Le
somme stanziate dal governo per l’istruzione possono sembrare poca cosa
rispetto alla rilevanza dei problemi. Ma il presidente del consiglio e il
ministro Carrozza hanno fatto una scelta coraggiosa dedicando un Consiglio dei
Ministri ai problemi dell’istruzione: finalmente si riconosce che questo è uno
dei settori più importanti, se non il più importante, per il futuro del paese. Inoltre,
non ci troviamo di fronte ai soliti tagli e ridimensionamenti ma a scelte di
sviluppo, sia per il diritto allo studio, sia per gli organici, che per il caro
libri, il wifi nelle scuole e altri provvedimenti significativi. Su tutto
svetta la decisione coraggiosa di cancellare il “bonus maturità”, non dall’anno
prossimo ma da subito.
Il
nuovo interesse per l’istruzione è un primo passo positivo che deve inaugurare
una fase nuova: la scelta di una linea chiara sull’istruzione che vogliamo. La
questione è troppo importante per indulgere nel consueto errore di mettere
tutto nelle mani di qualche esperto di fiducia o in quelle alquanto invadenti e
dirigiste dell’amministrazione ministeriale. Abbiamo seguito troppi percorsi
contraddittori, nell’arco di qualche decennio. È ora di fermarsi a riflettere e
discutere, affinché, su queste basi il ministro compia scelte che riflettano
opinioni diffuse nel paese, soprattutto tra i principali attori del sistema,
gli insegnanti.
La
questione del “bonus maturità” indica questa esigenza di chiarimento di fondo.
Fin dagli inizi, il ministro Carrozza disse che l’uso di sistemi automatici
numerici nella valutazione – nell’università o nella scuola – pur non dovendo
essere del tutto proscritto, andava ripensato. In coerenza, ha abolito
l’algoritmo di “rinormalizzazione” del “bonus”. Ora la selezione di chi potrà
accedere alle facoltà a numero chiuso sarà fatta direttamente e senza
pregiudizi. Ma è evidente che la selezione di un futuro medico – una missione che
mette in gioco tante capacità e attitudini – non può essere fatta con qualche
decina di crocette. D’altra parte, veniamo da una sequenza interminabile di
disastri nel campo della selezione con test perché la materia non vada
ripensata da cima a fondo. In pochi anni ci siamo buttati a capofitto nella
numerologia e nel testing. Esistono opinioni diverse e anche opposte in materia:
è giunta l’ora di tenerne conto e di pervenire, con calma e ponderazione, a
soluzioni meditate e ragionevoli.
Questa
problematica fa parte di quella generale della valutazione: un tema su cui si
susseguono da anni sperimentazioni costose e di scarso successo. Il punto è che
tutti parlano di “meritocrazia” e poi ognuno la intende a modo suo. La faccenda
sembra banale come una sentenza del “filosofo” Catalano di “Quelli della
notte”: i migliori devono avere i voti più alti e i peggiori i più bassi… Già,
ma voto di cosa? Dipende dall’idea che si ha del ruolo della scuola. Per alcuni
la scuola è un sistema d’istruzione – quale che sia il metodo didattico – per
altri è un sistema che aiuta a saper vivere. Per i primi forma competenze
disciplinari e lavorative, per i secondi forma le “competenze della vita”. Ma
se la formazione di conoscenze storiche, matematiche, ecc. diventa un frammento
di un’attività enorme che coinvolge tutti i problemi – sociali, medici,
psicologici, ecc. – dell’individuo, la scuola diventa altra cosa e così la
valutazione. Nell’ottica del centro socio-assistenziale, allora sì, bocciare
diventa un atto estremo. Ma se un problema di disagio può valere come un
rendimento scolastico altissimo, parlare di “meritocrazia” diventa vano. Un ospedale
non assegna voti agli assistiti. D’altra parte, che si voglia trasformare la
scuola in centro assistenziale risulta dalla nuova normativa dei BES (Bisogni
Educativi Speciali) di cui abbiamo parlato qui giorni or sono. Se il ministro
avesse idea del disagio che sta provocando questa normativa tra tanti
insegnanti, ne sospenderebbe l’attuazione con un atto di coraggio simile a
quello del “bonus maturità”.
Un’altra
questione cruciale su cui occorre uscire dagli slogan è quella del rapporto
scuola-lavoro. Il ministro dice che nessuno deve arrivare ai 25 anni senza aver
fatto un lavoro, in particolare uno stage nel mondo produttivo. Forse, ma non
necessariamente. Può essere corretto per certi futuri ingegneri. Può essere
giusto chiedere a un laureando in materie letterarie di fare uno stage in un
centro bibliografico, in uno scavo archeologico o in un museo. Ma spedirlo (magari
con un fisico teorico o un biologo) per qualche mese in una ditta di
piastrelle, che senso ha? A meno che sotto sotto non vi sia una visione
ideologica: il lavoro in azienda è una cosa seria mentre lo studio è una
perdita di tempo, un’ozio. Certo, per i Greci, “scuola” voleva dire “ozio”, ma
non nel nostro senso dispregiativo, bensì come “sospensione” delle pratiche
comuni per dedicare un tempo della propria vita a problemi di fondo da cui
dipendono tutti gli altri. Anche se questa visione è lontana, noi crediamo che
lo studio sia un’attività fondamentale, impegnativa, molto dura (e per questo
degna di essere premiata) e da cui dipendono tante altre, inclusa la formazione
della capacità di lavorare e di “faticare”. Non è vero che in azienda si fanno
le cose serie e a scuola quelle poco serie. A meno che non si voglia proprio
ridurre la scuola a un luogo di intrattenimento in cui farsi risolvere le
difficoltà individuali (costruire le “competenze della vita”) in modo rapido,
divertente e indolore. Preoccupa assai l’avanzare di questa visione in modo
surrettizio, per via amministrativa. Anche su questo nodo si gioca il futuro
del paese.
(Il
Messaggero, 10 settembre 2013)
3 commenti:
Da un paio di interviste su Repubblica al ministro Carrozza, che è stata solo l' ennesima frustrante delusione:
«Non serve a niente imporre tonnellate di versioni di latino o decine di problemi da risolvere» ha osservato il Ministro, spiegando che spesso questi compiti «vengono smaltiti meccanicamente e senza concentrazione dagli studenti»
Versioni e problemi non servono a niente, neanche ad esercitarsi in latino o in matematica. Inoltre il fatto che i compiti «smaltiti meccanicamente e senza concentrazione» sono di solito anche quelli svolti in modo pessimo pare indegno della minima considerazione...
«alla fine del quarto anno uno studente dovrà essere già entrato in un ateneo e aver fatto stage in aziende, società, enti pubblici. Priorità per gli studenti di istituti tecnici e professionali. Oggi un diciannovenne arriva all'estate della maturità e non sa nulla del suo futuro, delle sue reali attitudini»
Fino a qualche tempo fa era quasi comune sentire che la mancanza di idee ben precise sul proprio futuro, almeno ad una certa età, non fosse affatto un problema. Anzi, talvolta la cosa non era priva di un certo fascino e permetteva a qualcuno, dopo le scuole superiori, di poter fantasticare su come sarebbe cambiata la sua vita di lì a 5 anni. Questa sorta di indeterminatezza era quasi inebriante e non credo proprio che molti di noi siano stati assaliti dal sospetto di essere degli irresponsabili perdigiorno, indecisi e sognatori, perché non avevamo ancora stabilito ufficialmente un piano quinquennale di sviluppo della nostra esistenza prima ancora di terminare le scuole superiori. Molti di noi non erano affatto sicuri su quale strada intraprendere dopo gli studi; molti di noi non si sono diplomati avendo già in testa di voler fare l' ingegnere o l' avvocato e quindi di dover iscriversi a giurisprudenza o ingegneria; molti di noi hanno semplicemente provato a imboccare un cammino e magari hanno finito per scoprire che gli piaceva, oppure si sono resi conto di aver maturato altre predilezioni e hanno veleggiato verso altri lidi (io, per esempio, mi ero iscritto a ingegneria e dopo un anno mi sono trasferito a matematica). Adesso, invece, scopriamo con costernazione che avremmo dovuto sapere cosa fare ancora prima della maturità (anche se sarebbe meglio alle medie, come voleva Profumo), magari inizando a preparare i test d' ingresso... Alla faccia dell' "otium, non negotium".
«In questa estate ha detto solo cose di sinistra, ministro: le bocciature devono essere pochissime, i compiti per l'estate non servono granché. Non è che vuole rimettere sulla targa del ministero dell'Istruzione la parola "pubblica?». «Pubblica è un aggettivo bellissimo, che sento molto mio. Io sono il ministro della Pubblica istruzione»
Pubblica come l' ignoranza, la cosa più pubblica di tutte...
Ho letto l'intervento di Alessandro Marinelli dopo l'ultimo post del prof. "La scuola svuotateste", che mi aveva lasciata un tantino depressa (nell'attuale clima politico e morale, l'inizio dell'anno scolastico si sta rivelando particolarmente stressante) e ho sorriso, provando un piccolo, inconsulto, moto di nostalgia, alle frasi: "Anzi, talvolta la cosa non era priva di un certo fascino e permetteva a qualcuno, dopo le scuole superiori, di poter fantasticare su come sarebbe cambiata la sua vita di lì a 5 anni. Questa sorta di indeterminatezza era quasi inebriante ...", perché mi ci rivedo, ma devo confessare che, più che il sospetto, ho la certezza di essere stata un'irrespondabile perdigiorno.
La verità è che allora non sapevo dove sbattermi, un po' per carenza di autonomia, un po' (tanto) perché liceo classico e i genitori avevano fatto poco o nulla per, come si dice oggi, orientarmi.
Così sono finita alla facoltà di Lettere moderne quasi per caso, secondo l'idea, allora imperante, che si dovessero scegliere gli studi universitari senza porsi problemi di bottega, come il possibile sbocco lavorativo, il vantaggio economico ad esso collegato ecc. Ho scelto quella facoltà quasi si trattasse della continuazione del liceo, in cui avrei studiato cose "belle", per anime "belle" e "creative", che sapevo già studiare, e dove invece ho finito per perdermi nell'indeterminatezza di cui sopra, che all'epoca era enormemente facilitata anche dalla liberalizzazione dei piani di studio.
Sono seguiti travagli vari,l'uscita fuori corso, l'abbandono degli studi, la ricerca affannosa e frustrante di un lavoro, ecc., e gli studi conclusi solo più tardi.
E' una storia banale, che però mi ha segnata e in parte danneggiata. Conosco molte altre storie simili, alcune con un finale meno bello, in cui l'idea di fondo di Marinelli che poi ciascuno come per magia, dopo cinque anni di sogni, trovi la propria strada, non si è affatto realizzata e menti aperte e brillanti, anime sognatrici di cose grandi e belle, si sono perse irrimediabilmente.
Perciò ritengo che se si deve respingere l'idea utilitaristica del sapere e dell'istruzione che va per la maggiore oggi, nondimeno sarebbe giusto che la scuola aiutasse maggiormente gli studenti, ovviamente senza forzature precoci, a compiere le loro scelte, nel rispetto dei gusti e delle attitudini, ma anche con buon senso e realismo.
Secondo la sana teoria aristotelica del giusto mezzo...
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