Di fronte al dilagare di una letteratura antireligiosa vasta come non mai la mente potrebbe correre a Voltaire e alle pungenti irrisioni delle “superstizioni” religiose contenute nel suo Dictionnaire philosophique. Del resto, Voltaire è il modello di un libro come I dieci comandamenti nel ventunesimo secolo di Fernando Savater e l’illuminismo viene diffusamente evocato come il manifesto del libero pensiero razionale contro l’irrazionalismo dei credenti. Ma tracciare un parallelismo con Voltaire non sarebbe corretto, come non è corretto equiparare l’agnosticismo di Bertrand Russell (nel suo Perché non sono cristiano) – per quanto espresso con toni virulenti – all’ateismo militante di certi suoi mediocri epigoni contemporanei. Voltaire non era ateo bensì deista, e anzi scoccava frecce acuminate contro l’ateismo, e se oggi le sue considerazioni sui testi testamentari appaiono ingenue e grossolane, occorre ricordare che si era ai primi passi della storiografia critica moderna di cui lo stesso Voltaire fu uno degli iniziatori. Oggi scrivere come allora non è più ammissibile. D’altra parte, la lettura degli scritti di Voltaire sull’opera scientifica di Newton – comparata con quella di Descartes e di Leibniz – rivela un’accuratezza considerevole e anche una notevole attenzione agli aspetti teologici della visione newtoniana, tanto più apprezzabile in quanto Voltaire non poteva conoscere gli scritti teologici di Newton e aveva un’idea approssimativa delle sue concezioni religiose.
Esiste insomma un impressionante divario culturale – espressione di un degrado intellettuale inquietante – con i testi dell’ateismo antireligioso di oggi, per lo più firmati da scienziati. Richards Dawkins, nel suo libro L’illusione di Dio, appare preoccupato dall’esigenza di mostrare che, nonostante quel che si crede, quasi nessuno scienziato era davvero religioso. Egli appare soprattutto ansioso di provare che la religiosità di Einstein era tale soltanto di nome. Allo scopo egli ripropone la distinzione tra teismo, deismo e panteismo in modo consono ai suoi fini. Il teismo è l’abbietta credenza in un Dio personale. Il deismo è una visione a mezza strada, più nobile in quanto propone una visione di Dio come una sorta di intelligenza cosmica, ma non del tutto liberato dalla visione personalistica, una sorta di «teismo annacquato». Invece, il panteismo sarebbe nient’altro che un ateismo che concede alla religione soltanto il vezzo di usare il nome di Dio: un «ateismo “ornato”». Ora, si può pensare quel che si vuole del panteismo – e legittimamente ritenere che esso implichi il rischio di declinare verso l’ateismo – ma non che esso sia identico all’ateismo e che Spinoza sia il maestro dell’ateismo nella storia della filosofia. Se non altro, chi compie simili identificazioni dovrebbe tener conto delle ricerche recenti che hanno mostrato la derivazione della formula Deus sive Natura da correnti religiose cabbalistiche e precisamente nella “ghematria” (o equazione numerologica) che identifica uno dei nomi di Dio (Elohim) con la natura (ha-Teva). Si tratta di un’idea che, ripercorsa all’indietro, riporta a fonti della teologia medioevale (a Maimonide, in particolare) e, in avanti, conduce alla visione del libro divino come chiave che permette di comprendere il libro della natura. Questa visione divenne un tema centrale del pensiero rinascimentale e, a sua volta, condusse – attraverso una serie di passaggi – all’idea di Galileo secondo cui il libro della natura è stato scritto da Dio in linguaggio matematico. Quindi, le radici del panteismo ci riportano a un’idea di una stretta solidarietà tra religione e razionalità scientifica, la quale è peraltro caratteristica del pensiero di gran parte dei protagonisti della rivoluzione scientifica. Eppure, l’interpretazione del panteismo come ateismo è oggi diventata il cavallo di battaglia della polemica antireligiosa dello scientismo ateo e non c’è nulla che riesca a scalfire questo slogan ripetuto acriticamente, come dimostrano gli inutili tentativi compiuti da Paul Ricœur nel suo libro-dialogo La natura e la regola con il neurologo Jean-Pierre Changeux. Il fatto è che si tratta di uno slogan utile. Serve a Dawkins per “dimostrare” che Einstein era ateo e che la religione per lui era nient’altro che la convinzione che esistano leggi scientifiche universali che governano la natura. A prendere Dawkins alla lettera, la frase einsteiniana che tanto lo infastidisce – “La scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca” – diventerebbe una ridicola filastrocca del tipo: “La scienza senza scienza è zoppa, la scienza senza scienza è cieca”… Al contrario, quella frase contiene un’idea molto profonda e cioè che la razionalità scientifica non può avanzare se non è sorretta da una coscienza della trascendenza – la convinzione che esistono fattori non suscettibili di fondamento razionale, per dirla proprio con Einstein – e, viceversa, che gli occhi con cui la religione guarda al mondo naturale sono inevitabilmente quelli dell’intelletto razionale scientifico. Dawkins si guarda bene dal citare la frase di Einstein secondo cui «un legittimo conflitto tra scienza e religione non può esistere» – che nella sua vulgata diventerebbe un conflitto tra scienza e scienza… – perché il suo scopo è di alimentare questo conflitto a tutti i costi. La manifestazione più evidente di questa faziosità rissosa si ha a proposito di Newton. Non sappiamo se Dawkins abbia letto la celebre conferenza di John Maynard Keynes in cui l’economista inglese, dopo aver acquistato all’asta e letto gli scritti teologici di Newton dichiarava: «A partire dall’Ottocento, Newton è stato visto come il primo e più grande degli scienziati moderni, un razionalista, uno che ci ha insegnato a pensare nei termini di una ragione fredda e incontaminata… Non lo vedo in questa luce…». Keynes lo descriveva come un religioso, un «monoteista giudaico della scuola di Maimonide», con un’accentuata propensione al misticismo. Che Dawkins abbia letto o no questa conferenza, che sappia o no della religiosità di Newton dalla letteratura di storia della scienza, è evidente che il grande scienziato rappresenta per lui un problema non superabile neppure col trucco dell’equazione panteismo = ateismo. Egli se la cava dicendo che Newton «sosteneva» di essere religioso, ma che così facevano tutti fino all’Ottocento, «fino al momento in cui si allentò la pressione sociale e giudiziaria alla professione di fede». Insomma, un vero scienziato o è ateo (o panteista che dirsi voglia) oppure fa finta di essere religioso per paura. Quelli che ancor oggi dicono di esserlo, se non lo fanno per residue condizioni di oppressione, sono semplicemente degli imbecilli, anzi dei “cretini”.
Ci siamo soffermati a lungo su questo esempio per mostrare la straordinaria povertà intellettuale e il carattere truffaldino di questi testi che vengono sostenuti – come un bastone sostiene l’incedere di uno zoppo – da una dose smisurata di insulti e improperi nei confronti dei religiosi e di Dio medesimo (che si tratti del «Dio delinquente e psicotico dell’Antico Testamento» o di Gesù Cristo). Quel che è tragicamente comico è che il fanatismo e l’intolleranza delle religioni vengono denunciati con accenti violentemente fanatici e intolleranti: la possibilità che qualcuno osi accostare il Dio «metaforico e panteistico dei fisici» a quello delle religioni – ovvero quel che qui abbiamo osato – viene preclusa con il minaccioso avvertimento che si tratterebbe di «un atto di alto tradimento intellettuale». Come è noto, gli atti di alto tradimento si puniscono con la pena di morte, sia pure intellettuale.
È evidente che una siffatta violenza verbale, un simile rifiuto del dialogo civile, una simile ansia di annientare l’avversario, sono manifestazioni di profonda debolezza. Lo è parimenti l’ossessione di prodursi in confutazioni delle religioni che vanno ben al di là di un generale discorso filosofico, come era nel caso del libro di Russell. No, qui lo scienziato si addentra direttamente nell’esegesi dei testi biblici, senza vergogna delle proprie modeste conoscenze e della povertà dei propri mezzi analitici: una mancanza di pudore che non sarebbe mai ammessa nel campo scientifico. Chi agisce così sa bene – e proprio su questo gioca – di non muoversi su un terreno scientifico rigoroso, bensì presentando a un pubblico vastissimo un’esegesi confezionata a scopo polemico. Scegliendo la platea più vasta possibile per sviluppare argomentazioni che dovrebbero essere riservate a platee più ristrette si ottiene il vantaggio di fare propaganda con scarso rischio di essere confutati.
La questione più interessante è che cosa significhi l’impegno accanito di tanti scienziati sul fronte della lotta contro la religione. La risposta più evidente è che si tratta di una manifestazione di quell’“odio di sé” che ormai caratterizza gran parte del pensiero occidentale e che, in nome di una scienza che non è più sé stessa e che si è separata dalle proprie stesse finalità fondatrici, mira a mettere in discussione i capisaldi della nostra stessa cultura. Ma vi è anche un’altro motivo. Si tratta della volontà di abbattere il principale ostacolo ad un libero corso della tecnologia e delle sue manipolazioni della natura e della vita: la concezione morale ed etica del mondo di cui la religione è vista come un baluardo. A ben vedere non si tratta di un’“altro” motivo, bensì dello stesso. Difatti, quest’ansia esprime i virulenti “spiriti animali” di una tecnologia che si è affrancata del rapporto con la scienza e non risponde più a un progetto conoscitivo. Non è un’“altro” motivo perché è la manifestazione del declino di quel progetto conoscitivo della scienza che la collegava in un unico disegno con il pensiero filosofico e religioso e che ha informato parecchi secoli di pensiero europeo e occidentale. Oggi, mentre tecnologia e tecnoscienza dilagano senza freni, manipolando prima ancora di sapere, è fin troppo evidente che la scienza teorica (conoscitiva) soffre una crisi senza precedenti, al punto da far dire a taluno che si stia chiudendo un’era. È all’interno di questa crisi che un gruppo consistente di scienziati, svuotati di obbiettivi propriamente scientifici e surrogandoli con quello della difesa a oltranza della manipolazione tecnologica, si sono trasformati in ideologi dell’ateismo.
(articolo pubblicato su L'Osservatore Romano)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
venerdì 28 dicembre 2007
Su un testo del Cardinale Martini o dell'utilità del dialogo
Sul numero di dicembre del mensile ebraico Shalom è comparso questo mio articolo intitolato "Il passo indietro del Cardinale Martini". Non è inutile sottolineare che la polemica non ha come bersaglio soltanto il testo in oggetto del Cardinale.
Dovrebbe essere evidente che un ebreo può essere di sinistra o di destra. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’ebraismo e il popolo ebraico non sono né di destra né di sinistra. Eppure si riaffaccia la tendenza, nel seno dell’ebraismo italiano, a stabilire che i cromosomi o il Dna degli ebrei e dell’ebraismo sarebbero di sinistra. È forse per questo impulso a schierarsi politicamente, per giunta su basi genetiche, che si affaccia anche la propensione a valutare i cattolici e il dialogo ebraico-cristiano secondo che l’interlocutore sia ritenuto e (magari superficialmente) classificato di destra o di sinistra.
Colpisce al riguardo l’occhiuta diffidenza con cui alcuni ambienti guardano all’attuale pontefice (comunemente considerato “di destra”), levando subito alti lai al minimo accenno di qualche mossa che possa sembrare discutibile, e addirittura gridando alla crisi del dialogo ebraico-cristiano, mentre non si è ancora udita una parola in merito alle tesi del recente libro del Cardinale Carlo Maria Martini (emblema del progressismo cattolico), Le tenebre e la luce, di cui La Repubblica ha anticipato, senza commenti, i passi più sensibili per l’ebraismo.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che la “Nostra Aetate” si limitava a dire degli ebrei che sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Giovanni Paolo II fece un deciso passo avanti affermando che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». L’attuale Papa Benedetto XVI è andato ancora più in là asserendo che «i doni di Dio sono irrevocabili». Non sembra che sia stata sufficientemente valutata l’importanza storica di una simile affermazione che mette in soffitta la “teologia della sostituzione”, ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita al popolo cristiano ed alla Chiesa. Il recente libro del Papa (Gesù di Nazaret) prosegue su tale via, perseguendo l’obbiettivo indicato nel discorso alla Sinagoga di Colonia, ovvero di «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze». Il libro ha come uno dei nodi centrali il confronto con il libro del rabbino Jacob Neusner, A Rabbi talks with Jesus. In un dialogo profondo e rispettoso si adducono argomenti in sostegno della tesi cristiana proprio attraverso l’analisi del discorso con cui Neusner sostiene l’inaccettabilità per un ebreo delle tesi del Discorso della montagna. Senza entrare nel merito, quel che conta è che l’analisi assume come dato che l’ebraismo non è un orpello del passato, morto e senza funzione, e che la via un cristiano verso la propria fede non può che partire dal dialogo con un ebraismo vivo.
Guardiamo invece a come il Cardinale Martini affronta il tema del processo a Gesù. Martini sostiene che il Vangelo di Giovanni presenta questo processo come una “farsa” e una “caricatura” al fine di mettere in luce «il crollo di un’istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l’atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale». Dare per scontato proprio quel che non lo è – e cioè che il Sinedrio fosse un’istituzione che «era sorta in vista» di questa «occasione provvidenziale» e che l’avrebbe persa – permette a Martini, con un salto logico sconcertante, di dedurre la fine storica dell’ebraismo. Non si tratta soltanto della «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». Si tratta della decadenza dell’intera tradizione ebraica che, in quanto non più “autentica”, va quindi radicalmente superata: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche». E quale sia l’esito di questo superamento è quasi superfluo dirlo: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
A questo punto, Martini sottolinea quale sia la sua concezione del dialogo interreligioso: non considerare le religioni come «monoliti immutabili», bensì «fermentarci e vivificarci a vicenda» partendo dall’assunto che anche le tradizioni possono decadere. Pertanto, al di là di un dialogo spesso formale «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso». E queste parole sono quelle espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Come se ancora non fosse chiaro.
Non mi sono mai scandalizzato che alcune religioni e religiosi vogliano convertire gli altri alla propria fede. È legittimo proporre il valore del proprio percorso. Purché non lo si faccia con la violenza, che non è soltanto quella fisica, ma anche quella consistente nell’affermare il disvalore del percorso religioso altrui. Nel caso dei rapporti ebraico-cristiani – resi delicati da un passato tanto dolente – affermare questo disvalore significa né più né meno sostenere che il dono di Dio è stato revocato. Pertanto, il cardinale Martini ha riproposto – e in termini molto brutali, insistendo su aggettivi spiacevoli – la teologia della sostituzione, facendo un passo persino indietro alla “Nostra Aetate”. Chi voglia dialogare con lui (e con chi la pensa come lui) sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione “radicale” alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai “degradato”, “decaduto” e “non autentico” dell’ebraismo.
È probabile che una simile tesi sia frutto della volontà del Cardinale Martini di contrapporsi punto per punto alle tesi del Papa; e quindi che la sua sia una replica proprio all’impostazione del libro Gesù di Nazaret. È comunque assai deprimente che questa contrapposizione si giochi sulla pelle degli ebrei e del dialogo ebraico-cristiano cui Martini, pur di fare il controcanto a Benedetto XVI, assesta un colpo brutale.
Non si può non notare che si sono sollevate polemiche a non finire, spesso capziose, sulla reintroduzione della Messa in latino e sulla formula di auspicio di conversione degli ebrei – non della formula concernenti i “perfidi giudei” che è definitivamente abolita – che potrebbe essere letta il venerdì santo, e che comunque apparteneva alla versione dovuta al Papa “progressista” Giovanni XXIII, contro cui nessuno direbbe una parola. Sorvoliamo su altre polemiche ancor più capziose. È strano che nessuno si sia ancora levato a sottolineare la gravità di queste affermazioni del Cardinale Martini che, oltre a riesumare un linguaggio che si sperava definitivamente abbandonato proprio sul tema delicato del “processo a Gesù” – cerca di riesumare quella “teologia della sostituzione” che è la pietra tombale di ogni possibile dialogo ebraico-cristiano. Staremo a vedere. È da augurarsi che nessuno pensi di usare due pesi e due misure per ragioni di Dna.
Giorgio Israel
Sul quotidiano "Avvenire" il precedente articolo è stato commentato al seguente modo da Giorgio Bernardelli (in data 19 dicembre):
Un percorso di riconciliazione tra i più significativi tra quelli lasciatici in eredità dal Novecento. Ma anche una strada in cui non si può mai dare per scontato che ferite antiche siano davvero rimarginate. Sono i due volti che – fin dalla dichiarazione Nostra Aetate – hanno scandito le diverse fasi del dialogo tra cristiani ed ebrei. Cammino non senza fatiche e incomprensioni. Ma proprio queste difficoltà ci hanno insegnato l’importanza di capire il pensiero dell’altro, senza fermarsi alle sue caricature. Per questi motivi mi ha molto sorpreso un articolo apparso sull’ultimo numero di Shalom, la rivista della Comunità ebraica di Roma. Titolo e sottotitolo in questo caso sono molto efficaci: Il passo indietro del cardinale Martini. Nel suo ultimo libro ripropone la 'teoria della sostituzione', affermando la fine storica dell’ebraismo. Non nascondo di essere sobbalzato sulla sedia: il cardinale Martini che – a Milano come a Gerusalemme – conosciamo noi è quello dei dialoghi con l’allora rabbino capo Giuseppe Laras o quello della laurea honoris causa da poco conferitagli dalla Hebrew University (il più prestigioso ateneo israeliano) proprio per l’amicizia nei confronti del popolo ebraico. Possibile una svolta così improvvisa? Lo stupore è ulteriormente cresciuto guardando il nome dell’autore dell’articolo: il professor Giorgio Israel, voce importante dell’ebraismo itarliano di oggi. Un uomo la cui lucidità di pensiero su querstioni culturali decisive come il rapporto tra scienza e antropologia si è avuto più volte il piacere di presentare ai lettori su queste pagine. L’articolo prende spunto da un brano del recente libro del cardinale Martini Le tenebre e la luce (Piemme), anticipato da un quotidiano. Nel brano in questione Martini analizza il racconto che il quarto evangelista offre del processo di Gesù davanti al sommo sacerdote. Il cardinale-biblista sottolinea in particolare un punto: il fatto che Giovanni lo presenti come un «processo farsa», con l’intenzione «probabilmente di sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica». Agli occhi dell’evangelista – sostiene Martini – «ci troviamo di fronte al crollo di una istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia». Questo – continua il porporato – pone «il problema gravissimo della possibilità che anche un’istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, accecano invece di illuminare». Un pericolo che vale per tutte le religioni. E infatti – poco più avanti e al contesto cristiano cui sta parlando – l’arcivescovo emerito di Milano indica come antidoto «la conversione radicale » alle parole pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna, da intendere come bussola anche nel modo (cristiano) di porsi di fronte al dialogo interreligioso. È una lettura su cui si può ovviamente essere d’accordo oppure no. Quello che però è molto pericoloso è forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono. Perché la conclusione di Israel è che con questa tesi Martini «afferma né più né meno che il dono di Dio [al popolo ebraico, ndr] è stato revocato. Chi voglia dialogare con lui sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione 'radicale' alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai 'degradato', 'decaduto' e 'non autentico' dell’ebraismo ». Nella foga arriva a dire anche che con questo suo libro Martini vuole contrapporsi al Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, che invece (e questo è vero) contiene spunti molto interessanti per il rapporto tra ebrei e cristiani. Ma qui – ormai – siamo nel dominio della fantapolitica ecclesiastica. Forse sarebbe meglio leggere quel libro nel suo insieme, senza fermarsi all’anticipazione fornita da un quotidiano. Magari accanto a qualcuno degli innumerevoli interventi del cardinale Martini sul dialogo ebraico-cristiano. Così ci si accorgerà che si può leggere i racconti della Passione di Gesù con occhi diversi. Ma senza per questo amare di meno quel popolo che noi cristiani finalmente stiamo imparando a riscoprire come nostra radice.
Giorgio Bernardelli
E questa è la mia replica - pubblicata cortesemente da Avvenire il giorno seguente.
Ringrazio Giorgio Bernardelli per le parole di stima nei miei confronti dettate, immagino, anche dall’importanza che attribuisco al dialogo ebraico-cristiano. Conosco bene il ruolo fondamentale che ha avuto il Cardinale Martini in tale dialogo. È lui che, nell’ambito del colloquio internazionale dell’International Council of Christian and Jews tenutosi a Bologna nel 1984, parlò della «fede di Abramo nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore». Non è quindi con la foga che mi attribuisce Bernardelli che ho riflettuto sull’articolo-anticipazione del libro del Cardinale Martini che La Repubblica ha pubblicato a sua firma, trovandone alcuni passaggi dolorosamente e inspiegabilmente spiacevoli. Temo che sia stato piuttosto Bernardelli a lasciarsi prendere dalla foga polemica attribuendomi l’intenzione di far dire a Martini quel che non ha detto e omettendo, proprio i passaggi cruciali che mi hanno negativamente colpito.
Non si tratta neppure del parlare di “crollo” o “decadenza” di un’“istituzione religiosa” – il Sinedrio – che sarebbe affermazione comprensibile se pure alquanto dura. Quanto del trasferire una considerazione relativa a una circostanza storicamente determinata alla tradizione ebraica in quanto tale, con l’ammonimento: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche»: tradizione e non più soltanto un’istituzione. Ma condividerei anche una simile affermazione generale, se non fosse che, nella fattispecie, quella ebraica viene esibita come emblema di una tradizione degradata e quella cristiana come autentica. Posso anche capire che il Cardinale Martini sia poco interessato al dialogo teologico e piuttosto a un dialogo che ci «fermenti» e «vivifichi a vicenda» con parole di fede «vere» e «autentiche», purché – ripeto – alla fin dei conti non accada che una soltanto delle due sia considerata autentica: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza». Preferisco un dialogo franco ed esente da sincretismi, che non minimizzi o passi sotto silenzio le differenze –attraverso un riconoscimento di pari dignità – che non un dialogo che parte dall’intenzione di un reciproco vivificarsi al di là dei monoliti delle tradizioni e poi si piega tutto da una parte sola: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso», parole che sono «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Aggiungo che non mi scandalizza affatto l’intento di convertire gli altri alla propria fede, purché non lo si faccia affermando il disvalore del percorso religioso altrui.
Non contesto le eccellenti e immutate intenzioni del Cardinale Martini, ma un dialogo in cui una delle parti è definita «assolutamente autentica e affidabile» e l’altra è legata a una tradizione «degradata», non più autentica, inaffidabile e «decaduta», non è paritario ed evoca – contro ogni intenzione, non ne dubito – l’antica teologia della sostituzione. Bernardelli si sorprenderà forse se dico che sarei pronto a illustrare certi aspetti che ritengo degradati della tradizione ebraica. Ma se si pretende di definirli come conseguenza del mancato riconoscimento della divinità di Gesù, nascono implicazioni teologiche pesanti che portano proprio all’idea della revoca del dono di Dio. Un dialogo serio e proficuo consiste nel riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri, e non nel liquidarle come espressione di una volontà (inevitabilmente poco onesta) di «forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono», invece di chiedersi se non sia stato detto qualcosa di cui non si sono valutate appieno le implicazioni.
Giorgio Israel
L'unico commento che mi sento di fare è che parlare serve sempre. Parlando ci si chiarisce. Per questo il "dialogo" è utile. E questo botta e risposta non ha chiuso la questione. Messa da parte la questione delle intenzioni - non ho mai pensato di mettere in discussione le intenzioni del Cardinale Martini e ancor meno di aver insinuato neppure lontanamente un suo sentimento non aperto all'ebraismo - quel che emerge sono due diversi modi di stabilire il dialogo ebraico-cristiano. Al di là delle intenzioni - ripeto - la visione del Cardinale Martini non conduce su un terreno proficuo, bensì su quello del sincretismo o della confusione di piani, in cui uno dei due interlocutori si inclina verso l'altro. L'impostazione proposta da Benedetto XVI è, a mio avviso, quella giusta.
Ho intenzione di tornare sulla questione in modo approfondito in un altro articolo. Per ora, mi limito a offrire alla riflessione questo testo del rabbino David Berger. Non è precisamente il mio punto di vista, perché è piuttosto quello di un rabbino ortodosso e preoccupato principalmente di difendere l'ortodossia. Ma tanto più è significativo, in quanto spiega bene perché l'approccio dell'attuale Papa è quello più rispettoso dell'interlocutore - anche di un interlocutore ortodosso! - e che chiama a un reciproco rispetto, a differenza di altri approcci, per quanto dettati dalle migliori intenzioni:
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Rabbi David Berger on genuine "respect" for religious identity of the other
When Dominus Iesus was first released by the Congregation for the Doctrine of the Faith, there was a clamor among concerned liberal Catholics that the Vatican's insistence on the "unicity and salvific universality" of Jesus Christ and the Church constituted a severe impediment for ecumenical and interreligious dialogue. Among the Jewish responses to the document, I was intrigued and impressed by Rabbi David Berger, who distinguished himself by his acknowledgement of the right of Christians to be themselves ("On Dominus Iesus and the Jews"), going so far as to agree with a qualified "supercessionism" as found in Cardinal Ratzingers's Many Religions, One Covenant (Ignatius, 1999):
"The Sinai covenant," writes Cardinal Ratzinger, "is indeed superseded. But once what was provisional in it has been swept away we see what is truly definitive in it. The New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds.., fulfills the dynamic expectation found in [the Sinai covenant]." (pp. 70-71) And in another formulation, "All cultic ordinances of the Old Testament are seen to be taken up into [Jesus'] death and brought to their deepest meaning .... The universalizing of the Torah by Jesus...preserves the unity of cult and ethos The entire cult is bound together in the Cross, indeed, for the first time has become fully real." Cardinal Ratzinger, then, who has also declared that despite Israel's special mission at this stage of history, "we wait for the instant in which Israel will say yes to Christ," (National Catholic Reporter, Oct. 6, 2000), is a supersessionist.
At this point, we need to confront the real question, to wit, is there anything objectionable about this position? In a dialogical environment in which the term "supersessionism" has been turned into an epithet by both Jews and Christians, this may appear to be a puzzling question. We need to distinguish, however, between two forms of supersessionism, and in my view Jews have absolutely no right to object to the form endorsed by Cardinal Ratzinger. There is nothing in the core beliefs of Christianity that requires the sort of supersessionism that sees Judaism as spiritually arid, as an expression of narrow, petty legalism pursued in the service of a vengeful God and eventually replaced by a vital religion of universal love. Such a depiction is anti-Jewish, even antisemitic. But Cardinal Ratzinger never describes Judaism in such a fashion. On the contrary, he sees believing Jews as witnesses through their observance of Torah to the commitment to God's will, to the establishment of his kingdom even in the pre-messianic world, and to faith in a wholly just world after the ultimate redemption. (pp. 104-105) This understanding of Jews as a witness people is very different from the original Augustinian version in which Jews testified to Christian truth through their validation of the Hebrew Bible and their interminable suffering in exile.
For Jews to denounce this sort of supersessionism as morally wrong and disqualifying in the context of dialogue is to turn dialogue into a novel form of religious intimidation. As Rabbi Joseph B. Soloveitchik understood very well, such a position is pragmatically dangerous for Jews, who become vulnerable to reciprocal demands for theological reform of Judaism, and it is even morally wrong. . . .
Berger goes on turn the argument of Jewish critics of Dominus Iesus on its head, pointing out that Jews must accord Christianity the same respect they wish to retain for their own religion:
Now, let us assume that I respect the Christian religion, as I do. Let us assume further that I respect believing Christians, as I do, for qualities that emerge precisely out of their Christian faith. But I believe that the worship of Jesus as God is a serious religious error displeasing to God even if the worshipper is a non-Jew, and that at the end of days Christians will come to recognize this. Is this belief immoral? Does it disqualify me as a participant in dialogue? Does it entitle a Christian to denounce me for adhering to a teaching of contempt? I hope the answer to these questions is "no." If it is "yes," then interfaith dialogue is destructive of traditional Judaism and must be abandoned forthwith. We would face a remarkable paradox. Precisely because of its striving for interfaith respect and understanding, dialogue would become an instrument of religious imperialism.
Once I take this position, I must extend it to Christians as well. As long as Christians do not vilify Judaism and Jews in the manner that I described earlier, they have every right to assert that Judaism errs about religious questions of the most central importance, that equality in dialogue does not mean the equal standing of the parties' religious doctrines, that at the end of days Jews will recognize the divinity of Jesus, even that salvation is much more difficult for one who stands outside the Catholic Church. If I were to criticize Cardinal Ratzinger for holding these views, I would be applying an egregious double standard. I am not unmindful of the fact that these doctrines, unlike comparable ones in Judaism, have served as a basis for persecution through the centuries. Nonetheless, once a Christian has explicitly severed the link between such beliefs and anti-Jewish attitudes and behavior, one cannot legitimately demand that he or she abandon them.
It wouldn't be fair to discuss Rabbi Berger's agreement with Ratzinger without acknowledging that he goes on to express his discomfort with his call in Many Religions that "mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate" and that "proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process," and Dominus Iesus's reminder that the "primary commitment" of Catholics was to "[proclaim] to all people the truth definitively revealed to the Lord."
Rabbi Berger and Cardinal Ratzinger will probably "agree to disagree" until Moshiach comes (or, as Christians would say, returns) -- but in recognizing that Christianity's call to salvation in Christ is applicable to all, and that Christians are entitled to this belief without feeling compelled to water it down for the sake of "can't we all just get along" contemporary pluralism, I believe he demonstrates far greater respect for our faith than some of those currently participating in interreligious dialogue.
Dovrebbe essere evidente che un ebreo può essere di sinistra o di destra. Dovrebbe essere altrettanto evidente che l’ebraismo e il popolo ebraico non sono né di destra né di sinistra. Eppure si riaffaccia la tendenza, nel seno dell’ebraismo italiano, a stabilire che i cromosomi o il Dna degli ebrei e dell’ebraismo sarebbero di sinistra. È forse per questo impulso a schierarsi politicamente, per giunta su basi genetiche, che si affaccia anche la propensione a valutare i cattolici e il dialogo ebraico-cristiano secondo che l’interlocutore sia ritenuto e (magari superficialmente) classificato di destra o di sinistra.
Colpisce al riguardo l’occhiuta diffidenza con cui alcuni ambienti guardano all’attuale pontefice (comunemente considerato “di destra”), levando subito alti lai al minimo accenno di qualche mossa che possa sembrare discutibile, e addirittura gridando alla crisi del dialogo ebraico-cristiano, mentre non si è ancora udita una parola in merito alle tesi del recente libro del Cardinale Carlo Maria Martini (emblema del progressismo cattolico), Le tenebre e la luce, di cui La Repubblica ha anticipato, senza commenti, i passi più sensibili per l’ebraismo.
Dovrebbe essere superfluo ricordare che la “Nostra Aetate” si limitava a dire degli ebrei che sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Giovanni Paolo II fece un deciso passo avanti affermando che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». L’attuale Papa Benedetto XVI è andato ancora più in là asserendo che «i doni di Dio sono irrevocabili». Non sembra che sia stata sufficientemente valutata l’importanza storica di una simile affermazione che mette in soffitta la “teologia della sostituzione”, ovvero la tesi secondo cui l’elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita al popolo cristiano ed alla Chiesa. Il recente libro del Papa (Gesù di Nazaret) prosegue su tale via, perseguendo l’obbiettivo indicato nel discorso alla Sinagoga di Colonia, ovvero di «fare passi avanti nella valutazione, dal punto di vista teologico, del rapporto fra ebraismo e cristianesimo», senza «minimizzare o passare sotto silenzio le differenze». Il libro ha come uno dei nodi centrali il confronto con il libro del rabbino Jacob Neusner, A Rabbi talks with Jesus. In un dialogo profondo e rispettoso si adducono argomenti in sostegno della tesi cristiana proprio attraverso l’analisi del discorso con cui Neusner sostiene l’inaccettabilità per un ebreo delle tesi del Discorso della montagna. Senza entrare nel merito, quel che conta è che l’analisi assume come dato che l’ebraismo non è un orpello del passato, morto e senza funzione, e che la via un cristiano verso la propria fede non può che partire dal dialogo con un ebraismo vivo.
Guardiamo invece a come il Cardinale Martini affronta il tema del processo a Gesù. Martini sostiene che il Vangelo di Giovanni presenta questo processo come una “farsa” e una “caricatura” al fine di mettere in luce «il crollo di un’istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia, verificandone le prove. Sarebbe stato questo l’atto giuridico più alto di tutta la sua storia. Invece fallisce proprio lo scopo fondamentale». Dare per scontato proprio quel che non lo è – e cioè che il Sinedrio fosse un’istituzione che «era sorta in vista» di questa «occasione provvidenziale» e che l’avrebbe persa – permette a Martini, con un salto logico sconcertante, di dedurre la fine storica dell’ebraismo. Non si tratta soltanto della «decadenza di un’istituzione religiosa»: «si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare». Si tratta della decadenza dell’intera tradizione ebraica che, in quanto non più “autentica”, va quindi radicalmente superata: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche». E quale sia l’esito di questo superamento è quasi superfluo dirlo: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza».
A questo punto, Martini sottolinea quale sia la sua concezione del dialogo interreligioso: non considerare le religioni come «monoliti immutabili», bensì «fermentarci e vivificarci a vicenda» partendo dall’assunto che anche le tradizioni possono decadere. Pertanto, al di là di un dialogo spesso formale «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso». E queste parole sono quelle espresse nel Discorso della montagna, «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Come se ancora non fosse chiaro.
Non mi sono mai scandalizzato che alcune religioni e religiosi vogliano convertire gli altri alla propria fede. È legittimo proporre il valore del proprio percorso. Purché non lo si faccia con la violenza, che non è soltanto quella fisica, ma anche quella consistente nell’affermare il disvalore del percorso religioso altrui. Nel caso dei rapporti ebraico-cristiani – resi delicati da un passato tanto dolente – affermare questo disvalore significa né più né meno sostenere che il dono di Dio è stato revocato. Pertanto, il cardinale Martini ha riproposto – e in termini molto brutali, insistendo su aggettivi spiacevoli – la teologia della sostituzione, facendo un passo persino indietro alla “Nostra Aetate”. Chi voglia dialogare con lui (e con chi la pensa come lui) sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione “radicale” alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai “degradato”, “decaduto” e “non autentico” dell’ebraismo.
È probabile che una simile tesi sia frutto della volontà del Cardinale Martini di contrapporsi punto per punto alle tesi del Papa; e quindi che la sua sia una replica proprio all’impostazione del libro Gesù di Nazaret. È comunque assai deprimente che questa contrapposizione si giochi sulla pelle degli ebrei e del dialogo ebraico-cristiano cui Martini, pur di fare il controcanto a Benedetto XVI, assesta un colpo brutale.
Non si può non notare che si sono sollevate polemiche a non finire, spesso capziose, sulla reintroduzione della Messa in latino e sulla formula di auspicio di conversione degli ebrei – non della formula concernenti i “perfidi giudei” che è definitivamente abolita – che potrebbe essere letta il venerdì santo, e che comunque apparteneva alla versione dovuta al Papa “progressista” Giovanni XXIII, contro cui nessuno direbbe una parola. Sorvoliamo su altre polemiche ancor più capziose. È strano che nessuno si sia ancora levato a sottolineare la gravità di queste affermazioni del Cardinale Martini che, oltre a riesumare un linguaggio che si sperava definitivamente abbandonato proprio sul tema delicato del “processo a Gesù” – cerca di riesumare quella “teologia della sostituzione” che è la pietra tombale di ogni possibile dialogo ebraico-cristiano. Staremo a vedere. È da augurarsi che nessuno pensi di usare due pesi e due misure per ragioni di Dna.
Giorgio Israel
Sul quotidiano "Avvenire" il precedente articolo è stato commentato al seguente modo da Giorgio Bernardelli (in data 19 dicembre):
Un percorso di riconciliazione tra i più significativi tra quelli lasciatici in eredità dal Novecento. Ma anche una strada in cui non si può mai dare per scontato che ferite antiche siano davvero rimarginate. Sono i due volti che – fin dalla dichiarazione Nostra Aetate – hanno scandito le diverse fasi del dialogo tra cristiani ed ebrei. Cammino non senza fatiche e incomprensioni. Ma proprio queste difficoltà ci hanno insegnato l’importanza di capire il pensiero dell’altro, senza fermarsi alle sue caricature. Per questi motivi mi ha molto sorpreso un articolo apparso sull’ultimo numero di Shalom, la rivista della Comunità ebraica di Roma. Titolo e sottotitolo in questo caso sono molto efficaci: Il passo indietro del cardinale Martini. Nel suo ultimo libro ripropone la 'teoria della sostituzione', affermando la fine storica dell’ebraismo. Non nascondo di essere sobbalzato sulla sedia: il cardinale Martini che – a Milano come a Gerusalemme – conosciamo noi è quello dei dialoghi con l’allora rabbino capo Giuseppe Laras o quello della laurea honoris causa da poco conferitagli dalla Hebrew University (il più prestigioso ateneo israeliano) proprio per l’amicizia nei confronti del popolo ebraico. Possibile una svolta così improvvisa? Lo stupore è ulteriormente cresciuto guardando il nome dell’autore dell’articolo: il professor Giorgio Israel, voce importante dell’ebraismo itarliano di oggi. Un uomo la cui lucidità di pensiero su querstioni culturali decisive come il rapporto tra scienza e antropologia si è avuto più volte il piacere di presentare ai lettori su queste pagine. L’articolo prende spunto da un brano del recente libro del cardinale Martini Le tenebre e la luce (Piemme), anticipato da un quotidiano. Nel brano in questione Martini analizza il racconto che il quarto evangelista offre del processo di Gesù davanti al sommo sacerdote. Il cardinale-biblista sottolinea in particolare un punto: il fatto che Giovanni lo presenti come un «processo farsa», con l’intenzione «probabilmente di sottolineare un indice di decadenza religiosa e giuridica». Agli occhi dell’evangelista – sostiene Martini – «ci troviamo di fronte al crollo di una istituzione che avrebbe avuto il compito primario di riconoscere il Messia». Questo – continua il porporato – pone «il problema gravissimo della possibilità che anche un’istituzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più compresi, accecano invece di illuminare». Un pericolo che vale per tutte le religioni. E infatti – poco più avanti e al contesto cristiano cui sta parlando – l’arcivescovo emerito di Milano indica come antidoto «la conversione radicale » alle parole pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna, da intendere come bussola anche nel modo (cristiano) di porsi di fronte al dialogo interreligioso. È una lettura su cui si può ovviamente essere d’accordo oppure no. Quello che però è molto pericoloso è forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono. Perché la conclusione di Israel è che con questa tesi Martini «afferma né più né meno che il dono di Dio [al popolo ebraico, ndr] è stato revocato. Chi voglia dialogare con lui sa quale sia l’intenzione e l’unico possibile esito di tale dialogo: la conversione 'radicale' alle parole di Gesù e il riconoscimento del carattere ormai 'degradato', 'decaduto' e 'non autentico' dell’ebraismo ». Nella foga arriva a dire anche che con questo suo libro Martini vuole contrapporsi al Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, che invece (e questo è vero) contiene spunti molto interessanti per il rapporto tra ebrei e cristiani. Ma qui – ormai – siamo nel dominio della fantapolitica ecclesiastica. Forse sarebbe meglio leggere quel libro nel suo insieme, senza fermarsi all’anticipazione fornita da un quotidiano. Magari accanto a qualcuno degli innumerevoli interventi del cardinale Martini sul dialogo ebraico-cristiano. Così ci si accorgerà che si può leggere i racconti della Passione di Gesù con occhi diversi. Ma senza per questo amare di meno quel popolo che noi cristiani finalmente stiamo imparando a riscoprire come nostra radice.
Giorgio Bernardelli
E questa è la mia replica - pubblicata cortesemente da Avvenire il giorno seguente.
Ringrazio Giorgio Bernardelli per le parole di stima nei miei confronti dettate, immagino, anche dall’importanza che attribuisco al dialogo ebraico-cristiano. Conosco bene il ruolo fondamentale che ha avuto il Cardinale Martini in tale dialogo. È lui che, nell’ambito del colloquio internazionale dell’International Council of Christian and Jews tenutosi a Bologna nel 1984, parlò della «fede di Abramo nel Dio che ha scelto Israele con irrevocabile amore». Non è quindi con la foga che mi attribuisce Bernardelli che ho riflettuto sull’articolo-anticipazione del libro del Cardinale Martini che La Repubblica ha pubblicato a sua firma, trovandone alcuni passaggi dolorosamente e inspiegabilmente spiacevoli. Temo che sia stato piuttosto Bernardelli a lasciarsi prendere dalla foga polemica attribuendomi l’intenzione di far dire a Martini quel che non ha detto e omettendo, proprio i passaggi cruciali che mi hanno negativamente colpito.
Non si tratta neppure del parlare di “crollo” o “decadenza” di un’“istituzione religiosa” – il Sinedrio – che sarebbe affermazione comprensibile se pure alquanto dura. Quanto del trasferire una considerazione relativa a una circostanza storicamente determinata alla tradizione ebraica in quanto tale, con l’ammonimento: «Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni religiose quando non sono più autentiche»: tradizione e non più soltanto un’istituzione. Ma condividerei anche una simile affermazione generale, se non fosse che, nella fattispecie, quella ebraica viene esibita come emblema di una tradizione degradata e quella cristiana come autentica. Posso anche capire che il Cardinale Martini sia poco interessato al dialogo teologico e piuttosto a un dialogo che ci «fermenti» e «vivifichi a vicenda» con parole di fede «vere» e «autentiche», purché – ripeto – alla fin dei conti non accada che una soltanto delle due sia considerata autentica: «Solo la parola di Dio, rappresentata qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza». Preferisco un dialogo franco ed esente da sincretismi, che non minimizzi o passi sotto silenzio le differenze –attraverso un riconoscimento di pari dignità – che non un dialogo che parte dall’intenzione di un reciproco vivificarsi al di là dei monoliti delle tradizioni e poi si piega tutto da una parte sola: «il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso», parole che sono «assolutamente autentiche e affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose degradate». Aggiungo che non mi scandalizza affatto l’intento di convertire gli altri alla propria fede, purché non lo si faccia affermando il disvalore del percorso religioso altrui.
Non contesto le eccellenti e immutate intenzioni del Cardinale Martini, ma un dialogo in cui una delle parti è definita «assolutamente autentica e affidabile» e l’altra è legata a una tradizione «degradata», non più autentica, inaffidabile e «decaduta», non è paritario ed evoca – contro ogni intenzione, non ne dubito – l’antica teologia della sostituzione. Bernardelli si sorprenderà forse se dico che sarei pronto a illustrare certi aspetti che ritengo degradati della tradizione ebraica. Ma se si pretende di definirli come conseguenza del mancato riconoscimento della divinità di Gesù, nascono implicazioni teologiche pesanti che portano proprio all’idea della revoca del dono di Dio. Un dialogo serio e proficuo consiste nel riflettere attentamente sulle reazioni che le nostre affermazioni provocano negli altri, e non nel liquidarle come espressione di una volontà (inevitabilmente poco onesta) di «forzare le cose facendo dire ad altri quello che non dicono», invece di chiedersi se non sia stato detto qualcosa di cui non si sono valutate appieno le implicazioni.
Giorgio Israel
L'unico commento che mi sento di fare è che parlare serve sempre. Parlando ci si chiarisce. Per questo il "dialogo" è utile. E questo botta e risposta non ha chiuso la questione. Messa da parte la questione delle intenzioni - non ho mai pensato di mettere in discussione le intenzioni del Cardinale Martini e ancor meno di aver insinuato neppure lontanamente un suo sentimento non aperto all'ebraismo - quel che emerge sono due diversi modi di stabilire il dialogo ebraico-cristiano. Al di là delle intenzioni - ripeto - la visione del Cardinale Martini non conduce su un terreno proficuo, bensì su quello del sincretismo o della confusione di piani, in cui uno dei due interlocutori si inclina verso l'altro. L'impostazione proposta da Benedetto XVI è, a mio avviso, quella giusta.
Ho intenzione di tornare sulla questione in modo approfondito in un altro articolo. Per ora, mi limito a offrire alla riflessione questo testo del rabbino David Berger. Non è precisamente il mio punto di vista, perché è piuttosto quello di un rabbino ortodosso e preoccupato principalmente di difendere l'ortodossia. Ma tanto più è significativo, in quanto spiega bene perché l'approccio dell'attuale Papa è quello più rispettoso dell'interlocutore - anche di un interlocutore ortodosso! - e che chiama a un reciproco rispetto, a differenza di altri approcci, per quanto dettati dalle migliori intenzioni:
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Rabbi David Berger on genuine "respect" for religious identity of the other
When Dominus Iesus was first released by the Congregation for the Doctrine of the Faith, there was a clamor among concerned liberal Catholics that the Vatican's insistence on the "unicity and salvific universality" of Jesus Christ and the Church constituted a severe impediment for ecumenical and interreligious dialogue. Among the Jewish responses to the document, I was intrigued and impressed by Rabbi David Berger, who distinguished himself by his acknowledgement of the right of Christians to be themselves ("On Dominus Iesus and the Jews"), going so far as to agree with a qualified "supercessionism" as found in Cardinal Ratzingers's Many Religions, One Covenant (Ignatius, 1999):
"The Sinai covenant," writes Cardinal Ratzinger, "is indeed superseded. But once what was provisional in it has been swept away we see what is truly definitive in it. The New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds.., fulfills the dynamic expectation found in [the Sinai covenant]." (pp. 70-71) And in another formulation, "All cultic ordinances of the Old Testament are seen to be taken up into [Jesus'] death and brought to their deepest meaning .... The universalizing of the Torah by Jesus...preserves the unity of cult and ethos The entire cult is bound together in the Cross, indeed, for the first time has become fully real." Cardinal Ratzinger, then, who has also declared that despite Israel's special mission at this stage of history, "we wait for the instant in which Israel will say yes to Christ," (National Catholic Reporter, Oct. 6, 2000), is a supersessionist.
At this point, we need to confront the real question, to wit, is there anything objectionable about this position? In a dialogical environment in which the term "supersessionism" has been turned into an epithet by both Jews and Christians, this may appear to be a puzzling question. We need to distinguish, however, between two forms of supersessionism, and in my view Jews have absolutely no right to object to the form endorsed by Cardinal Ratzinger. There is nothing in the core beliefs of Christianity that requires the sort of supersessionism that sees Judaism as spiritually arid, as an expression of narrow, petty legalism pursued in the service of a vengeful God and eventually replaced by a vital religion of universal love. Such a depiction is anti-Jewish, even antisemitic. But Cardinal Ratzinger never describes Judaism in such a fashion. On the contrary, he sees believing Jews as witnesses through their observance of Torah to the commitment to God's will, to the establishment of his kingdom even in the pre-messianic world, and to faith in a wholly just world after the ultimate redemption. (pp. 104-105) This understanding of Jews as a witness people is very different from the original Augustinian version in which Jews testified to Christian truth through their validation of the Hebrew Bible and their interminable suffering in exile.
For Jews to denounce this sort of supersessionism as morally wrong and disqualifying in the context of dialogue is to turn dialogue into a novel form of religious intimidation. As Rabbi Joseph B. Soloveitchik understood very well, such a position is pragmatically dangerous for Jews, who become vulnerable to reciprocal demands for theological reform of Judaism, and it is even morally wrong. . . .
Berger goes on turn the argument of Jewish critics of Dominus Iesus on its head, pointing out that Jews must accord Christianity the same respect they wish to retain for their own religion:
Now, let us assume that I respect the Christian religion, as I do. Let us assume further that I respect believing Christians, as I do, for qualities that emerge precisely out of their Christian faith. But I believe that the worship of Jesus as God is a serious religious error displeasing to God even if the worshipper is a non-Jew, and that at the end of days Christians will come to recognize this. Is this belief immoral? Does it disqualify me as a participant in dialogue? Does it entitle a Christian to denounce me for adhering to a teaching of contempt? I hope the answer to these questions is "no." If it is "yes," then interfaith dialogue is destructive of traditional Judaism and must be abandoned forthwith. We would face a remarkable paradox. Precisely because of its striving for interfaith respect and understanding, dialogue would become an instrument of religious imperialism.
Once I take this position, I must extend it to Christians as well. As long as Christians do not vilify Judaism and Jews in the manner that I described earlier, they have every right to assert that Judaism errs about religious questions of the most central importance, that equality in dialogue does not mean the equal standing of the parties' religious doctrines, that at the end of days Jews will recognize the divinity of Jesus, even that salvation is much more difficult for one who stands outside the Catholic Church. If I were to criticize Cardinal Ratzinger for holding these views, I would be applying an egregious double standard. I am not unmindful of the fact that these doctrines, unlike comparable ones in Judaism, have served as a basis for persecution through the centuries. Nonetheless, once a Christian has explicitly severed the link between such beliefs and anti-Jewish attitudes and behavior, one cannot legitimately demand that he or she abandon them.
It wouldn't be fair to discuss Rabbi Berger's agreement with Ratzinger without acknowledging that he goes on to express his discomfort with his call in Many Religions that "mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate" and that "proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process," and Dominus Iesus's reminder that the "primary commitment" of Catholics was to "[proclaim] to all people the truth definitively revealed to the Lord."
Rabbi Berger and Cardinal Ratzinger will probably "agree to disagree" until Moshiach comes (or, as Christians would say, returns) -- but in recognizing that Christianity's call to salvation in Christ is applicable to all, and that Christians are entitled to this belief without feeling compelled to water it down for the sake of "can't we all just get along" contemporary pluralism, I believe he demonstrates far greater respect for our faith than some of those currently participating in interreligious dialogue.
mercoledì 26 dicembre 2007
Massì, diamoci al matematicamente corretto. Mai più sottrazioni, solo “diverse addizioni”
Mi è pervenuto di recente il programma di un convegno sul tema “i bambini diversamente vivaci”. Ho provato a controllare se un siffatto titolo sorprendesse soltanto me chiedendo a numerosi amici cosa ne pensassero. Ho raccolto soltanto reazioni di stupore incredulo e di incomprensione: che diamine vuol dire “diversamente vivace”? Per la verità, penso di essere un po’ più “avanti” di questi amici e di sapere più o meno a cosa ci si riferisca. Ricordate quel cortometraggio di Charlie Chaplin dal titolo Il Pellegrino? A un certo punto, una coppia con bambino entra in visita in un salotto e il piccolo ne combina di tutti i colori: scalcia in continuazione gli stinchi di tutti e, dopo aver appiccicato la carta moschicida in faccia all’ospite, copre una torta con il cappello del padre che la padrona di casa cosparge involontariamente di abbondante crema. Insomma, una peste, un malandrino, un maleducato Gianburrasca, un delinquentello in erba… No, non ci siamo: qui parla ancora in me un’anima politicamente scorretta. Quel tesoruccio non ha nulla di riprovevole: è soltanto “diversamente vivace” e ci si metta bene in testa che la “diversa vivacità” (al più definibile come “sindrome di iperattività”) è una “risorsa”.
Ho molto riflettuto in questi giorni sulla necessità di demolire a fondo la terminologia politicamente scorretta. Ne ho trovato casi clamorosi anche nella mia disciplina, la matematica. Per esempio, non sfugge a nessuno che, se l’addizione ha qualcosa di nobile e costruttivo, la sottrazione suggerisce qualcosa di losco: evoca la menomazione, l’esser “minorato”. Per cui, propongo che, d’ora in poi, si parli di “diversa addizione” e di “sommare diversamente”. Altrettanto dicasi per la divisione, che è ancor più losca, perché suggerisce la discriminazione e, in fin dei conti, il razzismo. Si dovrà quindi parlare di “diversamente moltiplicare”, poiché nessuno avrà nulla da ridire contro la moltiplicazione, operazione nobilissima. Pure il “calcolo differenziale” evoca subdolamente le classi scolastiche dette un tempo differenziali (ovvero per subnormali) e va quindi opportunamente rinominato “calcolo derivale”. Anche nell’ambito dei numeri si impongono alcune revisioni. Ad esempio, perché chiamare offensivamente “irrazionali” i numeri che non possono essere espressi come rapporto di due numeri interi? Siano detti più rispettosamente numeri “diversamente razionali”. Del resto, anche loro sono una “risorsa”.
Passando poi alla logica, mi colpisce molto la leggerezza con cui si parla di principio d’identità: la riaffermazione delle identità non è forse il cavallo di battaglia dei neocon, dei teocon e di tutta la genìa dei reazionari razzisti? D’ora in poi si dovrà parlare soltanto di principio di “uguaglianza” (volete mettere?) e non importa se insorgeranno i soliti pedanti a dire che identità e uguaglianza non sono la stessa cosa: la tolleranza val bene qualche approssimazione. Anche il principio del terzo escluso evoca un’immagine orrenda: l’esclusione, in fin dei conti l’esclusione del “diverso”. Quindi, d’ora in poi, principio del terzo incluso. E perché escludere il quarto, il quinto e via dicendo? La logica dovrà essere dominata dal principio della multi-inclusione. Facciamo un ulteriore passo avanti. Così come c’insegnano che dal multiculturalismo si deve passare all’interculturalismo, il principio davvero politicamente corretto sarà quello della inter-inclusione. E pazienza se la logica classica va a farsi benedire. Del resto, Aristotele non era un infame schiavista, uno sporco reazionario? Diciamo la verità, è colpa sua se ci troviamo alle prese con Bush.
(Tempi, 20 dicembre 2007)
Ho molto riflettuto in questi giorni sulla necessità di demolire a fondo la terminologia politicamente scorretta. Ne ho trovato casi clamorosi anche nella mia disciplina, la matematica. Per esempio, non sfugge a nessuno che, se l’addizione ha qualcosa di nobile e costruttivo, la sottrazione suggerisce qualcosa di losco: evoca la menomazione, l’esser “minorato”. Per cui, propongo che, d’ora in poi, si parli di “diversa addizione” e di “sommare diversamente”. Altrettanto dicasi per la divisione, che è ancor più losca, perché suggerisce la discriminazione e, in fin dei conti, il razzismo. Si dovrà quindi parlare di “diversamente moltiplicare”, poiché nessuno avrà nulla da ridire contro la moltiplicazione, operazione nobilissima. Pure il “calcolo differenziale” evoca subdolamente le classi scolastiche dette un tempo differenziali (ovvero per subnormali) e va quindi opportunamente rinominato “calcolo derivale”. Anche nell’ambito dei numeri si impongono alcune revisioni. Ad esempio, perché chiamare offensivamente “irrazionali” i numeri che non possono essere espressi come rapporto di due numeri interi? Siano detti più rispettosamente numeri “diversamente razionali”. Del resto, anche loro sono una “risorsa”.
Passando poi alla logica, mi colpisce molto la leggerezza con cui si parla di principio d’identità: la riaffermazione delle identità non è forse il cavallo di battaglia dei neocon, dei teocon e di tutta la genìa dei reazionari razzisti? D’ora in poi si dovrà parlare soltanto di principio di “uguaglianza” (volete mettere?) e non importa se insorgeranno i soliti pedanti a dire che identità e uguaglianza non sono la stessa cosa: la tolleranza val bene qualche approssimazione. Anche il principio del terzo escluso evoca un’immagine orrenda: l’esclusione, in fin dei conti l’esclusione del “diverso”. Quindi, d’ora in poi, principio del terzo incluso. E perché escludere il quarto, il quinto e via dicendo? La logica dovrà essere dominata dal principio della multi-inclusione. Facciamo un ulteriore passo avanti. Così come c’insegnano che dal multiculturalismo si deve passare all’interculturalismo, il principio davvero politicamente corretto sarà quello della inter-inclusione. E pazienza se la logica classica va a farsi benedire. Del resto, Aristotele non era un infame schiavista, uno sporco reazionario? Diciamo la verità, è colpa sua se ci troviamo alle prese con Bush.
(Tempi, 20 dicembre 2007)
martedì 18 dicembre 2007
Neanche la scienza convince gli scientisti a smetterla di accanirsi contro l'embrione
All'indomani dell'esito del referendum sulla legge 40 per la procreazione assistita scrissi sul Foglio un articolo il cui titolo era "Lettera ai nuovi bigotti" e la cui tesi era che se è "bigotto" chi aderisce a un complesso di princìpi preconcetti in modo cieco, senza ammettere neppure in linea di principio la possibilità di un loro ripensamento critico, e se è "clericale" chi si trincera entro una corporazione che difende con tutti i mezzi il "bigottismo", allora pochi hanno titolo a essere definiti "bigotti-clericali" come gli scientisti, ovvero coloro che restringono il dominio della razionalità alla gestione tecnologica dell'esistente. A distanza di due anni, non poteva darsi una conferma più clamorosa di quella tesi.
Era da attendersi un'ondata di giubilo di fronte alla notizia che un'equipe dell'università giapponese di Kyoto diretta da Shinya Yamanaka ha scoperto il modo di trasformare cellule staminali umane adulte in modo da presentare le stesse proprietà di quelle embrionali. A ben vedere si è trattato di un successo lungo la via indicata dal rapporto del 2001 della Commissione Dulbecco, voluta dall'allora ministro della Sanità Umberto Veronesi. Niente da fare. Pare che questa notizia sia anzi dispiaciuta ai maniaci dell'embrione, che infatti hanno ripreso a lanciare i loro anatemi contro gli "oscurantisti", come Ernesto Galli Della Loggia che si era permesso di invitarli a mostrare indipendenza intellettuale e a salutare con favore la nuova prospettiva. C'è stato persino chi ha avvertito il Comitato di Bioetica di non approfittarsene per emettere sentenze contro la manipolazione dell'embrione. A Pierluigi Battista, che si stupiva di tanto accanimento contro gli embrioni, ha risposto la segretaria radicale Rita Bernardini con un fuoco d'artificio di denunce della "caccia alle streghe", della lotta contro l'illuminismo, condite di richiami a Galileo - di passaggio, questi ossessivi richiami a Galileo cominciano a insospettire: non sarà che qualcuno crede che Galileo sia stato il direttore di un laboratorio di genetica? - per finire con una bizzarra accusa di ipocrisia agli "oscurantisti", cui si spiega in modo sussiegoso che senza manipolare l'embrione non si sarebbe arrivati a questi risultati. A quanto pare Bernardini ha lavorato con l'equipe del professor Yamanaka.
Resta il fatto che le domande di Galli Della Loggia e di Battista sono rimaste inevase: perché tanto accanimento e perché non cogliere l'occasione di una tregua con chi ha delle remore morali nei confronti della manipolazione degli embrioni? Perché mantenere acceso lo scontro a tutti i costi? E perché tanto accanimento sull'embrione? Ma, in fin dei conti, la risposta è semplice, ed è quella di due anni fa. La sostanza di questo "dalli all'embrione" è ideologica. Due anni fa ci si stracciava le vesti accusando i nemici della manipolazione dell'embrione di volere la morte di Luca Coscioni, come se la sua vita dipendesse dall'esito del referendum in Italia. La verità è che l'embrione non c'entra nulla e, al limite, non c'entra nulla neppure la scienza. Si tratta soltanto di simboli o pretesti di una battaglia volta ad affermare i princìpi di un'ideologia laicista, antireligiosa e scientista, la cui vera sostanza è rappresentata dalla dilagante letteratura sulla contrapposizione tra scienza e fede o dalle intemerate esagitate di personaggi che hanno molta voglia di litigare e nessuna di ragionare. Dovrebbero almeno avere la decenza di non mascherare malamente il loro bigottismo con vacue e trombonesche tirate sulla razionalità scientifica.
(Tempi, 13 dicembre 2007)
Era da attendersi un'ondata di giubilo di fronte alla notizia che un'equipe dell'università giapponese di Kyoto diretta da Shinya Yamanaka ha scoperto il modo di trasformare cellule staminali umane adulte in modo da presentare le stesse proprietà di quelle embrionali. A ben vedere si è trattato di un successo lungo la via indicata dal rapporto del 2001 della Commissione Dulbecco, voluta dall'allora ministro della Sanità Umberto Veronesi. Niente da fare. Pare che questa notizia sia anzi dispiaciuta ai maniaci dell'embrione, che infatti hanno ripreso a lanciare i loro anatemi contro gli "oscurantisti", come Ernesto Galli Della Loggia che si era permesso di invitarli a mostrare indipendenza intellettuale e a salutare con favore la nuova prospettiva. C'è stato persino chi ha avvertito il Comitato di Bioetica di non approfittarsene per emettere sentenze contro la manipolazione dell'embrione. A Pierluigi Battista, che si stupiva di tanto accanimento contro gli embrioni, ha risposto la segretaria radicale Rita Bernardini con un fuoco d'artificio di denunce della "caccia alle streghe", della lotta contro l'illuminismo, condite di richiami a Galileo - di passaggio, questi ossessivi richiami a Galileo cominciano a insospettire: non sarà che qualcuno crede che Galileo sia stato il direttore di un laboratorio di genetica? - per finire con una bizzarra accusa di ipocrisia agli "oscurantisti", cui si spiega in modo sussiegoso che senza manipolare l'embrione non si sarebbe arrivati a questi risultati. A quanto pare Bernardini ha lavorato con l'equipe del professor Yamanaka.
Resta il fatto che le domande di Galli Della Loggia e di Battista sono rimaste inevase: perché tanto accanimento e perché non cogliere l'occasione di una tregua con chi ha delle remore morali nei confronti della manipolazione degli embrioni? Perché mantenere acceso lo scontro a tutti i costi? E perché tanto accanimento sull'embrione? Ma, in fin dei conti, la risposta è semplice, ed è quella di due anni fa. La sostanza di questo "dalli all'embrione" è ideologica. Due anni fa ci si stracciava le vesti accusando i nemici della manipolazione dell'embrione di volere la morte di Luca Coscioni, come se la sua vita dipendesse dall'esito del referendum in Italia. La verità è che l'embrione non c'entra nulla e, al limite, non c'entra nulla neppure la scienza. Si tratta soltanto di simboli o pretesti di una battaglia volta ad affermare i princìpi di un'ideologia laicista, antireligiosa e scientista, la cui vera sostanza è rappresentata dalla dilagante letteratura sulla contrapposizione tra scienza e fede o dalle intemerate esagitate di personaggi che hanno molta voglia di litigare e nessuna di ragionare. Dovrebbero almeno avere la decenza di non mascherare malamente il loro bigottismo con vacue e trombonesche tirate sulla razionalità scientifica.
(Tempi, 13 dicembre 2007)
lunedì 3 dicembre 2007
I bravi censurati, i mediocri idealizzati
Molti non ti credono se spieghi che vi è chi sostiene che in matematica non bisogna “insegnare” gli algoritmi della divisione ma lasciare che lo studente se li reinventi da solo. Tutto in nome della delirante polemica contro l’insegnamento “trasmissivo” – che trova esilaranti manifestazioni come la proclamazione, in Spagna, del “diritto del bambino all’errore”, insomma a fare 2 + 2 = 5 – che è il cascame di un sessantotto che non muore mai. E poi ci si lamenta che un qualsiasi studente indiano o giapponese surclassa i suoi coetanei europei ed anche americani in matematica: perché studia come da noi trent’anni fa.
Leggo in ritardo un articolo su L’Unità in cui si esalta la seguente prosa di Tullio De Mauro: «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andare male in matematica e bene in storia o viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima». Chi parla così forse non ha mai visto uno studente in vita sua. Soprattutto, trovo intrigante il concetto di “media minima”, che non ha alcun senso, perché la media di un insieme di risultati è una sola, né massima né minima. Forse De Mauro definisce (malamente) così la media ottenuta scartando i risultati migliori e i peggiori, che è la procedura in voga tra i docimologi.
Addentrandomi un poco in questa bizzarra disciplina ho constatato l’importanza attribuita alla curva a campana di Gauss, che dicono essere l’immagine della ripartizione delle attitudini e qualità, per cui gli individui medi abbondano, mentre i geni e gli idioti sono rari. Se ne deduce l'esistenza di una corrispondenza tra la curva gaussiana e la rappresentazione dei risultati scolastici degli studenti, quando essi sono "normalmente" distribuiti rispetto all'attitudine e quando ricevono un'istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo.
Soltanto che: è del tutto arbitrario sostenere che le qualità si possano misurare in modo quantitativo fondato; la distribuzione gaussiana ha senso per grandi numeri ed applicarla a insiemi ristretti di studenti è assurdo; la distribuzione “normale” delle attitudini è un concetto privo di senso e ancor più lo è quello di istruzione “uniforme”. Insomma, il tutto è un’emerita cialtronata che, se la raccontate a uno scienziato propriamente detto, si mette a ridere e poi, preoccupato, ti chiede se esiste qualcuno che prende sul serio idee simili. Purtroppo è così. Su insiemi di valutazioni, voti, test, risultati di quiz (previa verifica della loro conformità alla distribuzione gaussiana) si scartano i risultati migliori e i peggiori, senza tener conto che è proprio in queste zone che si annidano le situazioni più interessanti e indicative. Poi si fa la media sul resto, e si ottiene così la soglia di sufficienza. Il vero movente di queste teorie scombiccherate e improbabili è, in realtà, l’identificazione ideologica di un modello sociale di riferimento. Esso non è dato dai più bravi: a prendere questi come modello si darebbe fondamento alla scuola “selettiva”, “classista” e “repressiva”. No, il modello è dato da coloro che, con orrido termine, vengono chiamati i “normodotati”. È probabilmente in questo senso del tutto qualitativo che si parla di media minima: è la mediocrità. La scuola deve prefigurare una società appiattita sulla mediocrità. Insomma, una triste visione di stile sovietico, propugnata col linguaggio aggressivo del pedagogismo sessantottino.
(Tempi, 29 novembre 2007)
Leggo in ritardo un articolo su L’Unità in cui si esalta la seguente prosa di Tullio De Mauro: «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andare male in matematica e bene in storia o viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima». Chi parla così forse non ha mai visto uno studente in vita sua. Soprattutto, trovo intrigante il concetto di “media minima”, che non ha alcun senso, perché la media di un insieme di risultati è una sola, né massima né minima. Forse De Mauro definisce (malamente) così la media ottenuta scartando i risultati migliori e i peggiori, che è la procedura in voga tra i docimologi.
Addentrandomi un poco in questa bizzarra disciplina ho constatato l’importanza attribuita alla curva a campana di Gauss, che dicono essere l’immagine della ripartizione delle attitudini e qualità, per cui gli individui medi abbondano, mentre i geni e gli idioti sono rari. Se ne deduce l'esistenza di una corrispondenza tra la curva gaussiana e la rappresentazione dei risultati scolastici degli studenti, quando essi sono "normalmente" distribuiti rispetto all'attitudine e quando ricevono un'istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo.
Soltanto che: è del tutto arbitrario sostenere che le qualità si possano misurare in modo quantitativo fondato; la distribuzione gaussiana ha senso per grandi numeri ed applicarla a insiemi ristretti di studenti è assurdo; la distribuzione “normale” delle attitudini è un concetto privo di senso e ancor più lo è quello di istruzione “uniforme”. Insomma, il tutto è un’emerita cialtronata che, se la raccontate a uno scienziato propriamente detto, si mette a ridere e poi, preoccupato, ti chiede se esiste qualcuno che prende sul serio idee simili. Purtroppo è così. Su insiemi di valutazioni, voti, test, risultati di quiz (previa verifica della loro conformità alla distribuzione gaussiana) si scartano i risultati migliori e i peggiori, senza tener conto che è proprio in queste zone che si annidano le situazioni più interessanti e indicative. Poi si fa la media sul resto, e si ottiene così la soglia di sufficienza. Il vero movente di queste teorie scombiccherate e improbabili è, in realtà, l’identificazione ideologica di un modello sociale di riferimento. Esso non è dato dai più bravi: a prendere questi come modello si darebbe fondamento alla scuola “selettiva”, “classista” e “repressiva”. No, il modello è dato da coloro che, con orrido termine, vengono chiamati i “normodotati”. È probabilmente in questo senso del tutto qualitativo che si parla di media minima: è la mediocrità. La scuola deve prefigurare una società appiattita sulla mediocrità. Insomma, una triste visione di stile sovietico, propugnata col linguaggio aggressivo del pedagogismo sessantottino.
(Tempi, 29 novembre 2007)
domenica 25 novembre 2007
La questione della scuola: uno sfacelo europeo
In Francia non stanno messi meglio di noi.
Un sito estremamente importante al riguardo: http://www.ihes.fr/~lafforgue/
Ma a nessuno passi in mente di dire: Mal comune mezzo gaudio...
Piuttosto, bisognerebbe costituire l'internazionale europea della riscossa per una scuola degna di questo nome
Un sito estremamente importante al riguardo: http://www.ihes.fr/~lafforgue/
Ma a nessuno passi in mente di dire: Mal comune mezzo gaudio...
Piuttosto, bisognerebbe costituire l'internazionale europea della riscossa per una scuola degna di questo nome
martedì 20 novembre 2007
La scienza spettacolo
Non dirò che al Festival della Scienza di Genova non vi siano state iniziative interessanti. Mi darei la zappa sui piedi visto che vi ho partecipato tenendo un dibattito intenso e costruttivo con Giulio Giorello. Tante erano le iniziative che sarebbe pedante prendersela con le più strampalate, come quella dedicata a spiegare perché Einstein smise di portare i calzini. Quel che preoccupa è l’atteggiamento di certa stampa. Perché non è serio definire «simpatiche provocazioni» le solite zingarate antireligiose, e poi montare uno scandalo perché in una mostra serissima sulla Via Lattea compariva una frase di don Giussani, come ha fatto La Repubblica, che vi ha dedicato una pagina intera della cronaca locale. Qualcosa non va, se una barriera si alza o si abbassa secondo le simpatie ideologiche, indipendentemente dalla serietà scientifica; se è lecito spernacchiare le religioni e scandaloso citare la frase di un sacerdote. Sono stonature che inducono a riflettere sui messaggi trasmessi da queste dilaganti kermesse scientifiche, in cui – come nel Festival della matematica di Roma – anche Dario Fo e Serena Dandini vengono promossi matematici.
Dicono che si tratta di iniziative fondamentali per svegliare l’interesse stagnante per la scienza. Ho sotto gli occhi un sondaggio effettuato tra gli immatricolati al primo anno del corso di laurea in matematica presso la mia università: un campione di duecento persone, ristretto ma significativo trattandosi di tutti gli iscritti. Alla domanda «il tuo interesse per la matematica è aumentato grazie a», ben 142 hanno risposto «il tuo insegnante»; 64 «grazie alla partecipazione a giochi o gare matematiche» (che sono cosa ben diversa dai festival); e soltanto 8 «grazie al festival della matematica di Roma»… Se si aggiunge che 24 hanno dichiarato che il loro interesse era cresciuto per «la lettura di libri sulla matematica», se ne ricavano alcune conclusioni. In primo luogo, che il festival della matematica non ha avuto alcun effetto, ammesso che non abbia indotto qualcuno a iscriversi ad altre facoltà… In secondo luogo, che le attività che coinvolgono sforzo, concentrazione, conoscenze e competizione (come le gare) sono largamente preferite. In terzo luogo, che i “noiosi” libri sono ancora uno mezzo fondamentale di diffusione della cultura. Infine – ed è la cosa più importante – che la figura di gran lunga più influente è il tanto disprezzato insegnante. Si aggiunga che il numero di coloro che ha dichiarato di essersi iscritto a matematica per la speranza di trovare lavoro era identico a quello di coloro che hanno detto di averlo fatto per «coltivare interessi culturali».
Quindi, i ragazzi non sono così bruti come si vuol far credere, sono disposti a leggere libri, a concentrarsi nello studio purché la proposta sia interessante, né abbisognano di essere imboniti con la contraffazione della scienza come divertimento. D’altra parte, i loro insegnanti – anche se non pochi di loro dovrebbero aggiornarsi – restano coloro che lo studente più ascolta e che gli trasmettono entusiasmo e interesse. (Quanti stipendi annui si pagano con un festival?). Tutto ciò in barba a chi crede (o vuol far credere) che l’unico modo di interessare alla scienza sia di farne spettacolo, e a chi crede che per salvare il sistema dell’istruzione occorra oggettivizzarlo al massimo, riducendo al minimo il ruolo dell’insegnante e il rapporto personale tra insegnante e studente, riassorbiti dalle tecniche pedagogiche e di valutazione o dall’e-learning. Sono costoro che dovrebbero essere riqualificati, perché sono affetti da un brutto male: la sfiducia nelle persone.
(Tempi, 15 novembre 2007)
Dicono che si tratta di iniziative fondamentali per svegliare l’interesse stagnante per la scienza. Ho sotto gli occhi un sondaggio effettuato tra gli immatricolati al primo anno del corso di laurea in matematica presso la mia università: un campione di duecento persone, ristretto ma significativo trattandosi di tutti gli iscritti. Alla domanda «il tuo interesse per la matematica è aumentato grazie a», ben 142 hanno risposto «il tuo insegnante»; 64 «grazie alla partecipazione a giochi o gare matematiche» (che sono cosa ben diversa dai festival); e soltanto 8 «grazie al festival della matematica di Roma»… Se si aggiunge che 24 hanno dichiarato che il loro interesse era cresciuto per «la lettura di libri sulla matematica», se ne ricavano alcune conclusioni. In primo luogo, che il festival della matematica non ha avuto alcun effetto, ammesso che non abbia indotto qualcuno a iscriversi ad altre facoltà… In secondo luogo, che le attività che coinvolgono sforzo, concentrazione, conoscenze e competizione (come le gare) sono largamente preferite. In terzo luogo, che i “noiosi” libri sono ancora uno mezzo fondamentale di diffusione della cultura. Infine – ed è la cosa più importante – che la figura di gran lunga più influente è il tanto disprezzato insegnante. Si aggiunga che il numero di coloro che ha dichiarato di essersi iscritto a matematica per la speranza di trovare lavoro era identico a quello di coloro che hanno detto di averlo fatto per «coltivare interessi culturali».
Quindi, i ragazzi non sono così bruti come si vuol far credere, sono disposti a leggere libri, a concentrarsi nello studio purché la proposta sia interessante, né abbisognano di essere imboniti con la contraffazione della scienza come divertimento. D’altra parte, i loro insegnanti – anche se non pochi di loro dovrebbero aggiornarsi – restano coloro che lo studente più ascolta e che gli trasmettono entusiasmo e interesse. (Quanti stipendi annui si pagano con un festival?). Tutto ciò in barba a chi crede (o vuol far credere) che l’unico modo di interessare alla scienza sia di farne spettacolo, e a chi crede che per salvare il sistema dell’istruzione occorra oggettivizzarlo al massimo, riducendo al minimo il ruolo dell’insegnante e il rapporto personale tra insegnante e studente, riassorbiti dalle tecniche pedagogiche e di valutazione o dall’e-learning. Sono costoro che dovrebbero essere riqualificati, perché sono affetti da un brutto male: la sfiducia nelle persone.
(Tempi, 15 novembre 2007)
sabato 10 novembre 2007
Zenzero e curcuma nelle mense scolastiche. A Roma integrazione significa indigestione
(Tempi, 8 novembre 2007)
Avevo promesso di parlare della “valutazione” ma rinvio perché è occorsa una bizzarra vicenda che merita attenzione. Premessa: per esentare uno studente dall’ora di religione scolastica basta una semplice comunicazione al preside. Invece, per esentare un bambino di una scuola materna romana dai pasti multietnici mensili volti ad «aprire una finestra sul mondo», bisogna recarsi di persona all’Ufficio Scuola del Municipio nei giorni di ricevimento del pubblico. Ogni tentativo di trasmettere la domanda tramite la scuola o via fax è vana: bisogna andare di persona, saltando il lavoro e, chissà, supplicando. Questa iniziativa del Comune di Roma impone ogni mese un pasto dei seguenti paesi: Bangladesh, Romania, Albania, Polonia, Perù, Cina, Filippine, Marocco. Lo scopo pomposo è: «costruire una società interculturale e non soltanto multiculturale». Mangiando le culture diverse si costruisce nientedimeno che un «laboratorio di inclusione sociale». Il carattere pedagogico-autoritario dell’iniziativa non si esprime soltanto nella inquietante imposizione di doversi recare allo sportello di persona per l’esenzione, ma anche nell’invito a «responsabilizzare gli insegnanti affinché preparino didatticamente gli alunni». Ci si può ben figurare a che cosa può ridursi la “preparazione didattica” al pasto etnico di bambini di tre o quattro anni. Roba del tipo: «Ora assaporerete, bimbi, i sapori di una terra lontana, da cui vengono altri bimbi poveri che ora sono qui da noi. Provate, vi sembreranno sapori strani, ma vi ci abituerete. E quando tutti mangeranno i cibi dell’altro, ci vorremo tutti bene e vivremo in un solo mondo per tutti». Per fortuna, con i bimbi la retorica finisce in farsa.
Il primo pasto del Bangladesh conteneva cinque spezie: cardamomo, zafferano, curcuma, cumino e zenzero. Un po’ pesantuccio. Forse, dovendo proporre un pasto italiano a un bimbo di tre anni del Bangladesh non cominceremmo con un’amatriciana o una carbonara. Infatti, l’esperienza è stata una mezza catastrofe: intere classi hanno digiunato ed è stato buttato via tutto. L’assessore alla scuola ha detto che non è poi andata così male, aggiungendo: «Certe polemiche a priori nascondono in realtà posizioni razziste».
Il sorriso sulle labbra che abbiamo tenuto fin qui, si spegne. Andiamoci piano con gli epiteti. Potrei dire, al contrario – e non sono affatto il solo a pensarlo – che è proprio l’ideologia multiculturalista a fomentare la separazione e il razzismo, ma non arriverei al punto di accusare chi ha avuto questa pensata di essere soggettivamente razzista. All’uscita dalla scuola ho incontrato un’anziana signora con il volto insanguinato per essere caduta sul marciapiede dissestato, come lo sono quelli di tutta la città, un autentico disastro. Gli amministratori hanno il dovere primario di far funzionare le scuole, i trasporti, curare l’igiene e la pavimentazione stradale. Abbandonino la velleità di fare gli educatori, i creatori di “laboratori di inclusione sociale” o addirittura di nuove società “interculturali”. Questi sono temi complessi su cui non è facile mettersi d’accordo. Non è legittimo sentirsi autorizzati a dare per scontato quel che non lo è, imponendo alla cittadinanza iniziative discutibili sulla scorta di teorie dilettantesche, per giunta con stile da pedagogia impositiva. Se proprio si vuole, invece di proiettare film che negano gli attentati dell’11 settembre, si organizzi un convegno su questi temi in cui possa dire la sua anche chi non aderisce a certi conformismi correnti, come quello della teoria sbilenca del “passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale”.
Avevo promesso di parlare della “valutazione” ma rinvio perché è occorsa una bizzarra vicenda che merita attenzione. Premessa: per esentare uno studente dall’ora di religione scolastica basta una semplice comunicazione al preside. Invece, per esentare un bambino di una scuola materna romana dai pasti multietnici mensili volti ad «aprire una finestra sul mondo», bisogna recarsi di persona all’Ufficio Scuola del Municipio nei giorni di ricevimento del pubblico. Ogni tentativo di trasmettere la domanda tramite la scuola o via fax è vana: bisogna andare di persona, saltando il lavoro e, chissà, supplicando. Questa iniziativa del Comune di Roma impone ogni mese un pasto dei seguenti paesi: Bangladesh, Romania, Albania, Polonia, Perù, Cina, Filippine, Marocco. Lo scopo pomposo è: «costruire una società interculturale e non soltanto multiculturale». Mangiando le culture diverse si costruisce nientedimeno che un «laboratorio di inclusione sociale». Il carattere pedagogico-autoritario dell’iniziativa non si esprime soltanto nella inquietante imposizione di doversi recare allo sportello di persona per l’esenzione, ma anche nell’invito a «responsabilizzare gli insegnanti affinché preparino didatticamente gli alunni». Ci si può ben figurare a che cosa può ridursi la “preparazione didattica” al pasto etnico di bambini di tre o quattro anni. Roba del tipo: «Ora assaporerete, bimbi, i sapori di una terra lontana, da cui vengono altri bimbi poveri che ora sono qui da noi. Provate, vi sembreranno sapori strani, ma vi ci abituerete. E quando tutti mangeranno i cibi dell’altro, ci vorremo tutti bene e vivremo in un solo mondo per tutti». Per fortuna, con i bimbi la retorica finisce in farsa.
Il primo pasto del Bangladesh conteneva cinque spezie: cardamomo, zafferano, curcuma, cumino e zenzero. Un po’ pesantuccio. Forse, dovendo proporre un pasto italiano a un bimbo di tre anni del Bangladesh non cominceremmo con un’amatriciana o una carbonara. Infatti, l’esperienza è stata una mezza catastrofe: intere classi hanno digiunato ed è stato buttato via tutto. L’assessore alla scuola ha detto che non è poi andata così male, aggiungendo: «Certe polemiche a priori nascondono in realtà posizioni razziste».
Il sorriso sulle labbra che abbiamo tenuto fin qui, si spegne. Andiamoci piano con gli epiteti. Potrei dire, al contrario – e non sono affatto il solo a pensarlo – che è proprio l’ideologia multiculturalista a fomentare la separazione e il razzismo, ma non arriverei al punto di accusare chi ha avuto questa pensata di essere soggettivamente razzista. All’uscita dalla scuola ho incontrato un’anziana signora con il volto insanguinato per essere caduta sul marciapiede dissestato, come lo sono quelli di tutta la città, un autentico disastro. Gli amministratori hanno il dovere primario di far funzionare le scuole, i trasporti, curare l’igiene e la pavimentazione stradale. Abbandonino la velleità di fare gli educatori, i creatori di “laboratori di inclusione sociale” o addirittura di nuove società “interculturali”. Questi sono temi complessi su cui non è facile mettersi d’accordo. Non è legittimo sentirsi autorizzati a dare per scontato quel che non lo è, imponendo alla cittadinanza iniziative discutibili sulla scorta di teorie dilettantesche, per giunta con stile da pedagogia impositiva. Se proprio si vuole, invece di proiettare film che negano gli attentati dell’11 settembre, si organizzi un convegno su questi temi in cui possa dire la sua anche chi non aderisce a certi conformismi correnti, come quello della teoria sbilenca del “passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale”.
venerdì 2 novembre 2007
Per poter valutare gli insegnanti bisogna imporre le regole e rinnovare i contenuti
(Tempi, 1 novembre 2007)
Il presidente dell’Associazione TreeLLLE Attilio Oliva ha stigmatizzato, sul Corriere della Sera, il nuovo contratto per la scuola, che ha ancora rinviato la definizione di un collegamento tra progressione della remunerazione e qualità di lavoro degli insegnanti. La protesta è pienamente condivisibile: è un andazzo che mortifica il merito, induce gli insegnanti a un comportamento impiegatizio e dequalifica la scuola; e farà ulteriormente crescere il numero degli insegnanti che hanno una preparazione modesta e talora gravemente insufficiente.
Vorrei tuttavia aggiungere alcune osservazioni di metodo e di sostanza. È impensabile affrontare il problema del merito degli insegnanti e del suo collegamento alla retribuzione se non si risolvono alcune questioni preliminari. È impossibile persino parlare di “scuola” se non sono soddisfatti alcuni requisiti ovvi e che invece non lo sono più: la disciplina (ingresso in orario, silenzio in aula, divieto di cellulari, severa repressione di ogni forma di violenza), il rispetto della persona dell’insegnante, il principio che a scuola si studia e si viene premiati o penalizzati a seconda del rendimento, un comportamento civile delle famiglie che si rendano conto che la scuola è un’istituzione educativa e non un supermercato. Come sottoporre a giudizio un insegnante in un contesto che non rispetti nemmeno questi requisiti di civiltà? Viene poi il problema dei contenuti dell’insegnamento, sempre trattato come se fosse un orpello accessorio, mentre è la questione centrale, perché gran parte dello sfacelo attuale deriva dalle pessime riforme dell’ultimo trentennio. Un conto è se un’insegnante è chiamato a insegnare la matematica propriamente detta, un conto è se è chiamato a trasmettere un’accozzaglia di nozioni pseudo-intuitive, di inutili formalismi, presentando la geometria come una sorta di esperienza fisica della spazialità e magari con il condimento della delirante “matematica del cittadino”. In tal caso, è certo che gli insegnanti più incompetenti, traviati dal “didattichese” più vacuo e parolaio, risulteranno i migliori, e i migliori risulteranno i peggiori. Nasce qui il problema delle Scuole di Specializzazione universitarie, preposte alla formazione e abilitazione degli insegnanti, che troppo spesso si basano sull’assurda idea che il laureato sappia già tutto della sua disciplina e che debba soltanto essere istruito in metodologie didattiche. Con quali risultati, si è visto.
Nasce quindi il problema della “valutazione” di cui parla molto Attilio Oliva ammettendo che è difficile valutare le qualità con indicatori oggettivi. Difatti, quando si mette il naso nel laboratorio della “docimologia” si ricava l’inquietante impressione che si manipolino – al riparo da valutazioni – concetti e metodi (come quello di “distribuzione normale”) in modo superficiale per trarne conclusioni avventate. Su questo argomento tornerò. Per ora mi limito a osservare che è discutibile attribuire un ruolo primario nella valutazione all’“utenza” e, in particolare, agli studenti usciti dalla scuola. In primo luogo, perché – lo ripeterò fino alla noia – una scuola degna di questo nome non è un’azienda e quindi non ha “utenti”. In secondo luogo, perché la valutazione delle capacità può esser fatta soltanto da chi ha conoscenze ed esperienza. La valutazione nel sistema dell’istruzione può essere soltanto autovalutazione, anche la più severa, tra scuole diverse o tra scuole e università, ma autovalutazione, l’unica che può responsabilizzare gli insegnanti.
Il presidente dell’Associazione TreeLLLE Attilio Oliva ha stigmatizzato, sul Corriere della Sera, il nuovo contratto per la scuola, che ha ancora rinviato la definizione di un collegamento tra progressione della remunerazione e qualità di lavoro degli insegnanti. La protesta è pienamente condivisibile: è un andazzo che mortifica il merito, induce gli insegnanti a un comportamento impiegatizio e dequalifica la scuola; e farà ulteriormente crescere il numero degli insegnanti che hanno una preparazione modesta e talora gravemente insufficiente.
Vorrei tuttavia aggiungere alcune osservazioni di metodo e di sostanza. È impensabile affrontare il problema del merito degli insegnanti e del suo collegamento alla retribuzione se non si risolvono alcune questioni preliminari. È impossibile persino parlare di “scuola” se non sono soddisfatti alcuni requisiti ovvi e che invece non lo sono più: la disciplina (ingresso in orario, silenzio in aula, divieto di cellulari, severa repressione di ogni forma di violenza), il rispetto della persona dell’insegnante, il principio che a scuola si studia e si viene premiati o penalizzati a seconda del rendimento, un comportamento civile delle famiglie che si rendano conto che la scuola è un’istituzione educativa e non un supermercato. Come sottoporre a giudizio un insegnante in un contesto che non rispetti nemmeno questi requisiti di civiltà? Viene poi il problema dei contenuti dell’insegnamento, sempre trattato come se fosse un orpello accessorio, mentre è la questione centrale, perché gran parte dello sfacelo attuale deriva dalle pessime riforme dell’ultimo trentennio. Un conto è se un’insegnante è chiamato a insegnare la matematica propriamente detta, un conto è se è chiamato a trasmettere un’accozzaglia di nozioni pseudo-intuitive, di inutili formalismi, presentando la geometria come una sorta di esperienza fisica della spazialità e magari con il condimento della delirante “matematica del cittadino”. In tal caso, è certo che gli insegnanti più incompetenti, traviati dal “didattichese” più vacuo e parolaio, risulteranno i migliori, e i migliori risulteranno i peggiori. Nasce qui il problema delle Scuole di Specializzazione universitarie, preposte alla formazione e abilitazione degli insegnanti, che troppo spesso si basano sull’assurda idea che il laureato sappia già tutto della sua disciplina e che debba soltanto essere istruito in metodologie didattiche. Con quali risultati, si è visto.
Nasce quindi il problema della “valutazione” di cui parla molto Attilio Oliva ammettendo che è difficile valutare le qualità con indicatori oggettivi. Difatti, quando si mette il naso nel laboratorio della “docimologia” si ricava l’inquietante impressione che si manipolino – al riparo da valutazioni – concetti e metodi (come quello di “distribuzione normale”) in modo superficiale per trarne conclusioni avventate. Su questo argomento tornerò. Per ora mi limito a osservare che è discutibile attribuire un ruolo primario nella valutazione all’“utenza” e, in particolare, agli studenti usciti dalla scuola. In primo luogo, perché – lo ripeterò fino alla noia – una scuola degna di questo nome non è un’azienda e quindi non ha “utenti”. In secondo luogo, perché la valutazione delle capacità può esser fatta soltanto da chi ha conoscenze ed esperienza. La valutazione nel sistema dell’istruzione può essere soltanto autovalutazione, anche la più severa, tra scuole diverse o tra scuole e università, ma autovalutazione, l’unica che può responsabilizzare gli insegnanti.
domenica 28 ottobre 2007
Il creazionismo una minaccia per la democrazia? Suvvia
Il 4 ottobre 2007 il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza un documento dal titolo “I pericoli del creazionismo nell’ambito dell’educazione”, che condanna le teorie creazioniste, includendovi le teorie del “disegno intelligente”. Il tono è particolarmente acceso: si manifesta preoccupazione per i “possibili effetti deleteri” che queste teorie possono avere sul sistema dell’istruzione e addirittura per le “conseguenze che potrebbero avere per le nostre democrazie”. Secondo il Consiglio d’Europa “se non stiamo attenti, il creazionismo potrebbe divenire una minaccia per i diritti umani”.
Il documento ha sollevato reazioni di segno opposto. Di particolare interesse ci sembra il commento di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera del 16 ottobre), in quanto, pur partendo da posizioni equilibrate e da talune affermazioni interessanti, arriva a salutare come “razionale e liberatoria” la delibera. Piattelli Palmarini non si profonde in un peana della teoria dell’evoluzione, a differenza dei darwinisti professionali. Anzi, sostiene – con notevole coraggio, dati i tempi che corrono – che “la dottrina darwiniana tradizionale fa acqua da molte parti”. Cita l’illustre genetista americano Gregory C. Gibson, che su Nature ha parlato della “concezione emergente che la selezione naturale è solo uno dei fattori dell’ordine biologico, e forse nemmeno il più importante”. Secondo Piattelli Palmarini il vero approccio scientifico consiste nell’offrire nella scuola una visione complessa dell’evoluzione del vivente, e “non il tradizionale fumetto darwiniano”. Fin qui potremmo sottoscrivere parola per parola. Anzi, potremmo aggiungere che, per quanta acqua faccia la teoria dell’evoluzione, ciò non basta a motivare un ritorno al creazionismo. Secondo Piattelli Palmarini attenersi al “caricaturale” fumetto darwiniano significa “non fare tesoro della saggia risoluzione del Parlamento europeo”. Ma è proprio certo che sia questo lo spirito che ha animato quel consesso?
L’assunto del ragionamento di Piattelli Palmarini è che la scienza avrebbe stipulato con la società un “contratto implicito” consistente nello “spiegare i fenomeni della natura, vita compresa, in termini accessibili all’intelligenza umana, senza invocare fattori esterni alla natura stessa”. Ne deduce la necessità di mantenere una barriera impenetrabile tra scienza e credenze non naturalistiche, in particolare tra scienza e religione: l’una non si deve immischiare delle seconde e viceversa. Ma, per quanto possa si provare simpatia per la tirata d’orecchie che egli fa a Richards Dawkins, Daniel Dennett e Piergiorgio Odifreddi (“improvvisato teologo”) non mi pare che si possa seguirlo in questa distinzione rigida, tanto meno nell’ammettere l’esistenza di quel “contratto implicito”. Il contratto non è stato mai scritto perché quella barriera, se è mai esistita, è stata un colabrodo e, soprattutto, un colabrodo in continuo movimento. Chi conosca un minimo la storia della scienza sa che definire i confini esatti tra scienza e non-scienza è impossibile, a meno che non si assuma come “scienza” il suo stato attuale e tutto il resto, o quel che precede, venga vagliato alla luce di questa pietra di paragone. È la posizione “cumulativa” che tanto efficacemente ha demolito Thomas Kuhn quarant’anni fa. Dimenticare quella lezione non è una buona idea.
Prendiamo proprio il caso al centro di questa discussione. Secoli di biologia creazionista – e quindi intrisa di visioni teologiche – sono stati secoli di non-scienza? Eppure, questa non-scienza ci ha lasciato in eredità una grande mole di conoscenze “positive”, quantomeno in termini di classificazione, senza la quale sarebbe stato impossibile allo stesso Darwin pensare la teoria dell’evoluzione. Nessuna persona seria potrà sostenere che l’idea della fissità delle specie non abbia un’ispirazione teologica. La teologia creazionista è stata il motore metafisico della ricerca scientifica dei naturalisti pre-evoluzionisti, come la metafisica del “matematismo” (ovvero l’idea che il mondo è matematico) ha guidato la ricerca dei fondatori della fisica-matematica moderna. La scienza non può fare a meno di una metafisica influente, anzi parte da essa, a differenza di una scienza di tipo aristotelico, come osservava Alexandre Koyré, ammonendo di non dimenticare questo fatto essenziale. In realtà, nel sostenere che la scienza ha soltanto bisogno di osservazione e confronto con i fatti empirici si assume una metafisica ancora più pesante: il positivismo mascherato da anti-metafisica.
La scienza non evolve in una sorta di tubo sotto vuoto, isolata dal resto del mondo. Essa è intrisa di preconcetti metafisici, di visioni del mondo, di teologie, di filosofie di vario tipo. Nel suo percorso storico, associa sovente vecchi risultati con interpretazioni del mondo nuove e magari contrapposte a quelle precedenti. È arduo sostenere che il darwinismo non possieda una sua metafisica influente: basta sentire cosa predicano da mane a sera i darwinisti professionali. Sono questioni complesse che non dovrebbero essere trattate in un organismo politico-istituzionale. Ad esempio, mentre l’ipotesi creazionista si associa a un’idea di fissità delle specie, le teorie del disegno intelligente sono interpretazioni filosofiche ed eventualmente teologiche che possono associarsi a una teoria evolutiva. Pertanto, quando il Parlamento europeo ha associato nella condanna creazionismo e disegno intelligente non ha soltanto messo nero su bianco una sciocchezza ma ha anche esibito il presupposto ideologico fazioso che dettava la sua presa di posizione.
Piattelli Palmarini ha scritto un articolo corredato di osservazioni coraggiose e ispirate a un autentico spirito critico. Si è invece rinchiuso in una visione angusta e inesistente della scienza, come qualcosa di separato dal resto del pensiero e che si svolgerebbe in una purezza incontaminata, e ne è stato indotto a valutare positivamente un documento scandaloso. Dovrebbe essere inutile ripetere che qui non è in gioco la rivalutazione del creazionismo. Qui è in gioco la libertà di pensiero, il fatto elementare che le contese filosofiche, scientifiche, culturali si fanno fuori dalle aule parlamentari e dai tribunali e non si risolvono votando. La teoria dell’evoluzione non dovrebbe avere bisogno di un voto per reggersi in piedi. Tanto più è scandaloso arrivare addirittura a parlare di minacce per le democrazie e per i diritti umani. Qualcuno può forse asserire seriamente che secoli di creazionismo hanno messo in pericolo i diritti umani ed hanno ostacolato la formazione delle democrazie? Se si volesse entrare nella logica aberrante del Parlamento europeo occorrerebbe osservare che, piuttosto, è stato nel secolo del darwinismo che il nazifascismo e il comunismo hanno celebrato i loro lugubri trionfi.
Le persone autenticamente libere dovrebbero rinviare al mittente questo scandaloso e avvilente documento che mostra da dove vengano i veri pericoli per la libertà di pensiero, per la cultura e per la scienza.
Giorgio Israel
(pubblicato sul Foglio del 24 ottobre)
Tra le legittime critiche che si possono muovere a questo articolo, prego soltanto non venga mossa quella illegittima: che sarei un creazionista alla maniera degli evangelici americani. Tra l'altro, non apprezzo neppure la maggior parte della letteratura del cosiddetto "disegno intelligente", che considero una forma di riduzionismo grossolano. È un argomento molto interessante e delicato di cui bisognerebbe occuparsi seriamente, invece di fare guerre di "religione".
Il documento ha sollevato reazioni di segno opposto. Di particolare interesse ci sembra il commento di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere della Sera del 16 ottobre), in quanto, pur partendo da posizioni equilibrate e da talune affermazioni interessanti, arriva a salutare come “razionale e liberatoria” la delibera. Piattelli Palmarini non si profonde in un peana della teoria dell’evoluzione, a differenza dei darwinisti professionali. Anzi, sostiene – con notevole coraggio, dati i tempi che corrono – che “la dottrina darwiniana tradizionale fa acqua da molte parti”. Cita l’illustre genetista americano Gregory C. Gibson, che su Nature ha parlato della “concezione emergente che la selezione naturale è solo uno dei fattori dell’ordine biologico, e forse nemmeno il più importante”. Secondo Piattelli Palmarini il vero approccio scientifico consiste nell’offrire nella scuola una visione complessa dell’evoluzione del vivente, e “non il tradizionale fumetto darwiniano”. Fin qui potremmo sottoscrivere parola per parola. Anzi, potremmo aggiungere che, per quanta acqua faccia la teoria dell’evoluzione, ciò non basta a motivare un ritorno al creazionismo. Secondo Piattelli Palmarini attenersi al “caricaturale” fumetto darwiniano significa “non fare tesoro della saggia risoluzione del Parlamento europeo”. Ma è proprio certo che sia questo lo spirito che ha animato quel consesso?
L’assunto del ragionamento di Piattelli Palmarini è che la scienza avrebbe stipulato con la società un “contratto implicito” consistente nello “spiegare i fenomeni della natura, vita compresa, in termini accessibili all’intelligenza umana, senza invocare fattori esterni alla natura stessa”. Ne deduce la necessità di mantenere una barriera impenetrabile tra scienza e credenze non naturalistiche, in particolare tra scienza e religione: l’una non si deve immischiare delle seconde e viceversa. Ma, per quanto possa si provare simpatia per la tirata d’orecchie che egli fa a Richards Dawkins, Daniel Dennett e Piergiorgio Odifreddi (“improvvisato teologo”) non mi pare che si possa seguirlo in questa distinzione rigida, tanto meno nell’ammettere l’esistenza di quel “contratto implicito”. Il contratto non è stato mai scritto perché quella barriera, se è mai esistita, è stata un colabrodo e, soprattutto, un colabrodo in continuo movimento. Chi conosca un minimo la storia della scienza sa che definire i confini esatti tra scienza e non-scienza è impossibile, a meno che non si assuma come “scienza” il suo stato attuale e tutto il resto, o quel che precede, venga vagliato alla luce di questa pietra di paragone. È la posizione “cumulativa” che tanto efficacemente ha demolito Thomas Kuhn quarant’anni fa. Dimenticare quella lezione non è una buona idea.
Prendiamo proprio il caso al centro di questa discussione. Secoli di biologia creazionista – e quindi intrisa di visioni teologiche – sono stati secoli di non-scienza? Eppure, questa non-scienza ci ha lasciato in eredità una grande mole di conoscenze “positive”, quantomeno in termini di classificazione, senza la quale sarebbe stato impossibile allo stesso Darwin pensare la teoria dell’evoluzione. Nessuna persona seria potrà sostenere che l’idea della fissità delle specie non abbia un’ispirazione teologica. La teologia creazionista è stata il motore metafisico della ricerca scientifica dei naturalisti pre-evoluzionisti, come la metafisica del “matematismo” (ovvero l’idea che il mondo è matematico) ha guidato la ricerca dei fondatori della fisica-matematica moderna. La scienza non può fare a meno di una metafisica influente, anzi parte da essa, a differenza di una scienza di tipo aristotelico, come osservava Alexandre Koyré, ammonendo di non dimenticare questo fatto essenziale. In realtà, nel sostenere che la scienza ha soltanto bisogno di osservazione e confronto con i fatti empirici si assume una metafisica ancora più pesante: il positivismo mascherato da anti-metafisica.
La scienza non evolve in una sorta di tubo sotto vuoto, isolata dal resto del mondo. Essa è intrisa di preconcetti metafisici, di visioni del mondo, di teologie, di filosofie di vario tipo. Nel suo percorso storico, associa sovente vecchi risultati con interpretazioni del mondo nuove e magari contrapposte a quelle precedenti. È arduo sostenere che il darwinismo non possieda una sua metafisica influente: basta sentire cosa predicano da mane a sera i darwinisti professionali. Sono questioni complesse che non dovrebbero essere trattate in un organismo politico-istituzionale. Ad esempio, mentre l’ipotesi creazionista si associa a un’idea di fissità delle specie, le teorie del disegno intelligente sono interpretazioni filosofiche ed eventualmente teologiche che possono associarsi a una teoria evolutiva. Pertanto, quando il Parlamento europeo ha associato nella condanna creazionismo e disegno intelligente non ha soltanto messo nero su bianco una sciocchezza ma ha anche esibito il presupposto ideologico fazioso che dettava la sua presa di posizione.
Piattelli Palmarini ha scritto un articolo corredato di osservazioni coraggiose e ispirate a un autentico spirito critico. Si è invece rinchiuso in una visione angusta e inesistente della scienza, come qualcosa di separato dal resto del pensiero e che si svolgerebbe in una purezza incontaminata, e ne è stato indotto a valutare positivamente un documento scandaloso. Dovrebbe essere inutile ripetere che qui non è in gioco la rivalutazione del creazionismo. Qui è in gioco la libertà di pensiero, il fatto elementare che le contese filosofiche, scientifiche, culturali si fanno fuori dalle aule parlamentari e dai tribunali e non si risolvono votando. La teoria dell’evoluzione non dovrebbe avere bisogno di un voto per reggersi in piedi. Tanto più è scandaloso arrivare addirittura a parlare di minacce per le democrazie e per i diritti umani. Qualcuno può forse asserire seriamente che secoli di creazionismo hanno messo in pericolo i diritti umani ed hanno ostacolato la formazione delle democrazie? Se si volesse entrare nella logica aberrante del Parlamento europeo occorrerebbe osservare che, piuttosto, è stato nel secolo del darwinismo che il nazifascismo e il comunismo hanno celebrato i loro lugubri trionfi.
Le persone autenticamente libere dovrebbero rinviare al mittente questo scandaloso e avvilente documento che mostra da dove vengano i veri pericoli per la libertà di pensiero, per la cultura e per la scienza.
Giorgio Israel
(pubblicato sul Foglio del 24 ottobre)
Tra le legittime critiche che si possono muovere a questo articolo, prego soltanto non venga mossa quella illegittima: che sarei un creazionista alla maniera degli evangelici americani. Tra l'altro, non apprezzo neppure la maggior parte della letteratura del cosiddetto "disegno intelligente", che considero una forma di riduzionismo grossolano. È un argomento molto interessante e delicato di cui bisognerebbe occuparsi seriamente, invece di fare guerre di "religione".
venerdì 19 ottobre 2007
Sulla scuola la politica cede alla piazza e sbaglia strada
Una classe politica degna di questo nome deve possedere due qualità: saper capire che cosa si muove nella società e avere il coraggio di decisioni anche impopolari. Quel che è accaduto ieri in Senato merito alla scuola e alla faccenda dei cosiddetti esami di riparazione autunnali dimostra che queste due qualità sono merce rara nel nostro paese.
Chi conosca un minimo gli umori circolanti nel nostro paese sa che da molto tempo cresce il desiderio che nella scuola ritorni rigore e serietà e che vengano smantellate certe deliranti riforme degli ultimi quindici anni. Sa anche che questo desiderio è cresciuto a dismisura nell’ultimo anno, anche in relazione al diffondersi del bullismo a scuola, che il crollo di autorità degli insegnanti – largamente dovuto anche all’impossibilità di sanzionare il cattivo rendimento scolastico – non riesce a frenare. Basta leggere le lettere inviate ai giornali e parlare in giro, per rendersi conto che la stragrande maggioranza degli insegnanti, la stragrande maggioranza delle famiglie e anche un consistente numero di studenti ha accolto con favore i pur timidi provvedimenti del ministro Fioroni, incluso quello teso a compiere una verifica dei debiti formativi entro l’anno e non ogni due anni. Casomai, Fioroni andrebbe stimolato ad essere più coraggioso e incalzato ad affrontare anche una profonda revisione dei contenuti dell’insegnamento. Che poi ci sia chi si oppone, è ovvio. Ed è altrettanto ovvio che si tratta delle minoranze più vocianti, tanto vocianti da far credere a chi non ha capito nulla della situazione, che si tratti della maggioranza.
Dar retta alle manifestazioni studentesche di questi giorni non significa soltanto non aver capito niente, ma anche non avere il coraggio che si richiede ad una classe politica degna di questo nome, la quale non dovrebbe esitare a fare quel che è giusto anche di fronte alle proteste, soprattutto tenendo conto che una scuola la cui organizzazione viene decisa dagli studenti è morta e sepolta.
Il senatore Calderoli – pronto a esibire rigore e fermezza estrema quando si tratta di questioni padane o di immigrazione – ha sbagliato tre volte: ha mostrato di cedere miseramente di fronte alle sgangherate richieste della piazza; ha dimostrato di non avere il polso della situazione, perché se crede di conquistare un po’ di voti di famiglie che non hanno il senso del dovere perderà molti più voti di altre famiglie e di insegnanti; e infine non ha capito il merito della questione, perché il provvedimento di Fioroni non ripristina gli esami autunnali, che richiedevano la formazione di commissioni, bensì accorcia i tempi di verifica del recupero dei debiti formativi e cerca di porre rimedio allo scandalo immorale di studenti che non fanno nulla e vanno avanti lo stesso.
Se poi è proprio questo cui mirava Calderoli, e cioè stoppare il provvedimento di Fioroni, per lisciare il pelo ai nullafacenti, agli asini, ai bulli e alle loro irresponsabili famiglie – come risulterebbe dalla sua dichiarazione tesa a restituire “tranquillità ai nostri ragazzi” – ha fatto il peggio del peggio in nome di un misero vantaggio di popolarità che peraltro non incasserà mai. In cambio, ha vibrato una picconata micidiale alla scuola, lanciando un segnale che va in direzione opposta al recupero di rigore, di serietà, di disciplina e di efficacia.
Quel che è stato sconvolgente è l’immagine di un Senato che si è accodato quasi tutto a una simile sconsiderata iniziativa, probabilmente sempre per la paura della piazza, per insipienza e incomprensione della realtà.
Arrivano molte telefonate sconsolate. Qualcuno si chiedeva anche in quale paese civile si potrebbe emigrare. Si continui pure così, ma poi non ci si lamenti se il vento della sfiducia e dell’antipolitica s’ingrosserà sempre di più.
(L'Occidentale, 18 ottobre 2007)
Chi conosca un minimo gli umori circolanti nel nostro paese sa che da molto tempo cresce il desiderio che nella scuola ritorni rigore e serietà e che vengano smantellate certe deliranti riforme degli ultimi quindici anni. Sa anche che questo desiderio è cresciuto a dismisura nell’ultimo anno, anche in relazione al diffondersi del bullismo a scuola, che il crollo di autorità degli insegnanti – largamente dovuto anche all’impossibilità di sanzionare il cattivo rendimento scolastico – non riesce a frenare. Basta leggere le lettere inviate ai giornali e parlare in giro, per rendersi conto che la stragrande maggioranza degli insegnanti, la stragrande maggioranza delle famiglie e anche un consistente numero di studenti ha accolto con favore i pur timidi provvedimenti del ministro Fioroni, incluso quello teso a compiere una verifica dei debiti formativi entro l’anno e non ogni due anni. Casomai, Fioroni andrebbe stimolato ad essere più coraggioso e incalzato ad affrontare anche una profonda revisione dei contenuti dell’insegnamento. Che poi ci sia chi si oppone, è ovvio. Ed è altrettanto ovvio che si tratta delle minoranze più vocianti, tanto vocianti da far credere a chi non ha capito nulla della situazione, che si tratti della maggioranza.
Dar retta alle manifestazioni studentesche di questi giorni non significa soltanto non aver capito niente, ma anche non avere il coraggio che si richiede ad una classe politica degna di questo nome, la quale non dovrebbe esitare a fare quel che è giusto anche di fronte alle proteste, soprattutto tenendo conto che una scuola la cui organizzazione viene decisa dagli studenti è morta e sepolta.
Il senatore Calderoli – pronto a esibire rigore e fermezza estrema quando si tratta di questioni padane o di immigrazione – ha sbagliato tre volte: ha mostrato di cedere miseramente di fronte alle sgangherate richieste della piazza; ha dimostrato di non avere il polso della situazione, perché se crede di conquistare un po’ di voti di famiglie che non hanno il senso del dovere perderà molti più voti di altre famiglie e di insegnanti; e infine non ha capito il merito della questione, perché il provvedimento di Fioroni non ripristina gli esami autunnali, che richiedevano la formazione di commissioni, bensì accorcia i tempi di verifica del recupero dei debiti formativi e cerca di porre rimedio allo scandalo immorale di studenti che non fanno nulla e vanno avanti lo stesso.
Se poi è proprio questo cui mirava Calderoli, e cioè stoppare il provvedimento di Fioroni, per lisciare il pelo ai nullafacenti, agli asini, ai bulli e alle loro irresponsabili famiglie – come risulterebbe dalla sua dichiarazione tesa a restituire “tranquillità ai nostri ragazzi” – ha fatto il peggio del peggio in nome di un misero vantaggio di popolarità che peraltro non incasserà mai. In cambio, ha vibrato una picconata micidiale alla scuola, lanciando un segnale che va in direzione opposta al recupero di rigore, di serietà, di disciplina e di efficacia.
Quel che è stato sconvolgente è l’immagine di un Senato che si è accodato quasi tutto a una simile sconsiderata iniziativa, probabilmente sempre per la paura della piazza, per insipienza e incomprensione della realtà.
Arrivano molte telefonate sconsolate. Qualcuno si chiedeva anche in quale paese civile si potrebbe emigrare. Si continui pure così, ma poi non ci si lamenti se il vento della sfiducia e dell’antipolitica s’ingrosserà sempre di più.
(L'Occidentale, 18 ottobre 2007)
martedì 9 ottobre 2007
Il pantano della politica italiana
Michele Salvati ha sollevato un dibattito molto interessante sul Corriere della Sera, sostenendo, in sostanza, che il problema fondamentale del Partito democratico sia continuare sulla linea degli accordi e dei compromessi con la sinistra radicale, oppure evitare alleanze che forse possono condurre alla vittoria elettorale ma che condannano all’ingovernabilità. Nell’attuale situazione, è quanto dire: «È meglio perdere da soli o in compagnia?». Ha risposto Marco Follini che la seconda scelta è quella giusta: «prima i contenuti e poi gli schieramenti, prima le idee riformiste e poi la compagnia (rigorosamente riformista anch’essa». Secondo Follini non è neppure detto che così si perda, se si accetta di rischiare credendo alla sfida. Tuttavia, l’intervento di Nicola Rossi ha messo il dito sulla piaga dicendo, in buona sostanza, che se la linea riformista non si afferma davvero, se non è profondamente condivisa all’interno dello stesso Partito democratico, l’alternativa posta è fallace. La consapevolezza della vera natura delle sfide da affrontare «è solitamente la conseguenza di battaglie senza quartiere, culturali prima ancora che politiche, combattute all’interno dei singoli schieramenti, associate alla convinzione che un sistema bipolare vive dello scontro trasparente tra i poli, ma soffoca se allo sconto sulle issues si sostituisce la pura e semplice negazione dell’avversario».
Rossi ha messo il dito sulla piaga. Perché il dato dell’omogeneità all’interno dello stesso Partito democratico è tutt’altro che scontato. Al contrario, l’immagine è quella di una disomogeneità che riproduce, in forme appena attenuate, la stessa disomogeneità che caratterizza l’attuale coalizione di governo. Non è un caso che il Pd si sia scelto un segretario di mediazione come Veltroni: perché, al di là delle affermazioni di principio, Veltroni è l’uomo della mediazione per eccellenza, che tenta di tenere assieme tutto e il contrario di tutto con gli equilibrismi più arditi. Ciò non si riflette soltanto nella scelta delle personalità di punta del Pd, che spesso stanno assieme come il diavolo e l’acqua santa, ma nell’impossibilità di dire che cosa voglia il Pd su tutti i temi cruciali: politica economica, politica estera, questioni etiche posti dagli sviluppi tecnoscientifici, politiche dell’istruzione e della ricerca scientifica. Il Pd non ha seguito il percorso del partito di Sarkozy, che è stato da quest’ultimo riplasmato da cima a fondo attraverso una dura e tenace battaglia politica, che ha lasciato emergere una linea chiara, talmente chiara da poter essere polo di attrazione persino per alcuni settori dell’opposizione socialista.
Il guaio è che questa situazione affligge anche il centro-destra. Al di là di un generico riferimento all’abbattimento delle imposte non si capisce bene quale politica economica verrebbe perseguita. Prospettare alleanze con personalità come Lamberto Dini apre inquietanti domande circa la futura politica estera del centro-destra, se solo si ricordano i viaggi in Siria e le dichiarazioni di quest’ultimo sulla crisi mediorientale e sull’Iran. Sulla politica scolastica la confusione è totale.Il centro-destra è generalmente più sensibile ai temi di bioetica, ma non poche personalità al suo interno professano posizioni che si spingono fino al laicismo.
Il richiamo di Nicola Rossi a battaglie culturali “senza quartiere”, prima ancora che politiche, che conducano a scelte consapevoli all’interno degli schieramenti, è quanto mai opportuno, perché se non si perverrà a un simile livello di chiarezza il paese non uscirà mai fuori dalla crisi che lo attanaglia.
Rossi ha messo il dito sulla piaga. Perché il dato dell’omogeneità all’interno dello stesso Partito democratico è tutt’altro che scontato. Al contrario, l’immagine è quella di una disomogeneità che riproduce, in forme appena attenuate, la stessa disomogeneità che caratterizza l’attuale coalizione di governo. Non è un caso che il Pd si sia scelto un segretario di mediazione come Veltroni: perché, al di là delle affermazioni di principio, Veltroni è l’uomo della mediazione per eccellenza, che tenta di tenere assieme tutto e il contrario di tutto con gli equilibrismi più arditi. Ciò non si riflette soltanto nella scelta delle personalità di punta del Pd, che spesso stanno assieme come il diavolo e l’acqua santa, ma nell’impossibilità di dire che cosa voglia il Pd su tutti i temi cruciali: politica economica, politica estera, questioni etiche posti dagli sviluppi tecnoscientifici, politiche dell’istruzione e della ricerca scientifica. Il Pd non ha seguito il percorso del partito di Sarkozy, che è stato da quest’ultimo riplasmato da cima a fondo attraverso una dura e tenace battaglia politica, che ha lasciato emergere una linea chiara, talmente chiara da poter essere polo di attrazione persino per alcuni settori dell’opposizione socialista.
Il guaio è che questa situazione affligge anche il centro-destra. Al di là di un generico riferimento all’abbattimento delle imposte non si capisce bene quale politica economica verrebbe perseguita. Prospettare alleanze con personalità come Lamberto Dini apre inquietanti domande circa la futura politica estera del centro-destra, se solo si ricordano i viaggi in Siria e le dichiarazioni di quest’ultimo sulla crisi mediorientale e sull’Iran. Sulla politica scolastica la confusione è totale.Il centro-destra è generalmente più sensibile ai temi di bioetica, ma non poche personalità al suo interno professano posizioni che si spingono fino al laicismo.
Il richiamo di Nicola Rossi a battaglie culturali “senza quartiere”, prima ancora che politiche, che conducano a scelte consapevoli all’interno degli schieramenti, è quanto mai opportuno, perché se non si perverrà a un simile livello di chiarezza il paese non uscirà mai fuori dalla crisi che lo attanaglia.
venerdì 28 settembre 2007
Lettera al direttore de Il Foglio sul "diritto" a entrare in ritardo a scuola
Signor Direttore,
giustamente Il Foglio definisce "imperdibili" le dichiarazioni di Roberto Tavani, assessore municipale alla cultura, circa la battaglia sul diritto a entrare in ritardo al Liceo Mamiani. Allora non perdiamoci neppure quelle di "Giacomo", rappresentante dimissionario al Consiglio d'Istituto, secondo cui “il preside non ha capito che ciò che più fa imbestialire gli studenti è un proprio un provvedimento che interferisce sulla sfera personale". Una filosofia davvero interessante. L'orario di ingresso a scuola sarebbe una faccenda che attiene alla sfera personale... A pensarci bene, ogni orario - degli uffici, dei treni, degli aerei, delle fabbriche, degli ospedali, ecc. ecc. - interferisce nelle sfere personali. Perciò - sempre per dirla con l'imperdibile Tavani - bisogna "elaborare un confronto" perché "dare un aut aut è solo perdente". Proviamo a ristrutturare il paese su queste basi e vediamo che bordello perdente ne viene fuori. D'altra parte è la filosofia "I care" de "la legalità è un diritto". Uno (come il preside del Mamiani) ha il diritto di chiedere il rispetto della legalità. Gli altri la rispetteranno, se gli garba. Se non gli garba, bisognerà elaborare un confronto. Doveri da applicare sotto forma di aut aut? Mai! Sarebbe un'orrida interferenza nella sfera personale, che diamine.
giustamente Il Foglio definisce "imperdibili" le dichiarazioni di Roberto Tavani, assessore municipale alla cultura, circa la battaglia sul diritto a entrare in ritardo al Liceo Mamiani. Allora non perdiamoci neppure quelle di "Giacomo", rappresentante dimissionario al Consiglio d'Istituto, secondo cui “il preside non ha capito che ciò che più fa imbestialire gli studenti è un proprio un provvedimento che interferisce sulla sfera personale". Una filosofia davvero interessante. L'orario di ingresso a scuola sarebbe una faccenda che attiene alla sfera personale... A pensarci bene, ogni orario - degli uffici, dei treni, degli aerei, delle fabbriche, degli ospedali, ecc. ecc. - interferisce nelle sfere personali. Perciò - sempre per dirla con l'imperdibile Tavani - bisogna "elaborare un confronto" perché "dare un aut aut è solo perdente". Proviamo a ristrutturare il paese su queste basi e vediamo che bordello perdente ne viene fuori. D'altra parte è la filosofia "I care" de "la legalità è un diritto". Uno (come il preside del Mamiani) ha il diritto di chiedere il rispetto della legalità. Gli altri la rispetteranno, se gli garba. Se non gli garba, bisognerà elaborare un confronto. Doveri da applicare sotto forma di aut aut? Mai! Sarebbe un'orrida interferenza nella sfera personale, che diamine.
domenica 16 settembre 2007
E adesso scopriamo che pure il grande Habermas non si porta più
(Il Foglio - sabato 15 settembre 2007)
La relazione tenuta da Jürgen Habermas a Roma su “La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?” suscita una riflessione. Prima o poi occorrerà ammettere che più di un secolo di sociologia “scientifica” inspirata al modello delle scienze esatte ha lasciato poche acquisizioni e molti detriti. Ciò emerge anche dalla relazione di Habermas, per esempio quando osserva che «la debolezza della teoria della secolarizzazione è dovuta a inferenze affrettate che tradiscono un uso impreciso dei concetti di “secolarizzazione” e di “modernizzazione”». Perché parlare di “imprecisione” e non di uso astorico? Il concetto di precisione si addice a definizioni relative a oggetti aventi caratteristiche di invariabilità, non a fenomeni, addirittura soggettivi, dipendenti dal tempo storico. In tal caso, il tentativo di dare definizioni “precise” è vano. Habermas ricorda i tre cardini su cui poggia la tesi della secolarizzazione risalente a Durkheim e Weber: il progresso della scienza e della tecnologia promuove una visione antropocentrica e umanistica del mondo inconciliabile con le visioni teocentriche; la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali dissolve la funzione pubblica delle religioni; la crescita di benessere e di sicurezza esistenziale elimina il bisogno di fede in un potere più “alto”. Ma questa tesi era soprattutto una credenza dei padri della sociologia scientifica che non ha corrisposto agli sviluppi storici successivi. Che il progresso scientifico e tecnologico implichi di per sé antropocentrismo e umanesimo poteva essere creduto nel periodo trionfale del positivismo. Oggi quest’idea si scontra con i fatti: il prevalere del meccanicismo spinge in una direzione antiumanistica e per nulla antropocentrica. Così, l’idea che la diffusione del benessere dissolva l’esigenza di trascendenza era un “wishful thinking”, pesantemente smentito dalla storia del Novecento: l’insoddisfazione per la società del benessere non ha ricondotto alle religioni tradizionali, ma è stata convogliata entro altre correnti di forza inaudita.
L’analisi dei padri della sociologia non può essere considerata fuori dalla storia, come se dovessimo discutere delle equazioni di Maxwell. Vi è certamente stato un processo di secolarizzazione nel senso sopradetto. Ma occorre chiedersi se lo spazio sottratto alle religioni sia stato riempito dalla razionalità illuministica o positivistica o, piuttosto, l’esigenza di assoluto non si sia incanalata in altre direzioni, e altri attori abbiano occupato la scena. È stupefacente che si possa sviluppare un’analisi di questi temi escludendone i più ingombranti protagonisti del Novecento: i totalitarismi. Appare molto più significativa la categoria di “teologie sostitutive” introdotta da George Steiner. Secondo tale visione il vuoto lasciato libero dalle religioni è stato riempito da teologie sostitutive, sistemi “mitopoietici” che offrono risposte alle problematiche tipiche del pensiero religioso: visioni totalizzanti ed escatologiche che rispondono ad aneliti messianici; la sostituzione dei testi sacri con testi canonici, nuove “tavole della legge”; il conseguente conflitto fra ortodossia ed eresia; la costituzione di linguaggi e riti formati da metafore, simboli, gesti, scenari aventi un valore d’identificazione. Queste caratteristiche si ritrovano tutte nei movimenti totalitari del Novecento e poco hanno a che fare con il razionalismo secolare, anche se ne ereditano lo scientismo, piegato però a una prospettiva escatologica che, pur dicendosi terrena, è talmente fuori dalla storia reale da rivelare il suo carattere di surrogato dell’esigenza frustrata di trascendenza e di redenzione.
Tanto è inverosimile un’analisi delle relazioni tra secolarismo e religiosità in Europa senza riferimento ai totalitarismi, quanto lo è discutere le condizioni presenti dell’Europa senza occuparsi di cosa stia accadendo nel vuoto lasciato libero dal comunismo. A nostro avviso, l’esigenza di palingenesi messianica del comunismo, privata di prospettive concrete, dei suoi “libri sacri” e dei suoi simboli identificativi, li ha sostituiti con una visione ridotta al mito salvifico della tecnoscienza, in quanto capace di redimere la società e di ricostruire scientificamente l’uomo, depurandolo dagli errori inerenti alla sua “imperfetta” costituzione naturale. Ed ecco che un altro mito escatologico novecentesco, l’eugenetica, si riaffaccia nei panni di un ideale di progresso. Questo bisogno inesausto di escatologia spiega perchè tanti orfani del marxismo siano in prima linea nel lanciare la singolare formula della scienza come “religione della ragione”. E spiega il paradosso per cui il bersaglio della critica storico-scientifica delle religioni sono cristianesimo ed ebraismo e i loro libri sacri mentre si presta un deferente omaggio al Corano, e si manifesta comprensione nei confronti del fondamentalismo islamico. Simili manifestazioni hanno poco a che fare con il secolarismo e con la laicità. Giustamente si parla di “laicismo” – ne ha parlato Habermas suscitando fastidio – ovvero dell’erigere l’antireligiosità a fede, rinunciando alla tolleranza voltairiana in favore dell’intransigenza delle teologie sostitutive.
Non sorprende che un discorso moderato e aperto sulla ragione – un’autentica difesa della razionalità – venga oggi in Europa soprattutto dal vilipeso ceppo giudaico-cristiano. Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha destato scandalo perché ha proposto una nuova alleanza tra ragione e religione in opposizione alla visione della fede come alternativa alla ragione o della ragione eretta a fede. Come parlare di secolarismo tollerante europeo, se la “religione della ragione” respinge questa mano tesa e preferisce mostrare comprensione nei confronti di chi predica la supremazia assoluta della fede?
Nella sua relazione Habermas propone una critica del laicismo in quanto capace di provocare conflitti altrettanto profondi di quelli tra fedi religiose ostili. Egli identifica il laicismo come devianza da una condizione ideale di coesistenza tra visioni contrastanti, derivante dall’accettazione di un minimo comun denominatore di regole – una condizione che individua come ipotesi controfattuale. Crediamo poco all’uso di ragionamenti controfattuali nelle scienze sociali. Le scienze fisico-matematiche ricorrono a ragionamenti controfattuali in quanto l’essenza del loro metodo è immergere il reale in un immaginario controllato. Ma non esiste un virtuale nella sfera sociale e per questo una sociologia teorica è impossibile. Pertanto, lo schema utilizzato da Habermas, ricorrendo all’idea di equilibrio, che ha dato sempre cattivi risultati nelle scienze umane, non corrisponde a situazioni realistiche e praticabili. Ma questo è un altro discorso. Qui ci interessa sottolineare che, anche a partire da un siffatto approccio, Habermas perviene a conclusioni nette sul pregiudizio che una visione laicista può portare alla tolleranza.
Tuttavia, la parte più interessante del testo di Habermas è dove egli, scendendo sul terreno storico, critica «la presa di posizione polemica dell’Illuminismo nei confronti del potere temporale della religione», che «tende ad oscurare il fatto che il pensiero postmetafisico si è appropriato criticamente di contenuti della tradizione giudaico-cristiana non meno importanti dell’eredità della metafisica greca». Egli sottolinea che «i concetti moderni della persona individuale e della forza individuante di una storia di vita traggono le loro connotazioni di unicità, insostituibilità e soggettività o interiorità dalla nozione biblica di una vita vissuta sotto lo sguardo divino». «La morale laica dell’eguale rispetto per ciascuno» ha un carattere di imperativo categorico perché «mantiene una traccia della trascendenza intramondana dalla prospettiva divina del Giudizio Universale». Si potrebbe aggiungere che questo apporto è stato determinante anche sul terreno della razionalità scientifica: la formazione della scienza europea ha avuto come attori principali “teologi laici” che ne hanno fondato i concetti sulla base di riflessioni teologiche sull’infinito, lo spazio, il tempo e il rapporto tra matematica e realtà.
È bastato che Habermas ponesse la domanda «intorno a che cosa la ragione secolare possa apprendere dall’acquisire coscienza del suo rapporto genealogico con l’eredità giudaico-cristiana» per destare fastidio in molti commentatori. Si è tentato di far credere che il suo intervento sia stato «una sfida alle tesi di Papa Ratzinger». Al contrario. Per Habermas, la ragione laica deve «astenersi dal valutare la razionalità o irrazionalità della religione in quanto tale»: un richiamo che incontra le tesi di Benedetto XVI. E quando conclude dicendo che il «riserbo cognitivo» di un «agnosticismo riflessivo» «può soltanto operare a favore di quelle religioni che a loro volta hanno imparato a riconoscere la democrazia, il pluralismo religioso e l’autorità laica della scienza», egli fa l’affermazione più imbarazzante per chi ha voluto presentare il suo intervento come un’apologia della ragione laica europea in quanto sola capace di gestire l’incontro delle civiltà. Provatevi a chiedere quali sono quelle religioni: la risposta l’ha data poco prima Habermas, più chiaramente non si potrebbe.
La relazione tenuta da Jürgen Habermas a Roma su “La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?” suscita una riflessione. Prima o poi occorrerà ammettere che più di un secolo di sociologia “scientifica” inspirata al modello delle scienze esatte ha lasciato poche acquisizioni e molti detriti. Ciò emerge anche dalla relazione di Habermas, per esempio quando osserva che «la debolezza della teoria della secolarizzazione è dovuta a inferenze affrettate che tradiscono un uso impreciso dei concetti di “secolarizzazione” e di “modernizzazione”». Perché parlare di “imprecisione” e non di uso astorico? Il concetto di precisione si addice a definizioni relative a oggetti aventi caratteristiche di invariabilità, non a fenomeni, addirittura soggettivi, dipendenti dal tempo storico. In tal caso, il tentativo di dare definizioni “precise” è vano. Habermas ricorda i tre cardini su cui poggia la tesi della secolarizzazione risalente a Durkheim e Weber: il progresso della scienza e della tecnologia promuove una visione antropocentrica e umanistica del mondo inconciliabile con le visioni teocentriche; la differenziazione funzionale dei sottosistemi sociali dissolve la funzione pubblica delle religioni; la crescita di benessere e di sicurezza esistenziale elimina il bisogno di fede in un potere più “alto”. Ma questa tesi era soprattutto una credenza dei padri della sociologia scientifica che non ha corrisposto agli sviluppi storici successivi. Che il progresso scientifico e tecnologico implichi di per sé antropocentrismo e umanesimo poteva essere creduto nel periodo trionfale del positivismo. Oggi quest’idea si scontra con i fatti: il prevalere del meccanicismo spinge in una direzione antiumanistica e per nulla antropocentrica. Così, l’idea che la diffusione del benessere dissolva l’esigenza di trascendenza era un “wishful thinking”, pesantemente smentito dalla storia del Novecento: l’insoddisfazione per la società del benessere non ha ricondotto alle religioni tradizionali, ma è stata convogliata entro altre correnti di forza inaudita.
L’analisi dei padri della sociologia non può essere considerata fuori dalla storia, come se dovessimo discutere delle equazioni di Maxwell. Vi è certamente stato un processo di secolarizzazione nel senso sopradetto. Ma occorre chiedersi se lo spazio sottratto alle religioni sia stato riempito dalla razionalità illuministica o positivistica o, piuttosto, l’esigenza di assoluto non si sia incanalata in altre direzioni, e altri attori abbiano occupato la scena. È stupefacente che si possa sviluppare un’analisi di questi temi escludendone i più ingombranti protagonisti del Novecento: i totalitarismi. Appare molto più significativa la categoria di “teologie sostitutive” introdotta da George Steiner. Secondo tale visione il vuoto lasciato libero dalle religioni è stato riempito da teologie sostitutive, sistemi “mitopoietici” che offrono risposte alle problematiche tipiche del pensiero religioso: visioni totalizzanti ed escatologiche che rispondono ad aneliti messianici; la sostituzione dei testi sacri con testi canonici, nuove “tavole della legge”; il conseguente conflitto fra ortodossia ed eresia; la costituzione di linguaggi e riti formati da metafore, simboli, gesti, scenari aventi un valore d’identificazione. Queste caratteristiche si ritrovano tutte nei movimenti totalitari del Novecento e poco hanno a che fare con il razionalismo secolare, anche se ne ereditano lo scientismo, piegato però a una prospettiva escatologica che, pur dicendosi terrena, è talmente fuori dalla storia reale da rivelare il suo carattere di surrogato dell’esigenza frustrata di trascendenza e di redenzione.
Tanto è inverosimile un’analisi delle relazioni tra secolarismo e religiosità in Europa senza riferimento ai totalitarismi, quanto lo è discutere le condizioni presenti dell’Europa senza occuparsi di cosa stia accadendo nel vuoto lasciato libero dal comunismo. A nostro avviso, l’esigenza di palingenesi messianica del comunismo, privata di prospettive concrete, dei suoi “libri sacri” e dei suoi simboli identificativi, li ha sostituiti con una visione ridotta al mito salvifico della tecnoscienza, in quanto capace di redimere la società e di ricostruire scientificamente l’uomo, depurandolo dagli errori inerenti alla sua “imperfetta” costituzione naturale. Ed ecco che un altro mito escatologico novecentesco, l’eugenetica, si riaffaccia nei panni di un ideale di progresso. Questo bisogno inesausto di escatologia spiega perchè tanti orfani del marxismo siano in prima linea nel lanciare la singolare formula della scienza come “religione della ragione”. E spiega il paradosso per cui il bersaglio della critica storico-scientifica delle religioni sono cristianesimo ed ebraismo e i loro libri sacri mentre si presta un deferente omaggio al Corano, e si manifesta comprensione nei confronti del fondamentalismo islamico. Simili manifestazioni hanno poco a che fare con il secolarismo e con la laicità. Giustamente si parla di “laicismo” – ne ha parlato Habermas suscitando fastidio – ovvero dell’erigere l’antireligiosità a fede, rinunciando alla tolleranza voltairiana in favore dell’intransigenza delle teologie sostitutive.
Non sorprende che un discorso moderato e aperto sulla ragione – un’autentica difesa della razionalità – venga oggi in Europa soprattutto dal vilipeso ceppo giudaico-cristiano. Il discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha destato scandalo perché ha proposto una nuova alleanza tra ragione e religione in opposizione alla visione della fede come alternativa alla ragione o della ragione eretta a fede. Come parlare di secolarismo tollerante europeo, se la “religione della ragione” respinge questa mano tesa e preferisce mostrare comprensione nei confronti di chi predica la supremazia assoluta della fede?
Nella sua relazione Habermas propone una critica del laicismo in quanto capace di provocare conflitti altrettanto profondi di quelli tra fedi religiose ostili. Egli identifica il laicismo come devianza da una condizione ideale di coesistenza tra visioni contrastanti, derivante dall’accettazione di un minimo comun denominatore di regole – una condizione che individua come ipotesi controfattuale. Crediamo poco all’uso di ragionamenti controfattuali nelle scienze sociali. Le scienze fisico-matematiche ricorrono a ragionamenti controfattuali in quanto l’essenza del loro metodo è immergere il reale in un immaginario controllato. Ma non esiste un virtuale nella sfera sociale e per questo una sociologia teorica è impossibile. Pertanto, lo schema utilizzato da Habermas, ricorrendo all’idea di equilibrio, che ha dato sempre cattivi risultati nelle scienze umane, non corrisponde a situazioni realistiche e praticabili. Ma questo è un altro discorso. Qui ci interessa sottolineare che, anche a partire da un siffatto approccio, Habermas perviene a conclusioni nette sul pregiudizio che una visione laicista può portare alla tolleranza.
Tuttavia, la parte più interessante del testo di Habermas è dove egli, scendendo sul terreno storico, critica «la presa di posizione polemica dell’Illuminismo nei confronti del potere temporale della religione», che «tende ad oscurare il fatto che il pensiero postmetafisico si è appropriato criticamente di contenuti della tradizione giudaico-cristiana non meno importanti dell’eredità della metafisica greca». Egli sottolinea che «i concetti moderni della persona individuale e della forza individuante di una storia di vita traggono le loro connotazioni di unicità, insostituibilità e soggettività o interiorità dalla nozione biblica di una vita vissuta sotto lo sguardo divino». «La morale laica dell’eguale rispetto per ciascuno» ha un carattere di imperativo categorico perché «mantiene una traccia della trascendenza intramondana dalla prospettiva divina del Giudizio Universale». Si potrebbe aggiungere che questo apporto è stato determinante anche sul terreno della razionalità scientifica: la formazione della scienza europea ha avuto come attori principali “teologi laici” che ne hanno fondato i concetti sulla base di riflessioni teologiche sull’infinito, lo spazio, il tempo e il rapporto tra matematica e realtà.
È bastato che Habermas ponesse la domanda «intorno a che cosa la ragione secolare possa apprendere dall’acquisire coscienza del suo rapporto genealogico con l’eredità giudaico-cristiana» per destare fastidio in molti commentatori. Si è tentato di far credere che il suo intervento sia stato «una sfida alle tesi di Papa Ratzinger». Al contrario. Per Habermas, la ragione laica deve «astenersi dal valutare la razionalità o irrazionalità della religione in quanto tale»: un richiamo che incontra le tesi di Benedetto XVI. E quando conclude dicendo che il «riserbo cognitivo» di un «agnosticismo riflessivo» «può soltanto operare a favore di quelle religioni che a loro volta hanno imparato a riconoscere la democrazia, il pluralismo religioso e l’autorità laica della scienza», egli fa l’affermazione più imbarazzante per chi ha voluto presentare il suo intervento come un’apologia della ragione laica europea in quanto sola capace di gestire l’incontro delle civiltà. Provatevi a chiedere quali sono quelle religioni: la risposta l’ha data poco prima Habermas, più chiaramente non si potrebbe.
giovedì 6 settembre 2007
Viva le tabelline di Fioroni, ora ci liberi dal pedagogismo democratico
Soltanto qualche mese fa il professor Odifreddi elogiava l’introduzione del calcolo numerico mentale negli asili francesi dicendo che, in tal modo, i bambini avrebbero smesso di credere a Babbo Natale e a Gesù. Ora, di fronte alle indicazioni del ministro Fioroni tese a ridare spazio alle tabelline e alle competenze specifiche rovescia la sua posizione e parla di “restaurazione”, in singolare consonanza anche verbale con alcuni esponenti del centro destra che parlano di visione “passatista” e “impositiva”. Dunque, lo slogan sessantottino dell’insegnamento disciplinare “oppressivo” e “impositivo” risorge a destra, fianco a fianco con la rivalutazione odifreddiana della metodologia: non conta quello che apprendi ma come lo apprendi. Difatti, il “matematico impertinente” è soprattutto preoccupato che i bambini siano sottratti al mondo delle favole e della religione e si deve essere convinto che la scienza in sé non basti allo scopo e che forse è meglio ricorrere alla metodologia.
Simili confusioni mentali e stupefacenti convergenze hanno due possibili spiegazioni. O siamo di fronte a persone che non hanno mai visto un bambino in vita loro, non hanno mai messo piede in una scuola e non hanno la minima idea di come si insegni la matematica, per esempio nelle elementari (e forse questo è il caso di Odifreddi). Oppure, siamo di fronte al tentativo di conservare a tutti i costi il primato del pedagogismo, ovvero della scuola come “laboratorio del processo di apprendimento”, alla teoria dell’allievo “al centro del sistema”, che costruisce da solo i suoi saperi, con l’ausilio di un insegnante visto come animatore culturale – del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini. Insomma, è il tentativo di difendere la scuola come territorio della metodologia pura, scienza dei nullatenenti e scienza del nulla.
Facciamo chiarezza una volta per tutte. Chi scrive non ha nulla contro la pedagogia, disciplina rispettabilissima, né contro la metodologia. Se non altro per essere stato per anni direttore di un centro di ricerche in metodologia delle scienze… In quegli anni facemmo interessanti cicli di seminari in cui si analizzava, ad esempio, la metodologia della modellistica matematica nell’ingegneria industriale e gestionale dal punto di vista storico ed epistemologico. Cose certamente utili e istruttive anche per chi fa ricerca sul campo. Ma va detto chiaramente che, se qualcuno di noi fosse entrato in un centro di ricerca a dire “dovete fare così e così”, o addirittura fosse stato preposto istituzionalmente a esercitare un siffatto potere, avrebbe meritato di essere messo alla porta con un elegante calcio nei posteriori. Conoscere la storia della pedagogia, analizzare e confrontare varie scelte nei processi d’insegnamento, è di un’importanza indiscutibile che soltanto un stolto potrebbe sottovalutare. Ma si passa il segno quando si pretende che è nel contesto di questa disciplina che debbono essere definiti i metodi e i contenuti dell’insegnamento e che il docente deve ridursi a semplice passacarte delle determinazioni della corporazione dei pedagogisti e di una tuttologia che pretende di metter bocca imperativamente su tutto.
Purtroppo questo è avvenuto nell’ultimo trentennio. La pedagogia è stata pensata come una “iperdisciplina” e “metadisciplina” che presiede alla regolazione di tutte le altre, il cui ruolo sarebbe addirittura sostitutivo dell’interazione disciplinare. Il pedagogismo è stato un fenomeno sviluppatosi soprattutto sul fronte “progressista” e “di sinistra” ma non deve stupire affatto che esso sia riuscito ad allargarsi ad un fronte più ampio e trasversale, come constatiamo ora. Difatti, cosa vi è di più attraente, comodo e gratificante sul piano del potere di una metadisciplina che, poiché comanda e dirige tutte le altre, si sottrae automaticamente ad ogni forma di controllo? Non a caso il prepotere del pedagogismo si è accompagnato a quello della docimologia, o scienza “oggettiva” della valutazione. L’aspetto delirante è che i paradigmi centrali di tale prepotere – e cioè che l’educazione sia una questione di metodologie didattiche e che possa esistere una scienza “oggettiva” della valutazione avente lo stesso rigore delle scienze esatte – tanto sono opinabili quanto sono stati invece presentati come verità al di sopra di qualsiasi possibile discussione o contestazione. Perché mai i “valutatori” debbono saper valutare meglio degli insegnanti e non si possono mettere in discussione sul terreno disciplinare certe loro assurde teorie? Perché una nozione (che reputo legittimamente ridicola) come quella di “misurazione della cultura” può essere tranquillamente enunciata in una zona metadisciplinare? E perché certe dottrine pedagogiche non possono essere vagliate sulla base dei loro esiti sul terreno disciplinare? Questa autoreferenzialità, abilmente insediatasi in alcune zone politico-amministrative, ha creato una casta di intoccabili che ha progressivamente espropriato gli insegnanti della loro funzione educativa e della funzione valutativa, riducendoli a semplici esecutori delle scelte decise nelle “commissioni”.
Peraltro, poiché queste scelte sono state il frutto delle idee di tuttologi privi di competenze specifiche, o dotati talora di competenze modeste, i risultati sono disastrosi e sono sotto gli occhi di tutti. Non vi è qui lo spazio per diffondersi nel merito. Ma sarei pronto a una sfida, documenti alla mano, per mostrare nel dettaglio quale scempio sia stato compiuto dell’insegnamento della matematica fin dalle elementari, riducendola a una disciplina altra da sé; nonché dello scempio compiuto dell’insegnamento della storia – ridotta a borborigmi sul tema dell’irreversibilità del tempo – e della geografia – ridotta a ossessive elucubrazioni sul tema astratto della spazialità.
Ben venga quindi questo passo del ministro Fioroni, in direzione della reintroduzione dei contenuti della matematica propriamente detta, incluso il coltivare le capacità di calcolo mentale, della grammatica, della geografia intesa come apprendimento dei luoghi dello spazio reale e della storia come narrazione di eventi realmente accaduti. Purché non si tratti di una semplice mossa polemica di natura politica a cui, dopo gli annunci, non segua nulla; o, peggio, segua qualche nuova commissione controllata di nuovo dalla stessa ideologia e dalle stesse persone che ci hanno portato al disastro. Come ha scritto il matematico francese (e Fields Medal) Laurent Lafforgue, «tutte queste persone hanno oggi uno scopo soltanto: scaricare le loro responsabilità e quindi mascherare con tutti i mezzi la realtà del disastro». Che prendano un po’ di riposo non potrà che far bene a tutti.
Nel nostro paese, sembra che tutti abbiano paura di pronunziare la parola “indietro” e che sia indecente non andare comunque “avanti”, verso il sol dell’avvenire, costi anche il precipitare in una scarpata. E tutti si riempiono la bocca di Sarkozy, ma non guardano a quale sia il nucleo del messaggio che – di nuovo, proprio oggi – egli manda sul tema dell’educazione e della scuola. È la rottura col “pedagogismo democratico”, figlio del sessantotto. Se si capirà che questa è la posta in gioco, qualcosa potrà cambiare. Altrimenti sarà il solito chiacchiericcio di “politique politicienne” mentre le termiti continueranno a fare il loro lavoro.
(Il Foglio, 6 settembre 2007)
Simili confusioni mentali e stupefacenti convergenze hanno due possibili spiegazioni. O siamo di fronte a persone che non hanno mai visto un bambino in vita loro, non hanno mai messo piede in una scuola e non hanno la minima idea di come si insegni la matematica, per esempio nelle elementari (e forse questo è il caso di Odifreddi). Oppure, siamo di fronte al tentativo di conservare a tutti i costi il primato del pedagogismo, ovvero della scuola come “laboratorio del processo di apprendimento”, alla teoria dell’allievo “al centro del sistema”, che costruisce da solo i suoi saperi, con l’ausilio di un insegnante visto come animatore culturale – del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini. Insomma, è il tentativo di difendere la scuola come territorio della metodologia pura, scienza dei nullatenenti e scienza del nulla.
Facciamo chiarezza una volta per tutte. Chi scrive non ha nulla contro la pedagogia, disciplina rispettabilissima, né contro la metodologia. Se non altro per essere stato per anni direttore di un centro di ricerche in metodologia delle scienze… In quegli anni facemmo interessanti cicli di seminari in cui si analizzava, ad esempio, la metodologia della modellistica matematica nell’ingegneria industriale e gestionale dal punto di vista storico ed epistemologico. Cose certamente utili e istruttive anche per chi fa ricerca sul campo. Ma va detto chiaramente che, se qualcuno di noi fosse entrato in un centro di ricerca a dire “dovete fare così e così”, o addirittura fosse stato preposto istituzionalmente a esercitare un siffatto potere, avrebbe meritato di essere messo alla porta con un elegante calcio nei posteriori. Conoscere la storia della pedagogia, analizzare e confrontare varie scelte nei processi d’insegnamento, è di un’importanza indiscutibile che soltanto un stolto potrebbe sottovalutare. Ma si passa il segno quando si pretende che è nel contesto di questa disciplina che debbono essere definiti i metodi e i contenuti dell’insegnamento e che il docente deve ridursi a semplice passacarte delle determinazioni della corporazione dei pedagogisti e di una tuttologia che pretende di metter bocca imperativamente su tutto.
Purtroppo questo è avvenuto nell’ultimo trentennio. La pedagogia è stata pensata come una “iperdisciplina” e “metadisciplina” che presiede alla regolazione di tutte le altre, il cui ruolo sarebbe addirittura sostitutivo dell’interazione disciplinare. Il pedagogismo è stato un fenomeno sviluppatosi soprattutto sul fronte “progressista” e “di sinistra” ma non deve stupire affatto che esso sia riuscito ad allargarsi ad un fronte più ampio e trasversale, come constatiamo ora. Difatti, cosa vi è di più attraente, comodo e gratificante sul piano del potere di una metadisciplina che, poiché comanda e dirige tutte le altre, si sottrae automaticamente ad ogni forma di controllo? Non a caso il prepotere del pedagogismo si è accompagnato a quello della docimologia, o scienza “oggettiva” della valutazione. L’aspetto delirante è che i paradigmi centrali di tale prepotere – e cioè che l’educazione sia una questione di metodologie didattiche e che possa esistere una scienza “oggettiva” della valutazione avente lo stesso rigore delle scienze esatte – tanto sono opinabili quanto sono stati invece presentati come verità al di sopra di qualsiasi possibile discussione o contestazione. Perché mai i “valutatori” debbono saper valutare meglio degli insegnanti e non si possono mettere in discussione sul terreno disciplinare certe loro assurde teorie? Perché una nozione (che reputo legittimamente ridicola) come quella di “misurazione della cultura” può essere tranquillamente enunciata in una zona metadisciplinare? E perché certe dottrine pedagogiche non possono essere vagliate sulla base dei loro esiti sul terreno disciplinare? Questa autoreferenzialità, abilmente insediatasi in alcune zone politico-amministrative, ha creato una casta di intoccabili che ha progressivamente espropriato gli insegnanti della loro funzione educativa e della funzione valutativa, riducendoli a semplici esecutori delle scelte decise nelle “commissioni”.
Peraltro, poiché queste scelte sono state il frutto delle idee di tuttologi privi di competenze specifiche, o dotati talora di competenze modeste, i risultati sono disastrosi e sono sotto gli occhi di tutti. Non vi è qui lo spazio per diffondersi nel merito. Ma sarei pronto a una sfida, documenti alla mano, per mostrare nel dettaglio quale scempio sia stato compiuto dell’insegnamento della matematica fin dalle elementari, riducendola a una disciplina altra da sé; nonché dello scempio compiuto dell’insegnamento della storia – ridotta a borborigmi sul tema dell’irreversibilità del tempo – e della geografia – ridotta a ossessive elucubrazioni sul tema astratto della spazialità.
Ben venga quindi questo passo del ministro Fioroni, in direzione della reintroduzione dei contenuti della matematica propriamente detta, incluso il coltivare le capacità di calcolo mentale, della grammatica, della geografia intesa come apprendimento dei luoghi dello spazio reale e della storia come narrazione di eventi realmente accaduti. Purché non si tratti di una semplice mossa polemica di natura politica a cui, dopo gli annunci, non segua nulla; o, peggio, segua qualche nuova commissione controllata di nuovo dalla stessa ideologia e dalle stesse persone che ci hanno portato al disastro. Come ha scritto il matematico francese (e Fields Medal) Laurent Lafforgue, «tutte queste persone hanno oggi uno scopo soltanto: scaricare le loro responsabilità e quindi mascherare con tutti i mezzi la realtà del disastro». Che prendano un po’ di riposo non potrà che far bene a tutti.
Nel nostro paese, sembra che tutti abbiano paura di pronunziare la parola “indietro” e che sia indecente non andare comunque “avanti”, verso il sol dell’avvenire, costi anche il precipitare in una scarpata. E tutti si riempiono la bocca di Sarkozy, ma non guardano a quale sia il nucleo del messaggio che – di nuovo, proprio oggi – egli manda sul tema dell’educazione e della scuola. È la rottura col “pedagogismo democratico”, figlio del sessantotto. Se si capirà che questa è la posta in gioco, qualcosa potrà cambiare. Altrimenti sarà il solito chiacchiericcio di “politique politicienne” mentre le termiti continueranno a fare il loro lavoro.
(Il Foglio, 6 settembre 2007)
martedì 4 settembre 2007
«Viva i cani, abbasso la cacca». Ecco il programma di Veltroni per l’Italia
È duro rientrare a Roma dopo aver trascorso le vacanze in località in cui è difficile scovare un pezzetto di carta per terra; in cui non esistono cestini per strada perché la spazzatura si raccoglie a casa e i turisti se la debbono portare via se non hanno un luogo (albergo o affittacamere) dove depositarla; in cui sulle strade carrozzabili si incontra spesso un signore che spazza con la scopa i bordi, casomai ci fosse una foglia secca di troppo. Che tristezza tornare a Roma, la lercia… L’anno scorso decidemmo con mia moglie che la soluzione più indolore era rientrare in città a testa alta. Ma, si badi bene, non in senso morale, ma in senso strettamente fisico. Guardando verso l’alto, o al massimo diritto davanti a te, vedi splendidi monumenti, bellissime chiese, cupole e campanili, l’inconfondibile colore dei pini che si assortisce perfettamente con quello delle rovine antiche. Insomma, Roma è una splendida città, non c’è che dire. Basta non guardare in basso. Però questo si può fare tutt’al più in automobile. A piedi, prima o poi bisogna guardare per terra, altrimenti si fa la fine di Talete. La leggenda dice che cadde in una buca perché camminava osservando il cielo. A Roma si è certi di finire più prosaicamente su una cacca di cane, magari dentro una buca.
Un paio di anni fa il “formidabile” sindaco di Roma Walter Veltroni decise di lanciare una campagna contro lo scempio che affligge i marciapiedi di Roma e lo fece dando una testimonianza del suo stile inconfondibile: fece affiggere sui muri della città un manifesto con la scritta “Viva i cani, abbasso la cacca”… È facile immaginare il successo di questa (non gratuita) iniziativa: neanche i più accaniti coprofili osarono uscire allo scoperto con dei cartelli inneggianti alla cacca. Però, cosa strana, i marciapiedi rimasero come prima. Quanto alle multe, neanche a parlarne! Veltroni “risolve” tutto con il consenso. Perché, come ha spiegato la sua ammiratrice Dacia Maraini, se non funziona il metodo del consenso, vuol dire che non c’è niente da fare. Insomma, se i padroni dei cani non si rassegnano ad essere civili, rassegnatevi a nuotare nella merda.
Dicevo che tornando a Roma dalle vacanze è bene guardare davanti o in alto. Ma senza esagerare. L’ideale è essere miopi e non mettere gli occhiali per percepire la fantastica geometria delle forme architettoniche sul cielo o le macchie di colore dei parchi senza guardare troppo i dettagli. Altrimenti, si rischia di vedere un signore che esce con una busta di plastica da un cespuglio: là dietro c’è un “villaggio” abusivo, con tanto di bagno all’aperto. D’altra parte, senza occhiali rischiate di farvi scippare da qualche turba di zingarelle o di incespicare sulle migliaia di tappeti o di bancarelle di fortuna che vendono di tutto, senza pagare le tasse naturalmente: il che è giusto, visto che i commercianti sono evasori fiscali.
Il centro ridotto a una movida ininterrotta in cui il diritto al sonno è definitivamente abolito, a un tappeto di spazzatura e bottiglie entro una nuvola di cattivi odori. Luoghi splendidi come Piazza Navona o Piazza di Spagna ridotti peggio di un suq, perché i suq sono luoghi di confusione ma ben organizzati al confronto. Feste, balli, urla, bottiglie spaccate, partite di pallone in piazza, cinema all’aperto dovunque anche all’università (dove poi si rubano i computer nelle facoltà), il tutto contrabbandato come cultura. A questo è ridotta la città eterna. Se questo è il modello con cui si intende rimettere in sesto il paese, stiamo freschi. Non basterà guardare in alto. Ci vorrà un pallone aerostatico.
Giorgio Israel (Tempi, 30 agosto 2007)
Un paio di anni fa il “formidabile” sindaco di Roma Walter Veltroni decise di lanciare una campagna contro lo scempio che affligge i marciapiedi di Roma e lo fece dando una testimonianza del suo stile inconfondibile: fece affiggere sui muri della città un manifesto con la scritta “Viva i cani, abbasso la cacca”… È facile immaginare il successo di questa (non gratuita) iniziativa: neanche i più accaniti coprofili osarono uscire allo scoperto con dei cartelli inneggianti alla cacca. Però, cosa strana, i marciapiedi rimasero come prima. Quanto alle multe, neanche a parlarne! Veltroni “risolve” tutto con il consenso. Perché, come ha spiegato la sua ammiratrice Dacia Maraini, se non funziona il metodo del consenso, vuol dire che non c’è niente da fare. Insomma, se i padroni dei cani non si rassegnano ad essere civili, rassegnatevi a nuotare nella merda.
Dicevo che tornando a Roma dalle vacanze è bene guardare davanti o in alto. Ma senza esagerare. L’ideale è essere miopi e non mettere gli occhiali per percepire la fantastica geometria delle forme architettoniche sul cielo o le macchie di colore dei parchi senza guardare troppo i dettagli. Altrimenti, si rischia di vedere un signore che esce con una busta di plastica da un cespuglio: là dietro c’è un “villaggio” abusivo, con tanto di bagno all’aperto. D’altra parte, senza occhiali rischiate di farvi scippare da qualche turba di zingarelle o di incespicare sulle migliaia di tappeti o di bancarelle di fortuna che vendono di tutto, senza pagare le tasse naturalmente: il che è giusto, visto che i commercianti sono evasori fiscali.
Il centro ridotto a una movida ininterrotta in cui il diritto al sonno è definitivamente abolito, a un tappeto di spazzatura e bottiglie entro una nuvola di cattivi odori. Luoghi splendidi come Piazza Navona o Piazza di Spagna ridotti peggio di un suq, perché i suq sono luoghi di confusione ma ben organizzati al confronto. Feste, balli, urla, bottiglie spaccate, partite di pallone in piazza, cinema all’aperto dovunque anche all’università (dove poi si rubano i computer nelle facoltà), il tutto contrabbandato come cultura. A questo è ridotta la città eterna. Se questo è il modello con cui si intende rimettere in sesto il paese, stiamo freschi. Non basterà guardare in alto. Ci vorrà un pallone aerostatico.
Giorgio Israel (Tempi, 30 agosto 2007)
MATEMATICAMENTE ASINI
A me è stato insegnato che se, percorrendo una traccia in montagna, si finisce sul ciglio di un burrone è meglio tornare indietro. Pertanto, non trovo scandaloso che il ministro Fioroni, trovandosi invischiato nel pantano creato da quei baggiani che danno da credere che possa esistere una scienza oggettiva della valutazione (docimologia) sul modello delle scienze fisico-matematiche, voglia ripristinare in qualche forma gli esami di riparazione autunnali. Dispiace che Valentina Aprea cada vittima del fascino discreto dell’“avanti!” a tutti i costi, e dica che «è la prima volta nella storia che si sperimenta non un’innovazione ma una restaurazione». Ma quando mai? Dopo il 1968, in Francia, la leadership della matematica cavalcò l’ondata rinnovatrice proponendo una radicale riforma dell’insegnamento della matematica: “Abbasso Euclide!” fu il proclama, via la vecchia geometria per far spazio alle “mathématiques modernes”, formali e astratte. La rivoluzione vinse ma dopo alcuni anni ci si rese conto del disastro: ragazzi che conoscevano gli elementi della teoria degli insiemi e dei gruppi non erano in grado di risolvere un’equazione algebrica di primo grado. E allora, indietro tutta, per rimettere sugli scudi il vecchio Euclide. Per giunta, pochi mesi fa, rendendosi conto che non bastava, si è deciso di introdurre il calcolo numerico mentale negli asili, fra le proteste dei sindacati.
Eppure, in Francia, il malcontento è forte, perché nelle pieghe di questi cambiamenti si sono insinuati i pedagogisti “progressisti”, come ha denunciato vivacemente il matematico Laurent Lafforgue, che interverrà al prossimo Meeting di Rimini. Egli ha denunciato le «politiche ispirate da un’ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell’allievo “al centro del sistema” e che deve “costruire lui stesso i suoi saperi”».
Da noi però tutti sono soggetti al fascino discreto del pedagogismo progressista. Testardamente continuiamo ad affidarci agli stessi medici che hanno condotto al disastro, seguendo il principio: se 3 grammi di antibiotico non producono miglioramenti prendine 6, se la febbre aumenta prendine 12, se aumenta ancora prendine 24, e così via. Molto razionale.
Questo antibiotico, questi medici sono gli pseudoscienziati della pedagogia, della valutazione “oggettiva” e della “didattica” – termine infelice che andrebbe abolito per decreto per “restaurare” quello di “insegnamento”; i quali, se producono guasti in Francia, in Italia pare che siano una casta di intoccabili di cui nessuna formazione politica riesce a fare a meno. È deprimente quindi che ai propositi di Fioroni – accusato di aver interrotto «misure virtuose di recupero» – si risponda a colpi di Larsa (Laboratori di recupero, sviluppo e apprendimento) e di valutazioni dell’Invalsi da sovrapporre a quelle dei professori interni. Qui, da trent’anni, di virtuoso si vede ben poco e si rischia di finire direttamente nel burrone continuando a incaponirsi negli stessi errori: svilire ulteriormente la figura dell’insegnante, ridotto a passacarte delle prescrizioni dei “didatti” e soggetto alla supervalutazione dei docimologi (che chissà perché valuterebbero meglio); continuare con l’ossessione dei “laboratori”, altro termine di cui andrebbe proscritto l’uso, salvo che in fisica, in chimica e in biologia, perché riflette la nefasta visione della scuola come terreno di sperimentazione delle teorie degli scienziati del nulla anziché come luogo in cui si apprende.
E poi vi è l’idea, di stampo sovietico, secondo cui la scuola deve garantire a tutti lo stesso risultato. In pochi riescono a sottrarsi al mantra “de sinistra” per cui, se uno dice a uno studente che il suo rendimento è insufficiente, è un «fallimento della scuola» e che se uno è ignorante a giugno e preparato a settembre è la «certificazione dell’inutilità della scuola». Non passa neppure per la testa di questi pozzi di sapienza che esistono anche i nullafacenti che, nell’assenza totale di sanzioni, possono fare impunemente quel più gli garba, tanto vanno avanti lo stesso (il che induce i volenterosi a chiedersi: «Ma chi me lo fa fare di studiare?»). Nessuna soluzione sensata può trascurare l’esistenza dei nullafacenti e i modi efficaci di sanzionarli. Altrimenti, ci si risparmino i discorsi sul valore del merito, pilastro della società, “vinca il migliore” e altri fumi di retorica.
Ma soprattutto: c’è davvero qualcuno che pensa seriamente che la catastrofe in cui si trova il sistema scolastico italiano si possa risolvere con tecniche di gestione, col managerialismo, cianciando l’insensata formula della “scuola come impresa”, senza mai parlare di contenuti, e delegandone la definizione alla corporazione degli scienziati del nulla? In Italia, un autentico dibattito sui contenuti dell’insegnamento non c’è da decenni, salvo ripetere che bisognava sostituire la riforma di Gentile, una delle migliori riforme scolastiche del Novecento, come riconoscono quasi tutti, sottovoce per non farsi sbertucciare dal pedagogismo progressista. Certo, qualcosa occorreva pur cambiare, salvo che affidare questo compito a personaggi di dubbie capacità.
Veniamo al caso della matematica che ha occupato le prime pagine dei giornali. La stragrande maggioranza dei matematici italiani professa un supremo disprezzo per la didattica della matematica, di cui sopprimerebbe senza rimpianti il settore disciplinare universitario. Eppure, ha preferito, pur di non farsi distrarre dagli interessi e dalle ricerche preferiti, delegare ai “didatti” il compito ingrato di occuparsi dei progetti di riforma che si succedono da un trentennio. Poi, ogni tanto, c’è qualcuno che salta su inorridito. Ricordo un collega che si levò scandalizzato per lamentare che i suoi figli, al termine del liceo, non sapevano quasi far di conto e chiedere come si era potuti giungere a tanto. O quei colleghi che, dopo aver udito da un mio intervento come venivano introdotti certi concetti geometrici nella scuola, si guardarono stupefatti chiedendosi: «Come è potuto succedere tutto questo, perché la nostra comunità non ne ha mai discusso e dove eravamo?». Già, cari colleghi, dove eravamo?
Da noi non ha corso lo stile ghigliottinesco della Francia. Così, da trent’anni un’orda di metodiche e silenziose termiti demolisce pezzo a pezzo un sistema di insegnamento della matematica che, oltre ai difetti, aveva indiscutibili pregi. Gentile o non Gentile, era un sistema cui aveva contribuito un grande matematico e filosofo come Federigo Enriques, i cui testi scolastici hanno formato generazioni di italiani. La storia di questa demolizione non è roba da poche pagine – ne dirò qualcosa in un libro in preparazione – ma chiunque può ricostruirla leggendo i programmi di riforma dagli anni ’80 in poi. Non è senza un brivido che si rileggono oggi i sinistri propositi enunciati nel DPR del 1985. L’insegnamento della matematica – si diceva – richiede l’acquisizione di concetti e strutture astratte ma «la vasta esperienza compiuta ha dimostrato che non è possibile giungere all’astrazione matematica senza percorrere un lungo itinerario che collega l’osservazione della realtà, l’attività di matematizzazione, la risoluzione dei problemi, la conquista dei primi livelli di formalizzazione. La più recente ricerca didattica, attraverso un’attenta analisi dei processi cognitivi in cui si articola l’apprendimento della matematica, ne ha rilevato la grande complessità, la gradualità di crescita e linee di sviluppo non univoche». Gli scienziati del nulla, dopo aver vantato le loro “ricerche” e aver enunciato una serie di sciocchezze (ma chi può dire seriamente che la matematica derivi dall’osservazione della realtà?) e di parole vuote (che senso ha parlare genericamente di attività di matematizzazione?), annunciano una sensazionale scoperta: il processo che va dall’osservazione della realtà alle prime formalizzazioni è lungo, molto lungo e l’apprendimento della matematica – pensate un po’ – è “complesso”, cresce in modo “graduale” e – bel problema – non è “univoco”. Insomma, per arrivare dalla vista di una pietra a un’equazione bisogna aspettare tanto e poi tanto, andarci piano e seguire percorsi differenziati (una scuola a testa?). Il guaio è che questa pensata (che, per lo sforzo, sarà costata la calvizie ai suoi autori) è stata presa sul serio: dopo trent’anni stiamo ancora qui, fermi all’inizio del “lungo itinerario”. Sembrava ragionevole fare un passo oltre Euclide e acquisire almeno la geometria cartesiana. Invece, abbiamo ricominciato daccapo da Aristotele e dopo trent’anni siamo ancora fermi lì. E non crediate che lo dica per scherzo.
Che le termiti del pedagogismo democratico abbiamo lavorato a fondo, lo compresi il giorno in cui udii una maestra di scuola materna mostrare trionfante lo scarabocchio di un bambino: «Guardi come emerge la corporeità spaziale, come si esprime la topologia del sopra e del sotto, del davanti e del dietro». Non osai dire che la topologia non c’entrava un fico secco, tanto poco appariva intimidita dalla presenza di un professore di matematica: da qualche parte doveva aver tratto la sicumera per fare un uso di quel termine di cui non capiva un acca. Incuriosito, ho constatato il dilagare delle idiozie sulla topologia e la spazialità fin dalla scuola materna: il marcio inizia dalla base e per questo è devastante. Quando mio figlio mi disse che aveva avuto la prima lezione di geografia (in prima elementare) credetti che gli avessero messo davanti un mappamondo. Che ingenuità! Non sapevo che l’umanità era uscita dalle caverne. Gli avevano chiesto di disegnare quel che vedeva dalla finestra: disegnò il muro della mensa. Poi, gli proposero la figura di un piatto con una mela da cui usciva un verme. Doveva dire se il verme era dentro o fuori la mela, la mela sopra o sotto il piatto, ecc. Ma che c’entra con la geografia? direte. Non siate trogloditi! Studiare geografia significa assimilare la “spazialità”, capire il sotto e il sopra, il dentro e il fuori – così come studiare la storia significa assimilare la temporalità, e non parlare degli antichi Romani, come si faceva ai tempi di Checco e Nina. Sono cose difficili che richiedono un lungo approfondimento: il tormentone dura per quasi tutte le elementari e quando si parlerà di geografia in senso tradizionale sarà per definire in termini generali cos’è un deserto o una tundra. Così la geometria ha invaso la geografia e l’ha svuotata di concretezza. In cambio, la geometria è stata svuotata di astrazione e ridotta a esperienza concreta della spazialità: proprio quel livello in cui non è pensabile la matematica… Dicono i programmi che ci si introduce allo studio della geometria apprendendo che cos’è la «collocazione di oggetti in un ambiente, avendo come riferimento se stessi, persone, oggetti». Ma definire la spazialità mediante la collocazione di oggetti è coerente, più che con la nozione moderna di spazio, con quella di “luogo” aristotelico in cui lo spazio è soltanto l’aggregato di corpi materiali. L’insistenza sull’esplorazione soggettiva della spazialità potrebbe far pensare che i nostri teorici siano fenomenologi husserliani. Troppo onore. Husserl avrebbe spiegato loro che, per tale via, non si arriva mai alla concezione dello spazio come un contenitore vuoto definito indipendentemente da ogni presenza soggettiva, che è caratteristica della matematica moderna.
È istruttivo leggere la definizione che si da della matematica nelle “pagelle” delle elementari – ma c’è bisogno di definire una materia in una pagella? – in conformità ai programmi ministeriali. Nella scuola primaria la matematica consiste nell’«osservare oggetti e fenomeni e individuare grandezze misurabili, effettuare misure con strumenti elementari e classificare oggetti in base a una proprietà, raccogliere dati e informazioni e saperli organizzare». Tutte cose che con la matematica non c’entrano un fico secco, neanche in un’ipotetica fase intuitiva preliminare e che, casomai, definiscono l’oggetto della fisica. Come può funzionare una scuola in cui chi definisce materie e programmi ha un’idea della matematica che lo rende meritevole di un cappello d’asino?
È dalle elementari che inizia il disastro. Il resto è un corollario: migliaia di studenti fermi sul “lungo itinerario”, mentre avrebbero potuto – senza concedere nulla ai furori delle “mathématiques modernes” – accedere rapidamente all’astrazione e al calcolo come decine di generazioni prima di loro. Dicono che i bambini hanno bisogno di concretezza e, per insegnargli a contare, li bombardano di insiemi di mele e fiori. Ma chi abbia visto un bambino in vita sua sa con quanta facilità possa passare dal contare con gli oggetti al calcolo mentale e quanto ciò lo diverta. Posto di fronte al compito di aggiungere 2 a 2 e così via, costruendo la successione 2, 4, 6, 8, … mio figlio si arrestava a 20. «Perché mai?» ho chiesto. «Perché, la maestra ha detto che, in prima, oltre al 20 non si va». Difatti, “studiavano” soltanto due o tre numeri al mese… L’ho invitato a infischiarsene e allora non finiva più, anzi ha posto una bella domanda: «Esistono “tutti” i numeri?». Fate la prova e vedrete se per un bambino qualsiasi sia più gratificante cincischiare per anni sul “sotto” e il “sopra” o mostrare di conoscere la tavola pitagorica.
Secondo Giulio Giorello la colpa è di coloro che nei talk show si vantano di non saper contare. È vero che si tratta di uno snobismo stucchevole, ma che dire di quei fessi che fanno credere che si possano scrivere le equazioni dell’amore o calcolare gli indici di felicità? Dice Giorello che bisogna rendere la matematica più appetibile non riducendola a un’arida sequenza di teoremi. S’informi dei programmi. Più terra terra di così… Del resto, i pedagogisti democratici ci hanno pensato a rendere la matematica appetibile seconda la formula zapaterista della “matematica del cittadino”. Nella riforma del 2004 è dato leggere la seguente impagabile prosa: «Un obbiettivo specifico di apprendimento di matematica è, e deve essere sempre, allo stesso tempo, non solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale e religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile». Scusate la rozzezza, ma che vuol dire? Che, d’ora in poi, mentre si risolve un’equazione differenziale si deve far ginnastica, pregare o pagare le tasse, e viceversa? Intanto i prodotti di queste trombonate sono persone che conoscono soltanto la matematica che serve a supplire all’italiano che non conoscono: + al posto di “più” e x al posto di “per”.
Secondo Odifreddi, la colpa è, manco a dirlo, della Chiesa. Dovrebbe chiedersi se non sia anche colpa sua, quando lascia credere che la matematica serva a distruggere la religione e il capitalismo e, a tal fine, propala di tutto. Come quando scrisse che von Neumann aveva formulato un modello matematico per massimizzare il numero dei morti a Hiroshima. Gli contestai che era una panzana e mi rispose di averla presa da un libro e che, se era una balla, non era colpa sua, le fonti c’erano: esempio preclaro di rigore scientifico. Odifreddi ha molti seguaci ma molti altri dicono che se la matematica conduce a quel modo di pensare allora è una disciplina odiosa. Da qualunque parte lo si guardi il risultato è pessimo. E sbagliano quei matematici che chiudono un occhio perché credono che l’importante sia che si faccia pubblicità alla matematica, non importa come.
Lasciamo perdere gli snob dei talk show, la Chiesa e i nemici della scienza in agguato e guardiamo alle vere responsabilità: in primo luogo a quelle di chi da trent’anni sta demolendo il sistema dell’istruzione per “sperimentare” teorie pedagogiche sgangherate. Senza dimenticare le responsabilità di chi fa una divulgazione strumentale a tesi politiche e di chi crede di risolvere il disastro facendo marketing presso i giovani a suon di feste e festival in cui si contrabbanda lo studio come divertimento. Infine, è il momento che la comunità matematica dimostri di esistere e di sapersi ricollegare alle sue migliori tradizioni.
Giorgio Israel
(Il Foglio, 4 agosto 2007).
Eppure, in Francia, il malcontento è forte, perché nelle pieghe di questi cambiamenti si sono insinuati i pedagogisti “progressisti”, come ha denunciato vivacemente il matematico Laurent Lafforgue, che interverrà al prossimo Meeting di Rimini. Egli ha denunciato le «politiche ispirate da un’ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell’allievo “al centro del sistema” e che deve “costruire lui stesso i suoi saperi”».
Da noi però tutti sono soggetti al fascino discreto del pedagogismo progressista. Testardamente continuiamo ad affidarci agli stessi medici che hanno condotto al disastro, seguendo il principio: se 3 grammi di antibiotico non producono miglioramenti prendine 6, se la febbre aumenta prendine 12, se aumenta ancora prendine 24, e così via. Molto razionale.
Questo antibiotico, questi medici sono gli pseudoscienziati della pedagogia, della valutazione “oggettiva” e della “didattica” – termine infelice che andrebbe abolito per decreto per “restaurare” quello di “insegnamento”; i quali, se producono guasti in Francia, in Italia pare che siano una casta di intoccabili di cui nessuna formazione politica riesce a fare a meno. È deprimente quindi che ai propositi di Fioroni – accusato di aver interrotto «misure virtuose di recupero» – si risponda a colpi di Larsa (Laboratori di recupero, sviluppo e apprendimento) e di valutazioni dell’Invalsi da sovrapporre a quelle dei professori interni. Qui, da trent’anni, di virtuoso si vede ben poco e si rischia di finire direttamente nel burrone continuando a incaponirsi negli stessi errori: svilire ulteriormente la figura dell’insegnante, ridotto a passacarte delle prescrizioni dei “didatti” e soggetto alla supervalutazione dei docimologi (che chissà perché valuterebbero meglio); continuare con l’ossessione dei “laboratori”, altro termine di cui andrebbe proscritto l’uso, salvo che in fisica, in chimica e in biologia, perché riflette la nefasta visione della scuola come terreno di sperimentazione delle teorie degli scienziati del nulla anziché come luogo in cui si apprende.
E poi vi è l’idea, di stampo sovietico, secondo cui la scuola deve garantire a tutti lo stesso risultato. In pochi riescono a sottrarsi al mantra “de sinistra” per cui, se uno dice a uno studente che il suo rendimento è insufficiente, è un «fallimento della scuola» e che se uno è ignorante a giugno e preparato a settembre è la «certificazione dell’inutilità della scuola». Non passa neppure per la testa di questi pozzi di sapienza che esistono anche i nullafacenti che, nell’assenza totale di sanzioni, possono fare impunemente quel più gli garba, tanto vanno avanti lo stesso (il che induce i volenterosi a chiedersi: «Ma chi me lo fa fare di studiare?»). Nessuna soluzione sensata può trascurare l’esistenza dei nullafacenti e i modi efficaci di sanzionarli. Altrimenti, ci si risparmino i discorsi sul valore del merito, pilastro della società, “vinca il migliore” e altri fumi di retorica.
Ma soprattutto: c’è davvero qualcuno che pensa seriamente che la catastrofe in cui si trova il sistema scolastico italiano si possa risolvere con tecniche di gestione, col managerialismo, cianciando l’insensata formula della “scuola come impresa”, senza mai parlare di contenuti, e delegandone la definizione alla corporazione degli scienziati del nulla? In Italia, un autentico dibattito sui contenuti dell’insegnamento non c’è da decenni, salvo ripetere che bisognava sostituire la riforma di Gentile, una delle migliori riforme scolastiche del Novecento, come riconoscono quasi tutti, sottovoce per non farsi sbertucciare dal pedagogismo progressista. Certo, qualcosa occorreva pur cambiare, salvo che affidare questo compito a personaggi di dubbie capacità.
Veniamo al caso della matematica che ha occupato le prime pagine dei giornali. La stragrande maggioranza dei matematici italiani professa un supremo disprezzo per la didattica della matematica, di cui sopprimerebbe senza rimpianti il settore disciplinare universitario. Eppure, ha preferito, pur di non farsi distrarre dagli interessi e dalle ricerche preferiti, delegare ai “didatti” il compito ingrato di occuparsi dei progetti di riforma che si succedono da un trentennio. Poi, ogni tanto, c’è qualcuno che salta su inorridito. Ricordo un collega che si levò scandalizzato per lamentare che i suoi figli, al termine del liceo, non sapevano quasi far di conto e chiedere come si era potuti giungere a tanto. O quei colleghi che, dopo aver udito da un mio intervento come venivano introdotti certi concetti geometrici nella scuola, si guardarono stupefatti chiedendosi: «Come è potuto succedere tutto questo, perché la nostra comunità non ne ha mai discusso e dove eravamo?». Già, cari colleghi, dove eravamo?
Da noi non ha corso lo stile ghigliottinesco della Francia. Così, da trent’anni un’orda di metodiche e silenziose termiti demolisce pezzo a pezzo un sistema di insegnamento della matematica che, oltre ai difetti, aveva indiscutibili pregi. Gentile o non Gentile, era un sistema cui aveva contribuito un grande matematico e filosofo come Federigo Enriques, i cui testi scolastici hanno formato generazioni di italiani. La storia di questa demolizione non è roba da poche pagine – ne dirò qualcosa in un libro in preparazione – ma chiunque può ricostruirla leggendo i programmi di riforma dagli anni ’80 in poi. Non è senza un brivido che si rileggono oggi i sinistri propositi enunciati nel DPR del 1985. L’insegnamento della matematica – si diceva – richiede l’acquisizione di concetti e strutture astratte ma «la vasta esperienza compiuta ha dimostrato che non è possibile giungere all’astrazione matematica senza percorrere un lungo itinerario che collega l’osservazione della realtà, l’attività di matematizzazione, la risoluzione dei problemi, la conquista dei primi livelli di formalizzazione. La più recente ricerca didattica, attraverso un’attenta analisi dei processi cognitivi in cui si articola l’apprendimento della matematica, ne ha rilevato la grande complessità, la gradualità di crescita e linee di sviluppo non univoche». Gli scienziati del nulla, dopo aver vantato le loro “ricerche” e aver enunciato una serie di sciocchezze (ma chi può dire seriamente che la matematica derivi dall’osservazione della realtà?) e di parole vuote (che senso ha parlare genericamente di attività di matematizzazione?), annunciano una sensazionale scoperta: il processo che va dall’osservazione della realtà alle prime formalizzazioni è lungo, molto lungo e l’apprendimento della matematica – pensate un po’ – è “complesso”, cresce in modo “graduale” e – bel problema – non è “univoco”. Insomma, per arrivare dalla vista di una pietra a un’equazione bisogna aspettare tanto e poi tanto, andarci piano e seguire percorsi differenziati (una scuola a testa?). Il guaio è che questa pensata (che, per lo sforzo, sarà costata la calvizie ai suoi autori) è stata presa sul serio: dopo trent’anni stiamo ancora qui, fermi all’inizio del “lungo itinerario”. Sembrava ragionevole fare un passo oltre Euclide e acquisire almeno la geometria cartesiana. Invece, abbiamo ricominciato daccapo da Aristotele e dopo trent’anni siamo ancora fermi lì. E non crediate che lo dica per scherzo.
Che le termiti del pedagogismo democratico abbiamo lavorato a fondo, lo compresi il giorno in cui udii una maestra di scuola materna mostrare trionfante lo scarabocchio di un bambino: «Guardi come emerge la corporeità spaziale, come si esprime la topologia del sopra e del sotto, del davanti e del dietro». Non osai dire che la topologia non c’entrava un fico secco, tanto poco appariva intimidita dalla presenza di un professore di matematica: da qualche parte doveva aver tratto la sicumera per fare un uso di quel termine di cui non capiva un acca. Incuriosito, ho constatato il dilagare delle idiozie sulla topologia e la spazialità fin dalla scuola materna: il marcio inizia dalla base e per questo è devastante. Quando mio figlio mi disse che aveva avuto la prima lezione di geografia (in prima elementare) credetti che gli avessero messo davanti un mappamondo. Che ingenuità! Non sapevo che l’umanità era uscita dalle caverne. Gli avevano chiesto di disegnare quel che vedeva dalla finestra: disegnò il muro della mensa. Poi, gli proposero la figura di un piatto con una mela da cui usciva un verme. Doveva dire se il verme era dentro o fuori la mela, la mela sopra o sotto il piatto, ecc. Ma che c’entra con la geografia? direte. Non siate trogloditi! Studiare geografia significa assimilare la “spazialità”, capire il sotto e il sopra, il dentro e il fuori – così come studiare la storia significa assimilare la temporalità, e non parlare degli antichi Romani, come si faceva ai tempi di Checco e Nina. Sono cose difficili che richiedono un lungo approfondimento: il tormentone dura per quasi tutte le elementari e quando si parlerà di geografia in senso tradizionale sarà per definire in termini generali cos’è un deserto o una tundra. Così la geometria ha invaso la geografia e l’ha svuotata di concretezza. In cambio, la geometria è stata svuotata di astrazione e ridotta a esperienza concreta della spazialità: proprio quel livello in cui non è pensabile la matematica… Dicono i programmi che ci si introduce allo studio della geometria apprendendo che cos’è la «collocazione di oggetti in un ambiente, avendo come riferimento se stessi, persone, oggetti». Ma definire la spazialità mediante la collocazione di oggetti è coerente, più che con la nozione moderna di spazio, con quella di “luogo” aristotelico in cui lo spazio è soltanto l’aggregato di corpi materiali. L’insistenza sull’esplorazione soggettiva della spazialità potrebbe far pensare che i nostri teorici siano fenomenologi husserliani. Troppo onore. Husserl avrebbe spiegato loro che, per tale via, non si arriva mai alla concezione dello spazio come un contenitore vuoto definito indipendentemente da ogni presenza soggettiva, che è caratteristica della matematica moderna.
È istruttivo leggere la definizione che si da della matematica nelle “pagelle” delle elementari – ma c’è bisogno di definire una materia in una pagella? – in conformità ai programmi ministeriali. Nella scuola primaria la matematica consiste nell’«osservare oggetti e fenomeni e individuare grandezze misurabili, effettuare misure con strumenti elementari e classificare oggetti in base a una proprietà, raccogliere dati e informazioni e saperli organizzare». Tutte cose che con la matematica non c’entrano un fico secco, neanche in un’ipotetica fase intuitiva preliminare e che, casomai, definiscono l’oggetto della fisica. Come può funzionare una scuola in cui chi definisce materie e programmi ha un’idea della matematica che lo rende meritevole di un cappello d’asino?
È dalle elementari che inizia il disastro. Il resto è un corollario: migliaia di studenti fermi sul “lungo itinerario”, mentre avrebbero potuto – senza concedere nulla ai furori delle “mathématiques modernes” – accedere rapidamente all’astrazione e al calcolo come decine di generazioni prima di loro. Dicono che i bambini hanno bisogno di concretezza e, per insegnargli a contare, li bombardano di insiemi di mele e fiori. Ma chi abbia visto un bambino in vita sua sa con quanta facilità possa passare dal contare con gli oggetti al calcolo mentale e quanto ciò lo diverta. Posto di fronte al compito di aggiungere 2 a 2 e così via, costruendo la successione 2, 4, 6, 8, … mio figlio si arrestava a 20. «Perché mai?» ho chiesto. «Perché, la maestra ha detto che, in prima, oltre al 20 non si va». Difatti, “studiavano” soltanto due o tre numeri al mese… L’ho invitato a infischiarsene e allora non finiva più, anzi ha posto una bella domanda: «Esistono “tutti” i numeri?». Fate la prova e vedrete se per un bambino qualsiasi sia più gratificante cincischiare per anni sul “sotto” e il “sopra” o mostrare di conoscere la tavola pitagorica.
Secondo Giulio Giorello la colpa è di coloro che nei talk show si vantano di non saper contare. È vero che si tratta di uno snobismo stucchevole, ma che dire di quei fessi che fanno credere che si possano scrivere le equazioni dell’amore o calcolare gli indici di felicità? Dice Giorello che bisogna rendere la matematica più appetibile non riducendola a un’arida sequenza di teoremi. S’informi dei programmi. Più terra terra di così… Del resto, i pedagogisti democratici ci hanno pensato a rendere la matematica appetibile seconda la formula zapaterista della “matematica del cittadino”. Nella riforma del 2004 è dato leggere la seguente impagabile prosa: «Un obbiettivo specifico di apprendimento di matematica è, e deve essere sempre, allo stesso tempo, non solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale e religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati alla Convivenza civile». Scusate la rozzezza, ma che vuol dire? Che, d’ora in poi, mentre si risolve un’equazione differenziale si deve far ginnastica, pregare o pagare le tasse, e viceversa? Intanto i prodotti di queste trombonate sono persone che conoscono soltanto la matematica che serve a supplire all’italiano che non conoscono: + al posto di “più” e x al posto di “per”.
Secondo Odifreddi, la colpa è, manco a dirlo, della Chiesa. Dovrebbe chiedersi se non sia anche colpa sua, quando lascia credere che la matematica serva a distruggere la religione e il capitalismo e, a tal fine, propala di tutto. Come quando scrisse che von Neumann aveva formulato un modello matematico per massimizzare il numero dei morti a Hiroshima. Gli contestai che era una panzana e mi rispose di averla presa da un libro e che, se era una balla, non era colpa sua, le fonti c’erano: esempio preclaro di rigore scientifico. Odifreddi ha molti seguaci ma molti altri dicono che se la matematica conduce a quel modo di pensare allora è una disciplina odiosa. Da qualunque parte lo si guardi il risultato è pessimo. E sbagliano quei matematici che chiudono un occhio perché credono che l’importante sia che si faccia pubblicità alla matematica, non importa come.
Lasciamo perdere gli snob dei talk show, la Chiesa e i nemici della scienza in agguato e guardiamo alle vere responsabilità: in primo luogo a quelle di chi da trent’anni sta demolendo il sistema dell’istruzione per “sperimentare” teorie pedagogiche sgangherate. Senza dimenticare le responsabilità di chi fa una divulgazione strumentale a tesi politiche e di chi crede di risolvere il disastro facendo marketing presso i giovani a suon di feste e festival in cui si contrabbanda lo studio come divertimento. Infine, è il momento che la comunità matematica dimostri di esistere e di sapersi ricollegare alle sue migliori tradizioni.
Giorgio Israel
(Il Foglio, 4 agosto 2007).
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