La truffa dell’insegnare a insegnare
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
Alla pubblicazione su EL PAÍS di un Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti hanno risposto in queste pagine alcuni pedagoghi che lo difendono. Tuttavia le argomentazioni, con le quali costoro argomentano la loro risposta, sono erronee. La tesi principale è che un docente non solo deve conoscere la sua materia, ma anche apprendere a insegnarla. Tale affermazione, che sembra rispondere al comune buon senso, è invece un sofisma che da anni gli “esperti in istruzione” propongono alle autorità ministeriali. I futuri docenti, si dice, devono “apprendere a insegnare” e gli alunni “apprendere ad apprendere”. Affinché ci riescano, esiste un gruppo di specialisti (coi propri interessi corporativi), il cui compito è di “insegnare a insegnare”.
Ebbene, precisamente a tale scopo è stato affidato ai pedagoghi il corso del CAP (Certificato di Attitudine Pedagogica). Questo corso non è mai stato sottoposto ai docenti delle scuole medie e superiori per una valutazione oggettiva: si sapeva benissimo che i docenti non solo non ne avrebbero riconosciuto la validità, ma anzi lo avrebbero considerato una burla o un’impostura.
Quale soluzione propone il ministero? Niente meno che sostituire il quinto anno di preparazione disciplinare specifica con un Master di formazione dei docenti, nient’altro che un CAP più lungo e più caro. Qualsiasi cosa tranne che domandare ai docenti il loro parere sull’utilità in aula della formazione pedagogica. A quanto pare, gli unici a sapere che cosa sia necessario in classe sono coloro che mai vi sono entrati; gli unici a sapere come si insegna matematica, grammatica o storia sono coloro che non sanno niente di matematica, grammatica, storia e tuttavia sono esperti ad insegnare come si insegna e come si impara ad imparare.
Perché il CAP è stato una truffa e una vergogna in tutti questi anni? Non perché fosse molto breve, ma perché è falso che chi non conosce la matematica sappia insegnare a insegnare la matematica. Ancor più falso è che esista un sapere che non riguardi la fisica o il latino o la geografia e il cui contenuto sia quello di insegnare a insegnare una di queste discipline. Un docente deve saper catturare l’attenzione degli alunni insegnando loro ad amare il sapere e per ottenere ciò non esiste altra garanzia che il proprio amore per il sapere. La matematica, la storia o il diritto processuale sono appassionanti e il dovere di un docente è di trasmettere ciò ai suoi alunni. E qual è la sua miglior arma, in realtà la sua unica arma, se non conoscere matematica, storia o diritto processuale?
“Conoscere la storia non significa saper insegnare la storia”. Qualsiasi docente esperto direbbe che la cosa sta esattamente al contrario: la miglior prova che uno non conosce la disciplina che credeva di conoscere è che fallisce nell’insegnarla. Se non sa come insegnar qualcosa, la causa è che non la conosce abbastanza e la conseguenza è che deve studiarla di più e meglio. Studiare più fisica, matematica o latino, non pedagogia.
Ovviamente ci saranno sempre grandi scienziati che non amano l’insegnamento e che si rifiutano ad esercitarlo. Non si smette di citare come prova incontestabile la figura del grande scienziato mediocre docente, ma è questo un argomento fallace: gli scienziati che non amano l’insegnamento, insegnano male non perché non sappiano, ma perché non desiderano insegnare e nessun corso di formazione dei docenti gli farà cambiare atteggiamento. D’altra parte, i laureati che mai hanno insegnato non sanno insegnare non perché gli difetti una preparazione pedagogica o psicopedagogica, ma perché gli manca la pratica dell’insegnamento. L’accesso alla professione di docente, come a quella di giudice o di medico, non dovrebbe avvenire senza aver superato un periodo di tirocinio seriamente pensato, organizzato e remunerato e ovviamente solo che si sia data dimostrazione di possedere una formazione non generale, ma avanzata e specifica in una determinata branca del sapere. Ciò è l’unico fine sollecitato dal disprezzato Manifesto contro il nuovo master di formazione dei docenti. Solo questo e inoltre che la si smetta una buona volta di prendere in giro la società mentre si smantella pezzo a pezzo il sistema di istruzione pubblica.
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La estafa del enseñar a enseñar
ANDRÉS DE LA OLIVA 08/12/2008 (El País)
La publicación en EL PAÍS de un Manifiesto Contra el Nuevo Máster de Formación del Profesorado (ECI/3858/2007) ha sido respondida en estas páginas por algunos pedagogos que lo defienden. Las pretendidas evidencias con que argumentan son, sin embargo, falsas. La tesis principal es que un profesor no sólo debe conocer su materia, sino que debe también aprender a enseñarla. Esto parece muy de "sentido común", pero es un sofisma con el que los "expertos en educación" llevan muchos años abduciendo a las autoridades ministeriales. Los futuros profesores, se dice, deben "aprender a enseñar" y los alumnos "aprender a aprender". Para conseguirlo, existe un cuerpo de especialistas (con sus propios intereses corporativos), cuya función es "enseñar a enseñar". Ahora bien, para ello precisamente se confió a los pedagogos el curso del CAP (Certificado de Aptitud Pedagógica). Este curso jamás se ha sometido a una evaluación objetiva entre los profesores de secundaria y bachillerato. Se sabía de sobra que los profesores no sólo no avalarían su utilidad, sino que lo valorarían como una estafa o una impostura. ¿Qué solución propone el ministerio? Nada menos que sustituir el quinto año de preparación disciplinar específica por un Máster de Formación del Profesorado que no es más que un CAP más largo y más caro. Cualquier cosa menos preguntar a los profesores sobre la utilidad en las aulas de la formación pedagógica. Por lo visto, los únicos que saben lo que se necesita en las aulas son los que jamás han pisado un aula. Por lo mismo, los únicos que saben cómo se enseña matemáticas, gramática o historia, son los que no saben ni matemáticas, ni gramática, ni historia (pero son, en cambio, expertos en enseñar a enseñar cómo se aprende a aprender).
¿Por qué el CAP ha sido una estafa y una vergüenza todos estos años? No porque fuera muy corto, sino porque es falso que quien no sabe matemáticas pueda enseñar a enseñar matemáticas. Y todavía es más falso que haya un saber que no sea ni física, ni latín, ni geografía, y cuyo contenido sea el enseñar en general para cualquiera de esas disciplinas. Un profesor debe saber captar la atención de los alumnos enseñándoles a amar el conocimiento, y para lograrlo no hay otra garantía que su propio amor por el conocimiento. Las matemáticas, la historia o el derecho procesal son apasionantes y la obligación de un profesor es saber transmitirlo a sus alumnos. Ahora bien, su mejor arma, en realidad su única arma, es saber matemáticas, historia o derecho procesal. ¿Saber historia no significa saber enseñar historia? Cualquier docente experimentado diría que la cosa es exactamente al revés: la mejor prueba de que algo que uno creía saber no lo sabe en realidad es que fracasa al enseñarlo. Si no se sabe cómo enseñar algo es porque no se sabe suficientemente, y la consecuencia es que hay que estudiarlo más y mejor. Estudiar más física, matemáticas o latín, no pedagogía. Por supuesto que siempre habrá grandes investigadores muy sabios que no amen la enseñanza y se nieguen a ejercerla. La figura del buen investigador y mal docente no cesa de blandirse como un argumento incontestable, pero es una falacia: los investigadores que no aman la enseñanza enseñan mal, no porque no sepan, sino porque no quieren hacerlo, y ningún curso de formación del profesorado les hará cambiar de opinión. Por otro lado, licenciados que nunca han enseñado no saben enseñar, pero no porque les falte teoría pedagógica (o psicopedagógica), sino porque les falta práctica docente. El acceso a la profesión de profesor, como a la de juez o a la de médico, no debería hacerse sin haber superado un periodo de prácticas seriamente concebido, tutelado, y remunerado. Y por cierto que sólo una vez acreditada una formación no básica y generalista, sino avanzada y específica en un campo determinado de conocimiento. Es lo único que solicita el denostado Manifiesto. Eso, y que se deje de tomar el pelo a la sociedad mientras se desmonta pieza a pieza el sistema de instrucción pública.
28 commenti:
Gentile Prof. Israel,
sono un giovane sissino IX ciclo, molto interessato alle questioni relative alla formazione ed al reclutamento docenti.Inserisco qui il mio intervento, dedicato alla questione della formazione docenti, in attesa di una pronta e soddisfacente risposta.
Nonostante conosca da mesi il suo blog, soltanto ora ho deciso di intervenire esprimendo le mie opinioni.
Mi perdoni per la prolissità ma ritengo giusto esporre tutte le mie considerazioni sul delicatissimo problema della formazione e del reclutamento docenti, considerazioni che ho mandato direttamente (via Youtube), insieme ad alcuni suggerimenti, anche al ministro Gelmini.
Vorrei subito porle alcune domande: quando sarà presentato il nuovo sistema di formazione – reclutamento docenti? E questo nuovo sistema è destinato ad entrare in conflitto con le attuali graduatorie permanenti, ricolme di aspiranti docenti?
Sarebbe infatti opportuno che il nuovo sistema elaborato dalla commissione ministeriale da lei presieduta(e le indiscrezioni di cui sono in possesso, tutte tratte dalla carta stampata, ribadiscono l'idea della laurea magistrale abilitante seguita dall'anno di tirocinio formativo) non venga attivato in tutti gli atenei, ma in una sola sede universitaria per ciascuna regione (secondo la configurazione regionale prevista per le SSIS)pena la creazione di ulteriore disoccupazione intellettuale. Nelle attuali condizioni di crisi economica, superabile a mio avviso con la riduzione degli sprechi della politica e con una lotta estenuante e serrata all’evasione fiscale, ritengo indispensabile non illudere altri giovani, alimentando la sicurezza del posto fisso nella scuola: penso che sia necessario reclutare un numero di docenti effettivamente corrispondente al fabbisogno reale della scuola italiana, sia statale che paritaria. A questo proposito Le ricordo che nella riforma del reclutamento docenti occorre considerare anche la legge 62/2000, quella sulla parità scolastica, che all’articolo 1, comma 4, lettera g, prevede, tra i requisiti indispensabili per la concessione della parità scolastica, l’impiego di personale docente abilitato.
Vorrei tornare alla seconda domanda: se veramente il tirocinio annuale dovesse rispecchiare la proposta di legge 953 presentata dall’onorevole Aprea, questo periodo di praticantato non diventerebbe una supplenza a tutti gli effetti, da assegnare ai nuovi abilitati e non più ai docenti iscritti nelle graduatorie permanenti? E quale sarà il destino dei precari abilitati ed iscritti nelle graduatorie permanenti? Saranno costretti, ed io con loro, a cambiare mestiere, ovviamente sborsando soldi per l’ennesimo processo di formazione lavorativa?
Non sarebbe preferibile adottare una soluzione che, preservando l’attribuzione delle supplenze ai docenti già abilitati, renda il periodo di tirocinio diretto nelle scuole come momento sì indispensabile, ma non retribuito? Se veramente dovesse andare in porto la proposta Aprea il malessere dei docenti precari aumenterebbe notevolmente. La mia posizione non esclude elementi di apertura: non sarei assolutamente contrario alla costituzione di graduatorie regionali, riservate al solo personale abilitato, da cui attingere i docenti, ad opera sempre dell’amministrazione piuttosto che delle istituzioni scolastiche.
La chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici andrebbe ad alimentare pratiche clientelari, contrarie al MERITO, parola dura da digerire nel nostro paese: conosciamo le lamentele dei giovani studenti contro il baronato universitario, figuriamoci cosa succederebbe se fossero i dirigenti scolastici a scegliere direttamente i docenti!!
Spero che le mie modeste riflessioni possano essere di qualche utilità.
Grazie e distinti saluti da
Enrico Maria Polizzano
Gentile Prof. Israel,
La ringrazio per la risposta pubblicata nell'altro post. Le ho lasciato un nuovo messaggio.
Distinti Saluti,
Enrico Maria Polizzano
Una mia osservazione da ex-studente: durante i miei anni passati a scuola mi è capitato numerose volte di spiegare dei concetti di alcune materie ai miei compagni di classe, spesso riuscendo dove l'insegnante falliva per una mancata comprensione delle difficoltà e degli errori dell'alunno.
Ora, escludendo a priori che io conoscessi la materia meglio del mio insegnante, cosa devo concludere?
Volendo mantenere la tesi del prof. Israel, ossia che non c'è nessuna utilità in un corso che insegni ad insegnare e che ciò che c'è da sapere in questo ambito si impara sul campo, vogliamo anche dire che insegnare è un compito che richiede una spiccata sensibilità e intelligenza verbale, nonché la capacità di comprendere cosa frulla nella testa di chi è nuovo alla materia?
Qui non parliamo di grandi scienziati che non hanno vogla di cimentarsi nell'insegnamento. Qui secondo me sbattiamo contro una realtà di fatto molto banale, che è che insegnare una materia richiede a priori delle qualità individuali maggiori (o comunque diverse) da quelle richieste per il semplice studio della materia.
Lei non precisa se qualcuno le aveva insegnato a insegnare mentre al suo insegnante no. Visto che era studente non credo, mentre forse al suo insegnante si. In tal caso il suo ragionamento è fallace. Ad ogni modo, la spiegazione più semplice è che il suo insegnante fosse un incapace e lei fosse più intelligente, seppure non addestrato a insegnare. Il che dimostrerebbe il contrario di quel che pretende. In ogni caso, lei non ha dimostrato nulla. Anche perché la spiccata sensibilità e intelligenza verbale può essere naturale e non acquisita.
Senza contare che lei trascura il punto centrale e cioè la pretesa di certo pedagogismo che non sia importante cosa si sa, bensì il metodo di insegnamento. Di qui la produzione di inseganti che non sanno un acca di fisica o di matematica ma che sanno molto di come si deve insegnare... quel che non sanno.
Perciò il suo ragionamento è un errore logico da cima a fondo e se le hanno insegnato a insegnare lei è la prova vivente che non funziona.
Ciò detto, io ho riprodotto un articolo per rifletterci sopra. Non per dire che la pedagogia o la didattica non servono a nulla, ma per suggerire che la pretesa che insegnare a insegnare sia più importante di ciò che si insegna è un'autentica cialtronata.
Sono decisamente concorde con quello che dice l'articolo. E'evidente che nessuno può insegnare ad insegnare, ma che questo è un fattore che deriva dal sapere la materia, dall'interesse per quello che si fa e dalle capacità personali di sapere comprendere le persone. E questo nessun corso di pedagogia te lo insegna. Il tirocinio è invece molto importante per dare quel tanto di esperienza che è utile per sapere come comportarsi in alcune situazioni. Però, a questo punto sono curiosa di conoscere il nuovo sistema di formazione insegnanti. Inoltre ne viene fuori un nuovo argomento di discussione. Se il tirocinio pratico è quello che veramente serve, non sarebbe consequenziale che ai docenti non abilitati venisse considerato il servizio pregresso e fosse loro consentito di accedere all'abilitazione senza dover smettere di lavorare (evidentemente nelle zone dove abitano, riescono a lavorare) e senza dover fare un ulteriore corso dovuto solo alla burocrazia? Un semplice aggiornamento di materie pedagogiche o legislative non sarebbe, in questo caso, una conseguenza della mutata prospettiva (finalmente), del corso biennale fatto di chiacchiere delle SSIS? Dico questo perché mi sembra assurdo che persone che durante quest'anno in cui non vi è stato percorso abilitativo hanno lavorato tutto l'anno senza abilitazione (e ce ne sono), siano costrette a smettere di lavorare per fare, nel momento in cui si deciderà di farlo partire, un corso di abilitazione fortemente fondato sulle materie su cui sono laureati e sul tirocinio. Tutte cose che hanno già compiuto in pratica. Non vuole certo essere una sanatoria ma un semplice riconoscimento (come si fa con i crediti riconosciuti nel momento in cui si prende una seconda laurea) di un percorso che è stato già compiuto, almeno in parte.
io sono favorevole ad insegnare ad insegnare; allo stesso modo sono favorevole ad insegnare ad amare. Per esempio si potrebbero fare dei corsi per insegnare ad amare ai bambini (amare le istituzioni in particolare e il consumismo in generale). educazione all'amore per il consumismo sfrenato dovrebbe diventare una materia scolastica obbligatoria dalle scuole materne e poi
educazione all'amore per il telefonino
educazione all'amore per il governo
educazione all'amore per amore
ecc ecc
Prof. Israel, lei ha equivocato il mio intervento... o forse è colpa mia, non sono stato abbastanza chiaro (per questo le sembra che il mio ragionamento faccia acqua, lo vuole condurre ad una tesi che non volevo affatto esprimere).
Io dico proprio che, pur volendo abbracciare il suo punto di vista sul pedagogismo messo inopportunamente sopra a tutto, finanche alle conoscenze, volevo allo stesso tempo spiegarmi il perché di queste mie esperienze scolastiche.
Ed il perché che mi ero dato era proprio quello che lei definisce come la spiegazione più semplice: io ero naturalmente inclinato a spiegare degli argomenti di lezione mentre alcuni miei professori, pur preparati, non lo erano.
Quindi cosa volevo concludere: che è vero che mettere il pedagogismo sopra a tutto, finanche alle conoscenze, è qualcosa che ha del demenziale. Così come pensare di togliere ancora più spazio alla formazione dei docenti per riempirlo di corsi sulla didattica. Però allo stesso tempo volevo dire che, presumibilmente, insegnare è un compito che, oltre alla conoscenza profonda della materia, richiede delle doti di cui alla prova sul campo ci si può scoprire anche sprovvisti.
(Come vede avevo parlato di doti/qualità... non roba correlata ad un qualsivoglia corso di formazione)
Lo so, non è una gran scoperta. Era una considerazione a margine, sorta leggendo la confutazione dell'esempio dello scienziato cattivo docente.
Io personalmente penso che una persona di ottima preparazione possa anche essere un mediocre docente: ma non perché gli manchi un corso di formazione, ma perché il suo compito è realmente difficile.
nessuno nasce imparato; nessuno nasce insegnato e nessuno nasce insegnante insegnato ma almeno un insegnante preparato spero ci sia
Volevo rispondere a Fabio con una semplice riflessione. E' molto diverso spiegare un concetto in un rapporto a due persone, come si presume sia quello con un compagno, rispetto al tenere una lezione davanti alla classe. Qui il miracolo dell'attenzione è sempre in equilibrio precario, basta perdere una parola e lo
studente perde il filo. Non sai quante volte un ragazzo in disparte mi ha chiesto dei chiarimenti sulla lezione appena terminata ed io ho ripetuto i concetti con le medesime parole, ed immediatamente seguiva l'esclamazione
dell'"ora ho capito". Quindi credo che la capacità di insegnare non c'entri nulla con la situazione proposta, semplicemente si stanno confrontando due situazioni non confrontabili.
Debbo dire di trovarmi molto in sintonia con l'articolo di De La Oliva.
Ho sempre rigettato posizioni del tipo "per insegnare non basta sapere, occorre saper insegnare", e specialmente quel che se ne vuole in genere far seguire. Intendiamoci la frase in sé magari è anche vera (direi quasi tautologica), ma proprio in questa sua ovvietà, come ben spiega l'articolo, si annidano insidie che non pochi guasti hanno provocato.
Non si tratta di negare la possibile utilità di una consapevolezza dei principali quadri pedagogici e della letteratura didattica. Sonmo elementi che possono aiutare il lavoro del docente e renderlo più consapevole (molte delle difficoltà di insegnamento e dei nodi cruciali sono ben noti da anni e sono stati oggetto di studi ed esperienze sul campo: non c'è motivo di non tenere in conto od ignorare tutto ciò).
I guai vengono quando si pretende di concentrare la preparazione iniziale dei docenti su questa "preparazione a insegnare". Si imbocca questa via asserendo che il "sapere" è necessario ma non sufficiente per l'insegnamento, ma nei fatti si mettono in azione dei meccanismi che portano rapidamente ad una visione riduttiva di tale sapere.
Da dire "sapere occorre ma non basta" a pensare "sapere non serve" il passo è, nei fatti, molto breve: questo slittamento in Italia si è compiuto da tempo.
Così si finisce per edificare tutto un apparato metodologico che di fatto prende il sopravvento e si sostituisce al vero oggetto dell'insegnamento. I contenuti vengono perfino delegittimati.
Per questa via, nei casi migliori si tenderanno a creare dei diligenti "operatori" scolastici, difficilmente in grado di trasmettere passione per la propria materia, difficilmente motivati a studiare per tutta la vita (unica vera molla per trasmettere interesse è essere autenticamente interessati).
Il più delle volte, oltretutto, si approfitta di questo impianto per veicolare un'idea astratta e idealizzata dell'attività didattica e del discente (spesso implicitamente descritto un giovane desideroso di imparare ma in difficoltà).
Quando nel seguito ci si accorge che, nella realtà, quella cartolina è molto ma molto più complicata, che in buona parte il problema è proprio nel clima della scuola, nella debolezza delle motivazioni degli alunni, in fattori esterni sui quali l'insegnante non può (forse neppure deve) agire, talvolta (per mille ragioni) in livelli di partenza talmente bassi rispetto ai prerequisiti da rendere essenzialmente infattibile qualsiasi recupero, e così via, ecco che ci si trova con un pugno di mosche in mano, un vicolo cieco.
A quel punto possono scattare diversi tipi di reazioni: chi se ne frega definitivamente e tira a campare, chi si accontenta di mantenere l'incolumità, chi ci sguazza e si dedica totalmente a progetti e progettini vari. Chi resetta tutti i avri pedagogismi e torna al più bieco tradizionalismo di stampo "autoritario", "almeno quello funzionava". A quel punto rispolvera i vecchi libri e i vecchi appunti del suo liceo: null'altro gli è stato offerto per approfondire, perfezionarsi, aggiornarsi nel senso più genuino: le velleità innovatrici contrappassano puntualmente nella perpetuazione di rituali per lo più fossilizzati ma in qualche misura affidabili e rassicuranti, come un mantra rispetto al quale non si è saputo presentare alcuna solida alternativa)
Le alternative ci sono, ma non si sono volute imboccare: approfondimento e riflessione sui contenuti, nelle loro mutue relazioni, nella loro genesi storica, nelle loro criticità didattiche, nei problemi o esercizi che possono costruirsi intorno ad essi. Solo entrando a fondo in una materia la si puà insegnare in maniera coinvolgente, e viceversa entrarvi a fondo è condizione sostanzialmente sufficiente per potervi guidare gli alunni in maniera autentica e significativa gli studenti (sempre che costoro lo vogliano e che vi siano le condizioni: è importante non illudersi ed essere consapevoli che limiti e vincoli esistono).
Un conto è farsi raccontare un viaggio da chi c'è stato, vi ha dormito, ha assaggiato i cibi, ha sentito gli odori, ha conosciuto le persone, ha comprato nei mercatini, si è perso per le strade, e così via. Altro conto se il racconto lo fa qualcuno che non si è mai mosso di casa. Hai voglia a studiare libri e guide, stampare fotografie. Non è la stessa cosa. Mi pare che si sia caduti in questa trappola: raccontare un viaggio senza essere usciti di casa, concentrandosi sulla documentazione e sulla narrazione, piuttosto che sul bagaglio di esperienze.
Ho letto l'articolo un po' in fretta, ma mi ritrovo pienamente con quanto dice.
Per me "imparare ad insegnare" consiste nel continuare a studiare la mia materia, nel divertirmi, argomento per argomento, a sviscerarne concetti e passaggi , a mettermi nei panni dei miei alunni, individuare dove potrebbero incontrare difficoltà nella comprensione, ed escogitare sempre nuove strade per rendere tutto il più chiaro e interessante possibile.
Per insegnare bene 10 bisogna sapere bene almeno 100: secondo me da qui non si scappa.
Dina
Francesco:
naturalmente avevo considerato quest'aspetto (pensavo fosse implicito). Le situazioni che avevo citato a titolo di esempio vedevano un confronto "alla pari".
Era proprio nel rapporto frontale che si evidenziava la differenza. Forse era anche il fatto di stare percorrendo la strada dell'apprendimento proprio in quel frangente che mi avvantaggiava, che mi rendeva più vicino al mio compagno di classe di quanto potesse esserlo una persona dalle conoscenze più solide.
Lei poi è un docente, saprà benissimo che chi non ha capito qualcosa spesso è nell'impossibilità persino di fare una domanda pertinente che lo possa aiutare ad uscire dal suo errore. Per non parlare di chi non sa di non aver capito e di chi finge di aver capito.
In questo argomento, se vogliamo, rientra anche il discorso che il prof. Israel ogni tanto ci ripropone, riguardo alla cultura classica.
Dal fatto che il prof. Israel ci ha messo a disposizione mi è venuto alla mente un fatto che ho vissuto personalmente ai tempi in cui ero studente del liceo scientifico di Forlì. Un bel po' di anni fa, quindi.
C'era, dunque, un'insegnante di Italiano e Latino che amava le sue materie e vedeva come suo filosofo di riferimento Benedetto Croce.
Questo riferimento culturale c'entra perché il modo con cui ha impostato la lettura dei "Promessi Sposi" era quanto di meglio ci potesse essere perché, finito l'anno scolastico, lo "studente medio" prendesse quel tal libro e lo utilizzasse come esca per un barbecue. Non sto dicendo, notare, che spiegasse male o che non sapesse insegnare: tutt'altro! Era una professoressa estremamente preparata. Non amava il Manzoni, e neppure Dante, tutto qui. Con me ha fallito, nel senso che io so a memoria alcuni brani del suddetto romanzo, che amo incondizionatamente, e che avrò letto, dopo la scuola, circa una trentina di volte: non è riuscita a farmelo odiare, ecco perché dico che ha fallito.
Allora, voglio capire: ha più senso un insegnante che sa bene la materia e, anche se non l'ama nella sua interezza (in letteratura, in filosofia può capitare), ne sa rendere bene i contenuti, oppure queste caricature di insegnanti a cui è stato insegnato ad insegnare, senza preoccuparsi che sappiano veramente quello che dovrebbero sapere, e basta?
Sono stato insegnante precario di elettronica e telecomunicazioni in un ITIS senza, apparentemente, alcun tirocinio precedente. Eppure i miei studenti apprendevano bene. Perché? Perché il tirocinio, in realtà, c'era stato: si chiama didattica breve a personale aziendale, e posso assicurare che è un'esperienza a confronto della quale insegnare a scuola è quasi facile.
Egregio Professore, dalla vis polemica che affiora da molti Suoi articoli e dai relativi commenti, pare di capire che si paventi il rischio di avere sulla cattedra in classe non un professore ma un pedagogo - qualunque cosa esso sia – sempre meno collegato e attento alla sua materia; e che molti insegnanti siano affetti da un comodo strabismo che li porta a curarsi più del "modo" d'insegnare che della materia d'insegnamento. Bisogna dire che osservando la preparazione generale o addirittura ascoltando come si esprimono, anzi, non si esprimono in italiano troppi ragazzi – addirittura anche dei laureati: una quindicina d'anni di scuola! - si è portati a pensare che possa esser più di un rischio.
Se però pensiamo che il tirocinio, l'esperienza dunque mi par di capire, abbia un suo valore, allora anche un po' di informazioni e osservazioni elaborate da questa esperienza, non dovrebbero fare male. Che nel bagaglio professionale di un insegnante ci sia anche la giusta (il moderato timore del non addetto ai lavori emerge nell'aggettivo!) dose di pedagogìa non mi pare una cosa assurda. Poi ci saranno teorie pedagogiche diverse, da valutare e che possono aiutarci ad orientarsi ed operare nell'insegnamento concreto. Certo la pedagogìa non sia assunta al livello di scienza, e scienza omnicomprensiva e prevaricante.
Non ho mai insegnato; molto più banalmente mi càpita talvolta di parlare a qualche ristretto pubblico, peraltro adulto e liberamente convenuto (ho ben presente questo insignificante particolare). Oltre all'osservazione di colleghi ed all'esperienza acquisita ho frequentato un paio di piccoli seminari su come parlare in pubblico. Confido che un po' abbiano migliorato la mia capacità di farmi ascoltare.
Resta il fatto che Dina ha precisato con grande e stringata evidenza: per insegnare 10 bisogna sapere 100. Di qui non si scappa. E metterci un po' d'anima.
Completamente d'accordo. Avercela a priori con la pedagogia è stupido. Ridurre tutto a metodologia è altrettanto stupido.
Quando, tornando alla mia esperienza dell'ITIS, ho detto ai colleghi che avrei cominciato a parlare di antenne, è emerso che nei corsi di telecomunicazione non c'era nessuno (!) che avesse mai impostato un simile discorso. Immaginarsi... Quindi uscivano dei periti elettronici, gente che avrebbe potuto, per competenza teorica, lavorare in una radio che non aveva mai visto un'antenna, non sapeva cosa fosse una figura di diffusione, il rapporto SWR, un beacon. Avrebbero saputo bensì come funzionava il sub-carrier, ma poi, a cosa lo applicavano? Se avessi imparato ad insegnare senza sapere le telecomunicazioni (antenne comprese), o sapendone 10, che cosa avrei insegnato a quei ragazzi?
Adal, attento! Potrebbe capitare un zapatero in sedicesima e prenderla quasi sul serio...
"per insegnare 10 bisogna sapere 100 [...] E metterci un po' d'anima".
Già, ma sapere 100 sembra che sia un particolare del tutto trascurabile, anzi assolutamente trascurato. Quanto all'anima, chi mi sa dire quali siano i parametri oggettivi da prendere in considerazione per quantificarla?
Nessun parametro oggettivo, cara signora, lasci perdere la quantificazione dell'anima, sia misericordiosa...
L'anima non ha bisogno di quantificazioni, basta dare ascolto a quella vocina che sta dentro, e che alcuni bravi scrittori (non necessariamente religiosi, però l'esserlo aiuta...) ci hanno descritto così mirabilmente.
Secondo me il metterci l'animo nella professione docente consiste anche nel metterci la propria personalità a livello curricolare.
Mi spiego: se io ho una laurea in astronomia, e continuo ad interessarmi di atrofisica, leggendo articoli di settore e studiando, il mio modo di insegnare la fisica sarà differente da quello di un collega che ad esempio possiede una laurea in matematica. Allo stesso modo anche il mio modo di insegnare matematica sarà diverso da quello del collega, magari appassionato di teoria dei numeri, di teoria dei giochi o di statistica.
(attenzione: sto dicendo "diverso", non migliore o peggiore!)
Sapere 100 per insegnare 10 vuole anche dire direzionare le proprie conoscenze, approfondendo quelle parti di disciplina per le quali ci si sente più portati, per esperienza, formazione e/o interesse, ed apprendendo con umiltà (magari proprio dai propri colleghi) quelle parti nelle quali invece ci si può sentire più carenti nella formazione.
La ricchezza di un docente consiste nella ricchezza della propria formazione. Il dare personalità alla propria docenza aumenta automaticamente l'interesse dei ragazzi la disciplina.
E il vedere che anche il proprio insegnante studia continuamente, apprende, cerca di migliorarsi, costituisce un ottimo modello e sprona allo studio.
Questa ricchezza, e la conseguente diversità che si crea all'interno di una scuola possono essere fonte di preziose esperienze per i ragazzi: a me è capitato di fare scambio di classe con una collega per la trattazione di un paio di argomenti, ed entrambe abbiamo visto la soddisfazione nei ragazzi per avere avuto una docenza esperta per entrambi gli argomenti.
Come diceva il buon signor Spock:
"infinite combinazioni, infinite possibilità"
Dina
"E metterci un po' d'anima."
Mettere l'anima nell'insegnare ai ragazzi significa credere nella professione dell'insegnante, essere preparati nell'esercitarla ed entrare in sintonia con gli allievi in una comunione di intenti, rispettosa e costruttiva.
MLuisa.
Non ho conoscenze dirette per giudicare se i corsi "insegnare a insegnare" siano validi o meno.
Quello che è sicuramente un errore è che i corsi siano generalizzati, a "tappeto", "politici", a priori.
Un bravo studente viene valutato dai risultati che ottiene in base a ciò che ha appreso. Sarebbe una buona cosa inserire a fine anno una "pagella" anche per i professori valutando i risultati attesi e quelli ottenuti.
Facendo un banale esempio, se in una classe di 20 alunni, 10 hanno un debito in matematica, si può desumere:
- che 10 studenti siano intellettualmente inferiori
- che l'insegnante di matematica non sia stato in grado di trasmettere il suo sapere (non sa insegnare)
- che l'insegnante sia impreparato.
A quel punto decido se:
- investire risorse nell'insegnante, con corsi mirati.
- cacciarlo, perchè non idoneo ad insegnare e nessun corso potrebbe colamre le sue lacune.
Sicuramente introdurre una valutazione anche per gli insegnanti sarebbe già da stimolo e motivazione ad insegnare meglio e a tenere alto il prorpio livello di professionalità.
E' vero che un buon insegnante deve avere "passione" e metterci l'anima, ma una valutazione esterna e oggettiva è indispensabile, come in ogni professione.
Reduce da corso SISS non posso dire di aver imparato nulla di quanto non sapessi già, pedagogia inclusa. Tuttavia il corso è stato fatto ed è stato pagato; era stato calibrato nei numeri per un ragionevole assorbimento nelle scuole, e ci avrebbe messo su una corsia preferenziale; questo il motivo per cui (superando un concorso di ammissione) lo ho fatto. Si puo' parlare dunque di una truffa dello Stato ai nostri danni, Professore?
a giuliana: la prima possibilità elencata è, probabilisticamente, pressoché impossibile. È stata però trascurata una quarta possibilità che è peraltro mooolto frequente: i dieci studenti hanno basi matematiche pressoché nulle e/o altrettanta nulla voglia di studiare, visto che finora gli è sempre andata bene così.
Chissà perché lo studente viene sempre descritto come un "bon sauvage" immacolato e volenteroso di imparare...
Salvo: ma le gite non sono decise dai singoli Consigli di Classe? La decisione potrebbe non essere legale. Io comunque cercherei dare il massimo di pubblicità a questo scandalo, specialmente presso i genitori degli allievi.
Gentile prof. Israel,
sono un'insegnante non abilitata che vorrebbe abilitarsi; nel 2002, pur essendo stata ammessa alla SISS, per pura ingenuità non ho 'congelato'l'ammissione dopo aver vinto un dottorato di ricerca. Poi la Siss è stata chiusa e da due anni aspetto che qualcosa cambi. Intanto continuo ad insegnare perché nella mia provincia ci sono, comunque, cattedre vacanti. Ora, in vista dei prossimi tagli, sarei decisa ad andare in Spagna a frequentare il Master en formacion del profesorado. Ma secondo lei, è possibile una cosa del genere? E poi crede che il titolo mi verrà riconosciuto anche in Italia. La ringrazio e spero tanto che vengano attivati al più presto i TFA;
Non sono io a poterle dare un consiglio in merito, perché non trovo che questa soluzione sia seria e non ho alcuna idea circa il riconoscimento, anche se auspicherei che non fosse possibile visti i programmi del Master spagnolo. Ma d'altra parte, trovo deplorevole che il TFA avanzi tanto lentamente. È una cosa che mi amareggia moltissimo, anche se non ne porto la minima responsabilità, anzi.
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