno che non si voglia proprio ridurre la scuola a un luogo di intrattenimento in cui farsi risolvere le difficoltà individuali (costruire le “competenze della vita”) in modo rapido, divertente e indolore. Preoccupa assai l’avanzare di questa visione in modo surrettizio, per via amministrativa. Anche su questo nodo si gioca il futuro del paese.

(Il Messaggero, 10 settembre 2013)