Questo
articolo doveva essere pubblicato da giorni, sul quotidiano di cui "ero" editorialista, e di giorno in giorno è stato
rinviato, fino a che oggi rappresenta l’estremo limite perché non diventi
obsoleto. Lo propongo qui in una versione un po’ espansa.
In cambio,
al suo posto, è stato pubblicato un articolo-appello a non scioperare che
imputa allo sciopero il rigetto del tema del MERITO – insomma una predica
sull’importanza del merito. Il “bello” è che l’autore della predica è persona
che ha millantato due lauree e un master di economia mai conseguiti, e altre titoli
di “merito” inesistenti. Se, per fare una predica sul merito, si ha bisogno di
rivolgersi a una simile “autorità” vuol dire che il grado di insensibilità
etica ha raggiunto livelli impensabili.
Da oggi sono finiti i miei interventi sulla stampa. (Da intendersi come la “stampa" in generale, e non l'omonimo quotidiano su cui non ho mai scritto). Non me ne rammarico perché ho sempre detto quel che pensavo e ho pagato prezzi
molto alti per questo. Non cambierò certo in tarda età. D’ora in poi scriverò soltanto sul blog o presso chi vorrà darmi spazio in modo libero e accettabile.
“La Buona Scuola” e il crollo del buonsenso
Giorgio Israel
La narrazione (o storytelling,
come si usa dire oggi) dell’attuale conflitto sulla scuola da parte chi difende
il progetto governativo è che in Italia non si può far niente perché ogni
tentativo di riforma è bloccato da potenti forze conservatrici e la scuola ne è
l’esempio supremo. Nell’istruzione, come altrove, sono presenti forze
conservatrici e corporative, ma la rappresentazione che esse abbiano bloccato ogni
tentativo di modifica è un falso colossale. Se alcune riforme globali (i cicli
di Berlinguer, la legge Moratti) sono fallite, chi conosca appena la storia
della scuola italiana degli ultimi decenni sa che su di essa si è rovesciato un
caotico tsunami di decreti, di circolari, di sperimentazioni, di prescrizioni
che ne hanno cambiato il volto in modo profondo e, soprattutto, disorganico.
Gli insegnanti sono stati terremotati da cambiamenti introdotti per lo più in
modo subdolo e veicolati come “sperimentazione”.
Ricordiamo alcuni
eventi di questo tsunami, cominciando dalla “rivoluzione” che, pezzo a pezzo, è
stata fatta della scuola primaria sotto la ferula di “indicazioni nazionali”
l’una peggiore dell’altra. Poi è avanzata l’ideologia della sostituzione della
scuola delle conoscenze con la scuola delle “competenze”, promossa da un
network di pedagogisti e di dirigenti ministeriali che hanno imposto in modo
ossessivo la redazione di ogni documento secondo la trimurti
conoscenze–competenze–abilità e hanno inondato le scuole di griglie e documenti
di certificazione delle competenze la cui compilazione divora una parte
consistente delle attività d’insegnamento. L’ultima certificazione, in uscita
da poco, rappresenta l’apice della sadica volontà di estirpare ogni traccia di
buon senso dal mondo della scuola. Si procede fino all’esclusione di ogni
possibile valutazione negativa del rendimento dello studente. È il trionfo
della follìa del “successo formativo garantito”. Chi abbia frequentato certi
corridoi ministeriali sa che non è possibile scrivere in un documento «lo
studente, al termine del corso, saprà risolvere un’equazione di secondo grado»:
bisogna dire «sa risolvere»,
all’indicativo presente… perché la scuola garantisce il successo per decreto.
Oggi, gli insegnanti che vogliono fare il loro mestiere sono costretti a
impiegare gran parte del loro tempo a compilare scartafacci ispirati a queste
logiche demenziali. E, come se non bastasse, ora le scuole sono impegnate,
anziché a insegnare, a compilare un pesante documento di autovalutazione (RAV,
Rapporto di autovalutazione). Anche qui, se ancora avesse corso il buon senso,
l’idea che le scuole impieghino una quota considerevole di tempo a darsi un voto rispondendo a decine di
domande, potrebbe solo far parte di un libro di barzellette.
Poi è cascato sulle
spalle delle scuole l’Invalsi, un ente chiuso, composto da uno staff
inamovibile, i cui atti e le cui discutibili metodologie statistiche sono rigorosamente
sottratte da ogni valutazione, come se il più elementare buon senso non
indicasse che chi ha il potere di valutare sia il primo a dover essere
controllato con rigore. L’Invalsi ha ottenuto di sottoporre gli studenti
individualmente a test che nelle medie contribuiscono alla valutazione dello
scrutinio, introducendo una nuova materia, il “superamento dei test Invalsi”.
Ciò ha avuto come conseguenza il dilagare della disastrosa prassi del “teaching
to the test”, ormai largamente criticata all’estero da chi l’ha sperimentata
prima di noi.
E che dire della
disastrosa legge sui DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento)? Non soltanto ha
introdotto un fenomeno nuovo: la medicalizzazione della scuola; ma ha
introdotto l’idea nefasta che, al primo sintomo di difficoltà di apprendimento,
invece di ricorrere a tutti gli strumenti didattici più sofisticati, lasciando
aperta un’opportunità di crescita, con la diagnosi di DSA si inchioda il
bambino (o ragazzo) a una condizione che dovrebbe caratterizzarlo per la vita.
È un’ideologia che ha come corrispettivo gli screening genetici di massa che
effettuava il regime fascista. E, come se non bastasse, le diagnosi sono
effettuate da psicologi che, candidamente, dichiarano “discalculico” un ragazzo
senza sapere neppure cosa sia una divisione con resto. Come se questo non
bastasse si è passati ai BES (Bisogni educativi speciali) che costituiscono una
sorta di rafforzamento dei DSA.
Passando alla
questione precari, nel 2008 sembrava che si fosse aperta una via ragionevole,
sostituendo le pletoriche SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento
Secondario) con il più agile TFA (Tirocinio Formativo Attivo) e prefigurando un
reclutamento ripartito a metà tra giovani abilitati e precari. Niente da fare. Furono
riaperte le GAE (Graduatorie a esaurimento) e un’efferata collusione tra
dirigenza ministeriale e alcuni sindacati strangolò il canale di reclutamento
dei giovani. Si sono persi ben sette anni, in cui il problema del precariato
poteva essere, se non smaltito, ridotto a proporzioni gestibili. Ed ecco che
l’Europa ha intimato al governo italiano di risolverlo una volta per sempre.
Nessuno sa bene
quanti sono tutti gli aventi diritto. Centomila? Duecentomila? Di più? Cifre
ingestibili. Ma se si taglia troppo si rischiano ondate epocali di ricorsi. Di
qui il balletto di cifre nello spirito “provo a vedere se passa”. E per
nascondere la confusione attorno a questo, che è il vero problema, si è pensato
di incartarlo entro un fumoso e ambizioso progetto di riforma denominato con
deplorevole retorica “la Buona Scuola”. Ma chi si sognerebbe di chiamare una
legge “la Buona Economia”, “la Buona Sanità”, o la “Buona Previdenza”, salvo
che per fare propaganda di regime?
Nel merito delle
proposte di questo progetto ci sarebbe molto da dire, e ne abbiamo parlato in
precedenti interventi. Limitiamoci a due questioni. La prima è che esso è
ispirato a una visione secondo cui la scuola deve trasformarsi sempre di più in
una sorta di “centro sociale” al servizio della comunità, fino a favorire forme
di socializzazione quali le occupazioni, che sarebbero più formative della
didattica ordinaria. Difatti, anche qui si manifesta la volontà perversa di
marginalizzare sempre di più le discipline ordinarie. Ciò è evidente nella
tendenza a premiare gli insegnanti che organizzano attività extra-curriculari
penalizzando i poveretti cui – invece di organizzare qualche demagogico e
superficiale seminario – salti in mente l’idea di aggiornarsi in qualche
seminario universitario di storia o di matematica.
La seconda e grave
questione riguarda il ruolo (quale che ne siano le versioni) che si vuol
conferire ai dirigenti scolastici di assumere gli insegnanti e gestirne la
carriera, premiandoli o penalizzandoli secondo criteri autocratici e consentendo
loro di crearsi uno staff di collaboratori fidati. Tutto ciò per realizzare
l’autonomia scolastica. Ma anche qui vediamo che l’istruzione è il luogo dove la
ragione è stata bandita. A parte legittime discussioni circa la coesistenza tra
scuola statale e paritaria, è un fatto che la scuola italiana sia ancor oggi
un’istituzione pubblica e a gestione quasi tutta statale, ovvero finanziata dal
contribuente, il quale ha il diritto di sapere come sono spesi i suoi
quattrini. Allora, o si rimette in sesto l’antico sistema delle ispezioni,
gestite da un ministero ripulito da protagonismi che s’impongono anche ai
ministri. Oppure, si vada pure a forme di autonomia gestite dal dirigente
scolastico. Ma allora chiunque abbia una briciola di buon senso capisce che ciò
è possibile con un sistema di valutazione che deve appuntarsi tutto, e con
estremo rigore, proprio sulla categoria dei presidi, visto che sono loro ad
avere il potere di valutare i docenti! Chi
prende come metro di paragone i vasti poteri di un dirigente aziendale
privato dimentica che costui è stato dotato di tale libertà di azione da un
consiglio di amministrazione che può cacciarlo quando vuole se non reputa buono
il suo rendimento. Ma “la Buona Scuola” non propone alcun meccanismo di
valutazione dei presidi degno di questo nome. Non solo: i tentativi di
introdurre controlli analoghi a quelle delle aziende private da parte di
consigli scolastici di insegnanti e famiglie, sono risibili, e c’è da
vergognarsi di dover spiegare persino il perché. E se un controllo severo e
autentico dell’operato dei dirigenti non c’è, ve ne saranno di competenti e
rigorosi che faranno funzionare la loro scuola a meraviglia; altri che
valuteranno in modo ingiusto i professori; o creeranno le loro camarille di
collaboratori fidati; o casi, tutt’altro che improbabili in certi territori, di
chi si porrà al servizio di elenchi di reclutamento proposti dalla criminalità
organizzata. Come se non bastasse, l’ultimo mega concorso a dirigente
scolastico solleva altri dubbi: a parte il numero scandaloso dei test sbagliati
tra quelli proposti, moltissimi altri erano espressione di un’ideologia
psico-pedagogica che imponeva al candidato di manifestarsi esperto in certa
letteratura, e rendeva concreto il sospetto che il ministero volesse
selezionare una categoria di persone fidate sul piano ideologico e quindi
apprestare le condizioni per rendere la futura autonomia una mera finzione.
Il governo dovrebbe
rendersi conto di aver compiuto il capolavoro politico di creare un fronte
compatto di opposizione. Lo tsunami subito dalla scuola italiana nel corso di
tanti anni, e che ha ridotto i migliori insegnanti alla disperazione, deve
essere arrestato. L’unico modo di procedere – sotto la guida di un ministro di
altissima competenza e autorevolezza – è di procedere in modo ragionato, lento
e cauto, rimettendo insieme i pezzi attraverso il massimo di consenso.