martedì 5 maggio 2015

DA OGGI I MIEI INTERVENTI SULLA STAMPA SONO FINITI

Questo articolo doveva essere pubblicato da giorni, sul quotidiano di cui "ero" editorialista, e di giorno in giorno è stato rinviato, fino a che oggi rappresenta l’estremo limite perché non diventi obsoleto. Lo propongo qui in una versione un po’ espansa.
In cambio, al suo posto, è stato pubblicato un articolo-appello a non scioperare che imputa allo sciopero il rigetto del tema del MERITO – insomma una predica sull’importanza del merito. Il “bello” è che l’autore della predica è persona che ha millantato due lauree e un master di economia mai conseguiti, e altre titoli di “merito” inesistenti. Se, per fare una predica sul merito, si ha bisogno di rivolgersi a una simile “autorità” vuol dire che il grado di insensibilità etica ha raggiunto livelli impensabili.

Da oggi  sono finiti i miei interventi sulla stampa. (Da intendersi come la “stampa" in generale, e non l'omonimo quotidiano su cui non ho mai scritto). Non me ne rammarico perché ho sempre detto quel che pensavo e ho pagato prezzi molto alti per questo. Non cambierò certo in tarda età. D’ora in poi scriverò soltanto sul blog o presso chi vorrà darmi spazio in modo libero e accettabile.


“La Buona Scuola” e il crollo del buonsenso

Giorgio Israel




La narrazione (o storytelling, come si usa dire oggi) dell’attuale conflitto sulla scuola da parte chi difende il progetto governativo è che in Italia non si può far niente perché ogni tentativo di riforma è bloccato da potenti forze conservatrici e la scuola ne è l’esempio supremo. Nell’istruzione, come altrove, sono presenti forze conservatrici e corporative, ma la rappresentazione che esse abbiano bloccato ogni tentativo di modifica è un falso colossale. Se alcune riforme globali (i cicli di Berlinguer, la legge Moratti) sono fallite, chi conosca appena la storia della scuola italiana degli ultimi decenni sa che su di essa si è rovesciato un caotico tsunami di decreti, di circolari, di sperimentazioni, di prescrizioni che ne hanno cambiato il volto in modo profondo e, soprattutto, disorganico. Gli insegnanti sono stati terremotati da cambiamenti introdotti per lo più in modo subdolo e veicolati come “sperimentazione”.
Ricordiamo alcuni eventi di questo tsunami, cominciando dalla “rivoluzione” che, pezzo a pezzo, è stata fatta della scuola primaria sotto la ferula di “indicazioni nazionali” l’una peggiore dell’altra. Poi è avanzata l’ideologia della sostituzione della scuola delle conoscenze con la scuola delle “competenze”, promossa da un network di pedagogisti e di dirigenti ministeriali che hanno imposto in modo ossessivo la redazione di ogni documento secondo la trimurti conoscenze–competenze–abilità e hanno inondato le scuole di griglie e documenti di certificazione delle competenze la cui compilazione divora una parte consistente delle attività d’insegnamento. L’ultima certificazione, in uscita da poco, rappresenta l’apice della sadica volontà di estirpare ogni traccia di buon senso dal mondo della scuola. Si procede fino all’esclusione di ogni possibile valutazione negativa del rendimento dello studente. È il trionfo della follìa del “successo formativo garantito”. Chi abbia frequentato certi corridoi ministeriali sa che non è possibile scrivere in un documento «lo studente, al termine del corso, saprà risolvere un’equazione di secondo grado»: bisogna dire «sa risolvere», all’indicativo presente… perché la scuola garantisce il successo per decreto. Oggi, gli insegnanti che vogliono fare il loro mestiere sono costretti a impiegare gran parte del loro tempo a compilare scartafacci ispirati a queste logiche demenziali. E, come se non bastasse, ora le scuole sono impegnate, anziché a insegnare, a compilare un pesante documento di autovalutazione (RAV, Rapporto di autovalutazione). Anche qui, se ancora avesse corso il buon senso, l’idea che le scuole impieghino una quota considerevole di tempo a darsi un voto rispondendo a decine di domande, potrebbe solo far parte di un libro di barzellette.
Poi è cascato sulle spalle delle scuole l’Invalsi, un ente chiuso, composto da uno staff inamovibile, i cui atti e le cui discutibili metodologie statistiche sono rigorosamente sottratte da ogni valutazione, come se il più elementare buon senso non indicasse che chi ha il potere di valutare sia il primo a dover essere controllato con rigore. L’Invalsi ha ottenuto di sottoporre gli studenti individualmente a test che nelle medie contribuiscono alla valutazione dello scrutinio, introducendo una nuova materia, il “superamento dei test Invalsi”. Ciò ha avuto come conseguenza il dilagare della disastrosa prassi del “teaching to the test”, ormai largamente criticata all’estero da chi l’ha sperimentata prima di noi.
E che dire della disastrosa legge sui DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento)? Non soltanto ha introdotto un fenomeno nuovo: la medicalizzazione della scuola; ma ha introdotto l’idea nefasta che, al primo sintomo di difficoltà di apprendimento, invece di ricorrere a tutti gli strumenti didattici più sofisticati, lasciando aperta un’opportunità di crescita, con la diagnosi di DSA si inchioda il bambino (o ragazzo) a una condizione che dovrebbe caratterizzarlo per la vita. È un’ideologia che ha come corrispettivo gli screening genetici di massa che effettuava il regime fascista. E, come se non bastasse, le diagnosi sono effettuate da psicologi che, candidamente, dichiarano “discalculico” un ragazzo senza sapere neppure cosa sia una divisione con resto. Come se questo non bastasse si è passati ai BES (Bisogni educativi speciali) che costituiscono una sorta di rafforzamento dei DSA.
Passando alla questione precari, nel 2008 sembrava che si fosse aperta una via ragionevole, sostituendo le pletoriche SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) con il più agile TFA (Tirocinio Formativo Attivo) e prefigurando un reclutamento ripartito a metà tra giovani abilitati e precari. Niente da fare. Furono riaperte le GAE (Graduatorie a esaurimento) e un’efferata collusione tra dirigenza ministeriale e alcuni sindacati strangolò il canale di reclutamento dei giovani. Si sono persi ben sette anni, in cui il problema del precariato poteva essere, se non smaltito, ridotto a proporzioni gestibili. Ed ecco che l’Europa ha intimato al governo italiano di risolverlo una volta per sempre.
Nessuno sa bene quanti sono tutti gli aventi diritto. Centomila? Duecentomila? Di più? Cifre ingestibili. Ma se si taglia troppo si rischiano ondate epocali di ricorsi. Di qui il balletto di cifre nello spirito “provo a vedere se passa”. E per nascondere la confusione attorno a questo, che è il vero problema, si è pensato di incartarlo entro un fumoso e ambizioso progetto di riforma denominato con deplorevole retorica “la Buona Scuola”. Ma chi si sognerebbe di chiamare una legge “la Buona Economia”, “la Buona Sanità”, o la “Buona Previdenza”, salvo che per fare propaganda di regime?
Nel merito delle proposte di questo progetto ci sarebbe molto da dire, e ne abbiamo parlato in precedenti interventi. Limitiamoci a due questioni. La prima è che esso è ispirato a una visione secondo cui la scuola deve trasformarsi sempre di più in una sorta di “centro sociale” al servizio della comunità, fino a favorire forme di socializzazione quali le occupazioni, che sarebbero più formative della didattica ordinaria. Difatti, anche qui si manifesta la volontà perversa di marginalizzare sempre di più le discipline ordinarie. Ciò è evidente nella tendenza a premiare gli insegnanti che organizzano attività extra-curriculari penalizzando i poveretti cui – invece di organizzare qualche demagogico e superficiale seminario – salti in mente l’idea di aggiornarsi in qualche seminario universitario di storia o di matematica.
La seconda e grave questione riguarda il ruolo (quale che ne siano le versioni) che si vuol conferire ai dirigenti scolastici di assumere gli insegnanti e gestirne la carriera, premiandoli o penalizzandoli secondo criteri autocratici e consentendo loro di crearsi uno staff di collaboratori fidati. Tutto ciò per realizzare l’autonomia scolastica. Ma anche qui vediamo che l’istruzione è il luogo dove la ragione è stata bandita. A parte legittime discussioni circa la coesistenza tra scuola statale e paritaria, è un fatto che la scuola italiana sia ancor oggi un’istituzione pubblica e a gestione quasi tutta statale, ovvero finanziata dal contribuente, il quale ha il diritto di sapere come sono spesi i suoi quattrini. Allora, o si rimette in sesto l’antico sistema delle ispezioni, gestite da un ministero ripulito da protagonismi che s’impongono anche ai ministri. Oppure, si vada pure a forme di autonomia gestite dal dirigente scolastico. Ma allora chiunque abbia una briciola di buon senso capisce che ciò è possibile con un sistema di valutazione che deve appuntarsi tutto, e con estremo rigore, proprio sulla categoria dei presidi, visto che sono loro ad avere il potere di valutare i docenti! Chi  prende come metro di paragone i vasti poteri di un dirigente aziendale privato dimentica che costui è stato dotato di tale libertà di azione da un consiglio di amministrazione che può cacciarlo quando vuole se non reputa buono il suo rendimento. Ma “la Buona Scuola” non propone alcun meccanismo di valutazione dei presidi degno di questo nome. Non solo: i tentativi di introdurre controlli analoghi a quelle delle aziende private da parte di consigli scolastici di insegnanti e famiglie, sono risibili, e c’è da vergognarsi di dover spiegare persino il perché. E se un controllo severo e autentico dell’operato dei dirigenti non c’è, ve ne saranno di competenti e rigorosi che faranno funzionare la loro scuola a meraviglia; altri che valuteranno in modo ingiusto i professori; o creeranno le loro camarille di collaboratori fidati; o casi, tutt’altro che improbabili in certi territori, di chi si porrà al servizio di elenchi di reclutamento proposti dalla criminalità organizzata. Come se non bastasse, l’ultimo mega concorso a dirigente scolastico solleva altri dubbi: a parte il numero scandaloso dei test sbagliati tra quelli proposti, moltissimi altri erano espressione di un’ideologia psico-pedagogica che imponeva al candidato di manifestarsi esperto in certa letteratura, e rendeva concreto il sospetto che il ministero volesse selezionare una categoria di persone fidate sul piano ideologico e quindi apprestare le condizioni per rendere la futura autonomia una mera finzione.

Il governo dovrebbe rendersi conto di aver compiuto il capolavoro politico di creare un fronte compatto di opposizione. Lo tsunami subito dalla scuola italiana nel corso di tanti anni, e che ha ridotto i migliori insegnanti alla disperazione, deve essere arrestato. L’unico modo di procedere – sotto la guida di un ministro di altissima competenza e autorevolezza – è di procedere in modo ragionato, lento e cauto, rimettendo insieme i pezzi attraverso il massimo di consenso.

giovedì 30 aprile 2015

Una domanda e una risposta

Solo ora apprendo che il gruppo noInvalsi mi ha posto una domanda:
https://genitoreattivo.wordpress.com/2015/02/18/sono-emendabili-i-quiz-invalsi-una-domanda-al-prof-israel/

Questa è la mia risposta:

Per avere una funzione accettabile, l'Invalsi dovrebbe emendarsi in modo profondo: 1) limitare la propria funzione a un’analisi di sistema, il che significa privilegiare un approccio statistico campionario e non censuario e svolgere ricerca didattica; 2) dismettere la pretesa di voler valutare direttamente gli alunni (e indirettamente i professori) il che significa, in particolare rinunciare alla prova di terza media che interviene nella valutazione di scrutinio, e non pensare neppure a mettere i piedi nell’esame di maturità; 3) sottoporre a valutazione i metodi statistici usati, in modo aperto; 4) aprire le finestre e consentire un ricambio del personale, mentre ora lo staff è inamovibile e oppone un rifiuto totale a qualsiasi confronto e prospettiva di inclusione di elementi nuovi; 5) accettare di discutere le modalità di selezione dei test e un confronto sul loro contenuto.
Dopo interminabili polemiche risulta che non una di queste condizioni è accettabile dall’ente. Pertanto, penso anch’io che non vi sia alcuna possibile transazione e non resta altro che un’opposizione totale. È da anni che mi batto contro la distruzione del valore culturale della scuola promossa da un network economicista vicino a Confindustria. Figuriamoci quindi se non sono d'accordo. 



mercoledì 29 aprile 2015

lunedì 20 aprile 2015

Addio Toaff, il rabbino amico del dialogo

Con la morte di Elio Toaff viene a mancare quella che, senza ombra di dubbio, può essere considerata la massima personalità dell’ebraismo italiano del ventesimo secolo. Mi limiterò ad alcuni ricordi che mi si affollano alla mente, perché vi saranno altre occasioni per un’analisi approfondita della sua multiforme presenza pubblica, dall’impegno nella lotta antifascista alla difesa intransigente e coraggiosa delle comunità ebraiche nei momenti difficili che culminarono nell’attentato terrorista che provocò la morte del piccolo Stefano Taché, nel 1982. Fu l’episodio finale di un’ondata di odio che aveva visto un corteo sindacale deporre una bara davanti alla lapide dei deportati sul Tempio Maggiore di Roma. In quella occasione egli mi chiamò a partecipare accanto a lui alla campagna di condanna di quell’ignobile gesto, il che riuscì a fare con quella miscela di fermezza e di cordiale bonomia che caratterizzava tutti i suoi comportamenti, ottenendo un’esplicita autocritica. Inutile dire che, con l’accoglienza di Papa Giovanni Paolo II nel Tempio Maggiore, al suo nome resta legato uno degli eventi più importanti nella storia dei rapporti ebraico-cristiano che ne ha cambiato il corso in modo incancellabile.
Ma nei ricordi che si affollano in questi momenti emozionati, su tutto spicca la sua visione aperta e colta dell’ebraismo, capace di imporsi e comunicare nei rapporti con l’esterno. Il suo più brillante insegnamento è stato quello di conciliare la visione tradizionalmente ortodossa dell’ebraismo italiano con un atteggiamento aperto e inclusivo, capace di trasmettere i valori ebraici validi per tutti e comprensibili da chiunque. E tra i ricordi si affollano per primi sono quelli personali: ho avuto un legame affettivo con lui fin da piccolo, quando presenziò alla mia Bar Mizvà (il rito d’ingresso di un ragazzo nella comunità) che curò con particolare attenzione per il legame che aveva sempre avuto con mio padre Saul, in particolare con due iniziative da lui fondate, la rivista Ha-Makor e il Centro di Studi Ebraici  per cui scrisse articoli e tenne conferenze. Il legame con mio padre si mantenne così intensamente che egli si precipitò alla sua morte per benedirlo con un’intensità che ancor oggi non posso non ricordare con commozione. E così ricordo con commozione l’affetto con cui accolse nella comunità il mio primo figlio.
Come ho già detto, la sua personalità intellettuale e religiosa richiede un’analisi ben più approfondita. In questo momento prevale l’emozione dei ricordi e il dolore per la perdita di una persona dal grande cuore, capace sempre di suscitare rispetto e farti sentire a proprio agio. La tua morte, Elio Toaff, non è un abbandono: la tua figura rimarrà nel cuore degli ebrei italiani come un esempio da seguire e un incoraggiamento ad andare avanti.


(Il Messaggero, 20 aprile 2015)

sabato 7 marzo 2015

L’istruzione senza risorse e le priorità da ridefinire


L’unica cosa chiara della vicenda della riforma della “buona scuola” è che quella che era stata indicata fin dai primi giorni del governo Renzi come una delle priorità assolute sta passando in seconda, terza o quarta linea. Sarebbe facile parlare di una sconfitta dei propositi decisionisti e dell’ottimismo che li ispirava, ma forse, a mente fredda, sarebbe meglio considerare questi passi indietro come una necessaria resa al buon senso e al realismo. Quando una problematica è stata resa troppo complicata – al punto che qualcuno considera addirittura la scuola italiana come irriformabile – credere di poterne uscir fuori con il metodo del taglio dei nodi gordiani, è un’illusione. Per anni – diciamo pure per decenni – la scuola italiana è stata sottoposta a una valanga di interventi parziali, di “sperimentazioni” avventate e anche da riforme complessive, come quella Moratti, il cui impianto fortemente ideologico ha suscitato tante critiche e diffidenze da non farle mai diventare operative, con il solito sistema di bloccarne i decreti attuativi.
Frattanto, i problemi non hanno fatto che aggravarsi e incancrenirsi, in un va e vieni di decisioni dettate da pressioni corporative e da interessi elettorali, spesso in contraddizione tra loro a seconda dell’avvicendarsi dei governi, in particolare per quel che riguarda il problema  del precariato, con la chiusura e la riapertura delle graduatorie che hanno gonfiato a dismisura e mai svuotato secondo un piano organico il serbatoio degli “aventi diritto”. E tutto ciò è avvenuto mentre l’unico punto fermo dello scenario è stata la quantità decrescente delle risorse dedicate al sistema dell’istruzione (inclusa l’università) a livelli di penuria che hanno pochi riferimenti all’estero. In queste condizioni, pensare di risolvere tutto d’un colpo, con le modeste risorse disponibili, o addirittura a risorse ancora decrescenti, era ed è una pia illusione. Qualcuno nel governo aveva avventatamente motivato il ricorso al decreto legge d’urgenza come un modo per non cacciarsi nella “palude” del parlamento. Ora si parla di voler mostrare una maggiore attenzione per questa “palude”, ma sarebbe meglio riconoscere che imboccando la linea delle riforme radicali significherebbe cascare dentro una palude ben più pericolosa e capace di inghiottire i più esperti esploratori. Di fronte a un terreno ridotto a sabbie mobili la scelta più saggia è procedere a piccoli passi, sondando il terreno, seguendo un piano preciso (soprattutto se si ritiene di avere di fronte a sé un tempo di governo abbastanza lungo) e chiamando i vari attori a un atteggiamento responsabile che accetti di contemperare le varie esigenze.
Pensare di risolvere il problema dei precari d’un sol colpo è velleitario: ci permettiamo di dubitare che persino al ministero non abbiano un’idea del tutto precisa dei numeri e dei vari “diritti”. Inoltre – teniamo sempre sullo sfondo la questione delle risorse fisse o decrescenti – scegliere questa via significa chiudere la porta ai giovani per i prossimi dieci e venti anni, costruendo una scuola di insegnanti anziani, in barba agli slogan giovanilisti. Sette anni fa, quando si procedette a una profonda revisione del processo di formazione degli insegnanti (con il TFA, Tirocinio Formativo Attivo), la prospettiva che sembrava ineludibile, anche se avrebbe creato scontentezze da tutti i lati, era un immissione graduale dei precari assieme a una immissione numericamente pari di nuove leve. Poi si è fatto di tutto per scassare e rendere ridicolo il nuovo sistema senza affrontare in modo organico e metodico il problema delle graduatorie, e ora ci ritroviamo daccapo. Non sarebbe meglio prendere atto che non esiste alcuna altra via ragionevole.
Anche senza prendere posizione sul tema del finanziamento delle scuole paritarie è fin troppo facile osservare che in una situazione di carenza di risorse – che vede scuole il cui tetto cade a pezzi, con i bagni rotti e senza i quattrini per la carta igienica – spostarne a favore delle scuole paritarie rischia di attizzare una polemica devastante che alla fine sfocerà in un conflitto tra laici e cattolici di cui non v’è affatto bisogno. È ben vero che le scuole paritarie hanno in certi casi un ruolo di supplenza, ma questo accade soprattutto a livello delle scuole dell’infanzia e delle primarie per cui, non aumentare o addirittura diminuire – tramite il proposito sconsiderato di tagliare di un anno i licei – significa lasciare andare allo sbando le scuole superiori, ancora prevalentemente statali. Insomma, molti propositi possono essere eccellenti, ma se non vi sono risorse e se, addirittura, si mette in opera una cosmetica che nasconde malamente altri tagli, è meglio guardare la realtà in faccia, essere sinceri, dire che i quattrini non ci sono – o non si vogliono dare – per l’istruzione e definire una scala di priorità.
Lo stesso discorso vale per i numerosi altri temi affrontati dal progetto della “buona scuola”. Anche qui tralasciamo di entrare nel merito di certi propositi che, a nostro avviso, sono largamente discutibili: non basta parlare di “merito” perché ciò sia necessariamente un bene, se la promozione e la verifica del merito sono mal congegnate e rischiano di dar luogo a fenomeni clientelari. Il punto – ancora una volta – è un buon sistema di valutazione costa, e non poco e tanto più viene realizzato con i fichi secchi tanto più si adatta soltanto a nozze di infima categoria. Nessuno vuole nascondere l’esistenza di strati di docenti mal preparati e poco disposti ad aggiornarsi e a impegnarsi: ma l’impegno deve consistere nel mostrare buone competenze nell’insegnamento delle materie di base che qualificano una buona scuola, come la matematica, l’italiano, le scienze, la storia, e non nel mascherare l’incompetenza dietro un attivismo nel promuovere i cosiddetti “progetti” che spesso consistono nel trasformare una lezione di storia o geografia in una chiacchierata a ruota libera su temi di attualità.
Un discorso analogo vale per l’insegnamento delle lingue straniere e in particolare dell’inglese. Tutti sanno che abbiamo pochi insegnanti di inglese davvero competenti (per non dire delle altre lingue). Qual è allora il senso, anziché di adoperarsi a potenziare questa che è la vera priorità lanciare il progetto dell’insegnamento in lingua inglese di una materia nell’ultimo anno delle superiori per poi ammettere che non esiste personale adatto a farlo, e trasferire il proposito al quarto e quinto anno delle elementari? È un modo di procedere che assomiglia troppo allo smercio di perline per incantare gli sprovveduti. Potremmo aprire un discorso analogo sull’edilizia scolastica, lanciata con gran rullo di tamburi e da tempo ferma al palo.
Sarebbe quindi importante per il bene del paese, della sua scuola (e anche per la salute del governo) cogliere l’occasione di questo passo indietro per una riflessione ispirata al realismo e al buon senso che parta da una chiarezza estrema sul punto cruciale: quali risorse si vogliono mettere nella scuola? E di qui passare alla definizione di una scala di priorità.


(Il Messaggero e Il Mattino, 4 marzo 2015)

mercoledì 25 febbraio 2015

Basta con la politica degli annunci

La politica degli annunci non è una cosa buona, ma se c’è un contesto nel quale occorrerebbe rigorosamente astenersene è quello dell’istruzione. La scuola è stata trafitta per decenni da politiche di annunci che si sono tradotti in nocive sperimentazioni o sono finiti nel nulla, come il progetto di riforma dei cicli di Luigi Berlinguer. Il caso più clamoroso è quello di un’intera riforma – la Moratti – che, in assenza di decreti attuativi, è rimasta sulla carta. Molti di questi “annunci” erano espressione delle teorie di pedagogisti di stato organici alla classe politica al governo. Ora, a giudicare da quel che venuto fuori dalla presentazione promossa dal premier Renzi siamo passati all’annuncio di un bricolage di pezzi mal congegnati tra loro e provenienti da strani pensatoi. Sta di fatto che la scuola, a forza di annunci, di riforme mai fatte e di sperimentazioni avventate è diventata un terreno melmoso su cui anche il governo più determinato rischia di lasciare le penne, soprattutto se si avventura a indicarlo come decisivo per il futuro del paese. Certo, bisognerà attendere il testo dei decreti o disegni di legge per un giudizio definitivo, ma gli annunci non indicano un pensiero progettuale chiaro. Proviamo a elencare una decina di punti che destano più perplessità.
Edilizia. È il tema su cui Renzi si è speso fin dalla sua nomina, un anno fa e su cui, puntualmente, non è successo nulla. Non solo perché non è chiaro da dove verrà fuori il miliardo necessario, ma perché non si è affrontata di petto la questione delle modalità degli appalti, delle procedure, ecc. Troppi sono i casi di scuole che hanno iniziato ristrutturazioni finite nel nulla – come i tronconi di autostrada finiti per aria – per non considerare questa questione come prioritaria. Quando si sente di discussioni bizantine circa le modalità di gestione delle ristrutturazioni, se da affidare ai singoli istituti o a gruppi territoriali di istituti di cui uno avrebbe la funzione direttiva, viene da tremare.
Concorsi e precari. Questa è la madre di tutti gli annunci: non si accederà al ruolo di insegnante se non per concorso. Peccato che questo accadrà dopo una colossale infornata ope legis di precari, non è chiaro se dell’ordine di 120.000 o più. Un paradosso degno delle filosofie antiche. Oltretutto, questa assunzione ope legis sarà un gigantesco tappo che renderà virtuale il bando di nuovi concorsi: un infimo rivoletto contrabbandato per rivoluzione epocale. Di fatto, per molti anni, non vi sarà spazio per l’ingresso di nuovi insegnanti, altro che “largo ai giovani”. Certo, qualcosa si doveva fare, a fronte di graduatorie immense di aventi diritto, ma una via era stata indicata a fine 2008 con l’introduzione del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), il ritorno ai concorsi, e la prospettiva di ripartire a metà l’assunzione dei nuovi docenti tra giovani e iscritti alle graduatorie. Il TFA è stato strangolato e, dopo sette anni si ripropone problema di assumere i precari d’un colpo solo. Non è colpa di questo governo, d’accordo, ma non si venga a gabellare questa scelta come il trionfo della meritocrazia solo perché in un lontano futuro si tornerà a qualche sparuto concorso.
Assunzione degli insegnanti per merito. Il merito è il tema cruciale. Nulla si può obiettare contro il principio che un insegnante deve essere scelto per il suo merito. In linea di principio, neppure si può obiettare contro l’idea di attribuirne il potere al dirigente scolastico. A una serie di condizioni, che sono anni luce lontane dai propositi circolanti. La prima condizione è che il dirigente scolastico sia un solido competente, il primo degli insegnanti della scuola per cultura e autorevolezza: un vero e proprio preside e non un manager stile “dirigente Asl”. Insomma, un personaggio ben diverso da quello disegnato dall’ultimo scandaloso concorso per dirigenti scolastici: un mix di capacità da quiz televisivo e di competenze tecno-didattiche-pedagogiche stabilite nei pensatoi ministeriali con stile da regime sovietico. In secondo luogo, vi è qualcosa che occorre dire senza insopportabili ipocrisie: il nostro sistema, come in gran parte d’Europa, non è privatistico, ma è un sistema pubblico a prevalenza statale. Blaterare di “autonomia” come se le scuole fossero enti privati che si autofinanziano è una indecente presa in giro. Uno stato che paga un istituto non può non controllarne in qualche modo la gestione: vi saranno certamente istituti in cui il preside agirà secondo criteri ineccepibili, altri in cui – pur essendo di indiscussa probità personale – si troverà sottoposto a pressioni insostenibili. Vogliamo offrire un altro terreno di affari alla criminalità organizzata? Il minimo che andrebbe previsto – senza tornare a centralismi ministeriali – è una commissione di assunzione composta dal preside e da altri due provenienti da altre città. È costoso? Le nozze non si fanno con i fichi secchi.
Carriera degli insegnanti per merito. Anche qui nascono obiezioni analoghe a quelle sollevate al punto precedente, con due aggravanti. Su che basi saranno valutati gli insegnanti per la progressione della carriera? Sulla base delle loro competenze nelle discipline d’insegnamento e della qualità della loro didattica, o sulla capacità di organizzare attività collaterali o di sostegno, come è stato adombrato? Nel secondo caso, sarà premiato chi organizza ricerche sulla sostenibilità ambientale o sulla teoria del gender e penalizzato il poveretto che ha “perso” tempo a seguire un corso universitario su argomenti di matematica o di letteratura. E chi valuterà? Il profilarsi delle figure dei docenti “tutor” e “mentor” fa rabbrividire, in un paese in cui ogni incarico diventa subito un privilegio castale. È facile prevedere il formarsi di camarillas formate dal dirigente scolastico e dai suoi mentor che mettono all’angolo chi non si adegui alle loro direttive didattiche pur se discutibili. Ci si dovrebbe mettere in mente che la valutazione dei docenti non può prescindere da un giudizio “peer to peer” (tra pari) derivante da commissioni composte oltre che dal preside, da docenti di altre scuole e città, in modo da favorire, nel confronto, l’unico obbiettivo che da senso alla valutazione: la crescita culturale. È costoso? Valga quanto detto al punto precedente.
Dicevamo di sperimentazioni nefaste, annunci di leggi abortite e ora di un bricolage di annunci fumosi. In verità, in mezzo a questa nebbia, l’unico nucleo che emerge come una conquista politicamente condivisa a destra e sinistra, l’unico solido trionfo (purtroppo) delle politiche berlusconiane è la scuola delle tre “i”, che ormai tutti accettano. Vediamo come si configura la scuola delle tre “i” nella politica renziana degli annunci.
Internet. Neanche il più incallito dei conservatori può negare la necessità di informatizzare la scuola. Ma c’è modo e modo. Pare che ora si prenda atto del fallimento dell’introduzione delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali) e si proponga in cambio l’autonomia completa. Ogni istituto si digitalizza come gli pare. Così avremo l’istituto dove si usa solo carta e penna, quello dove si preferiscono i computer, quello dove si opta per una miscela di libri e tablet, e quello dove si adotta il tablet puro. Bisognerebbe poi vedere che tipo di tablet, perché se ogni studente fosse libero di scegliersi il suo modello, si perderebbe metà dell’anno a stabilire un linguaggio comune, per non dire dei dramma di chi passi da un istituto a un altro… Immaginiamo anche quale proliferazione demenziale di “libri” e supporti didattici seguirebbe da una simile liberalizzazione. Non siamo fautori del modello cinese, in cui esiste un solo manuale di matematica per le primarie in tutto il paese, ma esistono vie di mezzo ragionevoli.
Coding. V’è un’altra dimensione dell’informatica che si parla di introdurre nelle scuole: lo studio dell’“informatica” come materia, attraverso l’addestramento ai procedimenti logici che presiedono alla formazione dei programmi (“coding”). A parte che questa, se fatta seriamente, è roba di livello universitario, si potrebbe accettare che i principi di base della programmazione vengano spiegati ai ragazzi, a condizione di non pretendere che ne diventino soggetti attivi. Di fatto, sembra che si tratti di un ristretto modulo di insegnamento di logica che, in assenza di risorse, dovrebbe essere svolto dall’insegnante di filosofia. Così il minimalismo si associa allo scempio culturale, simile all’introduzione della materia “geostoria” nella riforma Gelmini. E qui è ancor peggio, perché si finisce col contrabbandare l’idea che la filosofia sia nient’altro che filosofia analitica – una visione che oltre ad essere obsoleta è comunque talmente discutibile da non poter essere introdotta di straforo per via burocratica.
Inglese. La situazione è analoga a quella dell’informatica e del coding. Un conto è promuovere l’insegnamento dell’inglese a tutti i livelli, a condizione di farlo seriamente con insegnanti adeguati. Ma qui si vuol fare molto di più, e cioè – seguendo sconsiderate scelte che hanno adottato paesi a scarso spessore culturale e che mai adotterebbero paesi con una più consistente tradizione letteraria e culturale – insegnare intere materie in inglese. È il cosiddetto Clil (Content and Language Integrated Learning). Qualsiasi cosa se ne pensi, anche una cosa del genere non si realizza con i fichi secchi. Quando si apprende che l’insegnamento Clil di una materia dell’ultimo biennio delle scuole superiori è per ora sospeso per carenza di insegnanti preparati, mentre il governo prospetta di introdurre una materia in inglese per il 3° e 4° anno delle scuole elementari, non si sa se ridere o piangere. Dove trovare i maestri destinati a insegnare matematica o storia a bambini di 8-9 anni che non sanno ancora parlare in italiano, mentre, d’altro lato, si straparla di dare una coscienza nazionale agli immigrati attraverso l’insegnamento dell’italiano a scuola? Sembra di vivere in un film di Alberto Sordi.
Impresa. Ci inchiniamo al valore dell’impresa, ma non siamo propensi ad accettare le teorie secondo cui la scuola si salva considerandola un’impresa, perché la conoscenza non è un prodotto, gli insegnanti non sono produttori e alunni e famiglie non sono utenti. Non insistiamo su questo punto toccato molte volte perché tanto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ciò non toglie che l’idea di creare una connessione tra scuola e lavoro, attraverso un’alternanza tra didattica ed esperienze in azienda, è buona. Ma anche qui occorre essere chiari e di chiarezza non se ne vede punto, perché non sono precisate le modalità e i contesti in cui dovrebbero realizzarsi queste esperienze, e la loro differenziazione secondo i vari tipi d’istruzione. Oppure si vuole soltanto far passare la sciagurata idea secondo cui il ragazzo deve decidere cosa fare entro i 14 anni e usare la scuola come piattaforma di creazione di addetti per le imprese, a costo zero, secondo un tipico stile italico?
Nuove materie. La sensazione che si voglia sgretolare l’assetto disciplinare, colpendo le materie fondamentali, come matematica, storia, letteratura, scienze, si fa forte quando si prospetta un affollamento di altre materie, come storia dell’arte, economia, materie giuridiche – e fin qui passi, a condizione che si dica chi “paga” nell’invariato monte ore – e altre da cui sarebbe meglio tenersi alla larga, come educazione alla cittadinanza ed ecologia: l’educazione civica nasce dalla coscienza storica e non dalle prediche politicamente corrette. Più in generale, in questo confuso panorama, non si spende una parola per l’educazione al pensiero critico. Qualche buontempone continua a voler far credere che questa educazione si riduce alla capacità di risolvere problemi, il “problem solving”. Peccato che, anche nella matematica, la scienza che dà più certezze, esistono molti problemi che non si possono risolvere ed è proprio riflettendo attorno a questi problemi che si acquisisce un pensiero critico e competenze scientifiche (oltre a cogliere il profondo legame tra la cultura scientifica e umanistica). Ma di queste “chiacchiere” sembra che non importi a nessuno.


(Il Foglio 23 febbraio 2015)