Chi si sognerebbe di considerare Emile Zola, lo scrittore
francese che fu uno dei massimi difensori del capitano Dreyfus, durante il
celebre “affaire”, al punto da dover fuggire per evitare la prigione? In un
articolo del 1896 pubblicato su Le Figaro,
egli descriveva lucidamente la connessione tra antisemitismo e pregiudizi
razziali: «Non vi è nulla da rispondere a coloro che vi dicono: “Li detesto
perché li detesto, perché soltanto la vista del loro naso mi mette fuori di me,
perché tutta la mia carne si rivolta a sentirli diversi e contrari». Torniamo
allora nelle profondità dei boschi, ricominciamo la guerra barbara fra specie e
specie, divoriamoci perché non emettiamo lo stesso grido o perché abbiamo il
pelo piantato diversamente. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di
cancellare questo bisogno selvaggio di scagliarsi sul proprio simile, quando
non è del tutto simile. Nel corso dei secoli, la storia dei popoli è una
lezione che chiama alla mutua tolleranza […]. Ai nostri tempi, odiarsi e
mordersi perché non abbiamo il cranio assolutamente costruito nello stesso
modo, inizia ad essere la più mostruosa delle follie.»
Eppure, chi conosca a fondo l’opera letteraria di Zola sa
che anche l’autore di quelle nobili parole fece qualche scivolata. Nel romanzo Nanà il banchiere ebreo Steiner offre
alla protagonista una busta con mille franchi. «Mille franchi! Chiedo forse
l’elemosina? Ecco cosa faccio dei tuoi mille franchi!», grida Nanà, tirandogli
la busta in faccia. E Steiner «da ebreo prudente, la raccoglie penosamente».
Peggio ancora ne Le bonheur des dames:
il protagonista Mouret «lascia correre la brutalità di un ebreo che vende la
donna a un tanto la libbra».
Che cosa ci insegnano queste “scivolate” da parte
dell’autore del celebre manifesto J’accuse
che segnò l’inizio della sconfitta di una delle più grandi campagne antisemite
della storia? In primo luogo, che dobbiamo avere la capacità di distinguere tra
espressioni antisemite che sono come la risacca di onde che vengono da lontano
e che emergono persino in modo inconscio, e l’antisemitismo violento,
consapevole, programmatico. Troppi ci sono caduti – persino un Benedetto Croce
– e sarebbe irresponsabile fare di ogni erba un fascio, come accade ad alcuni pseudo-storici
alla ricerca dello scandalo più che di analisi meditate. In secondo luogo, che
la capacità del pregiudizio antisemita di infiltrarsi ovunque, come effetto di
sedimenti accumulatisi nei secoli, deve chiamare alla massima vigilanza
intellettuale. La vigilanza più importante di tutte – come chiarì bene Zola
nelle frasi citate – è quella contro il pregiudizio razziale. Al razzismo non
dobbiamo concedere neppure un millimetro, e i più vigilanti, al riguardo, debbono
essere proprio gli ebrei che di tale pregiudizio sono stati vittime come pochi
altri.
Da questo punto di vista debbono preoccupare al massimo
grado le derive di certe ossessioni pseudoscientifiche contemporanee, tendenti
a ridurre ogni caratteristica mentale e culturale a differenze genetiche,
riproponendo, sotto neppure tanto mentite spoglie, la famigerata eugenetica.
Lascia sconcertati che vi sia chi si diletta di ricercare le radici genetiche
di una pretesa superiorità intellettuale degli ebrei ashkenaziti sugli altri
ebrei o degli ebrei sugli altri popoli. Alcuni anni fa Harry Ostrer, genetista
e professore presso l’Albert Einstein College of Medicine di New York, ha
pubblicato un libro su “Eredità, storia genetica del popolo ebraico” volto a
dimostrare che «ricchezza, privilegi, educazione non sono sufficienti a
spiegare che molti ebrei siano destinati a diventare avvocati o fisici
eccezionali». Insomma, sarebbe un gioco un determinismo biologico. A sua volta,
un noto genetista israeliano. Raphael Falk, ha sostenuto in un libro su “Il
sionismo e la biologia degli ebrei” una tesi che mette in gioco il sionismo: la
biologia andrebbe considerata come un collante, uno strumento atto a definire
gli ebrei come un popolo avente una sua identità biologica e che
«giustificherebbe i legami tra gli ebrei attuali e la terra che da secoli, in
modo inequivocabile, è la colla dei loro legami socio-culturali». Secondo Falk
«mentre l’eugenetica aspira a redimere la specie umana guardando in faccia le
realtà della sua natura biologica, il sionismo aspira a redimere il popolo
ebraico guardando in faccia le sua antica e distinta identità “razziale”». Il
sionismo, raggruppando gli ebrei come nazione «avrebbe conseguenze eugenetiche
profonde, arrestando la degenerazione di cui essi sono caduti preda per le
condizioni imposte nel passato». Mentre Falk considera la biologia come un
collante, Ostrer parla di “orgoglio di stirpe”: «avere 3000 anni di patrimonio
genetico può essere una fonte d’identità, e di orgoglio, come lo è avere una
storia condivisa, la cultura e la religione». Gli ebrei sono una “razza”, insiste
Ostrer. Falk guarda al sionismo come un mezzo per realizzarne la purezza.
Sono tesi che hanno suscitato polemiche e anche recensioni fortemente
critiche, come quella del noto biologo Richard Lewontin. Lascia soprattutto
sconcertati che, dopo lo sforzo poderoso di Luigi Luca Cavalli Sforza di
mostrare la totale inconsistenza scientifica del concetto di razza, vi sia
ancora gioca con simili pericolose elucubrazioni. Molti genetisti avvertiti
ripetono che la tesi che le manifestazioni mentali e culturali siano tutte
iscritte nei geni non ha il minimo fondamento. Niente da fare. L’ideologia è
più forte di qualsiasi discorso scientifico, ed essa è la compagna inseparabile
del pregiudizio. Sarebbe almeno auspicabile che simili irresponsabili scivolate
verso il razzismo non venissero mai da parte ebraica.
(Shalom, dicembre 2013)