Qualche considerazione sulle ragioni per cui d'ora in poi, e fino a che la situazione non sarà chiarita, non intendo più tornare sulla questione della formazione degli insegnanti e, in particolare, non intendo polemizzare con i commenti alla relazione del Gruppo di lavoro ministeriale sulla formazione da me coordinato.
È un elementare dovere istituzionale, in primo luogo di rispetto per il Ministro che ci ha nominato, evitare polemiche pubbliche e personali ed aprire diatribe sui dettagli tecnici del documento.
Naturalmente, fino a che la situazione non sarà chiarita.
È una scelta necessaria ma di certo non indolore. Vorrei chiarire con due esempi - e senza riferimenti a gruppi o persone - fino a che punto lo è.
Una delle critiche più aspre che sono state mosse al nostro progetto è di avere penalizzato la scuola a favore dell'università, di avere reso marginale e subordinato il ruolo della scuola. Critica legittima, come tutte le critiche avanzate sulla base dei fatti e in buona fede. Ma se travisa i fatti non è legittima.
Ma vediamo due punti di cui essa si è sostanziata.
Il primo è che noi abbiamo escluso la scuola dal processo di valutazione e abilitazione dello studente o comunque l'abbiamo messa in posizione subordinata, mentre si chiede una posizione paritaria (quanto meno 50%-50%, qualcuno chiede addirittura di più per la scuola, ovvero una posizione decisionale nelle commissioni 65%-35% a suo favore). E si arriva al punto di dire che saremmo l'unico paese al mondo a delegare il ruolo preponderante della valutazione nella formazione dei docenti all'università. Ebbene, il titolo che da luogo a insegnare è composto da una laurea magistrale e da un'abilitazione. Il primo titolo è accademico, il secondo dipende dal primo. C'è chi chiede che la scuola conferisca una laurea magistrale abilitante. Sarebbe davvero l'unico caso il mondo in cui un titolo universitario viene conferito da un'istituzione diversa!... In tal modo, non soltanto la scuola secondaria conferirebbe titoli nel suo ambito (come la maturità) ma anche nell'ambito universitario. Un'autentica pazzia, che costituisce soltanto un modo di perdere tempo. Perché se, per assurdo, venisse approvata, sarebbe cassata immediatamente dal primo ricorso. È giusto che la scuola abbia un ruolo di partecipazione al conferimento di titoli che appartengono per legge alla sfera universitaria ma tale ruolo non può in alcun modo essere determinante. Così accadeva che i presidenti delle commissioni di maturità venissero scelti tra i professori universitari, ma di certo il ruolo degli universitari non è mai stato determinante nelle attività istituzionalmente proprie della scuola. Anche con le SSIS la situazione era dentro la legge, ovvero vi era presenza di docenti delle scuole secondarie ma mai determinante. E ora si vorrebbe approfittare della discussione che si è aperta per prendere dopo il dito tutto il braccio e anche la spalla. Del resto, ripeto, inutilmente, perché si tratta di una richiesta semplicemente al di fuori di ogni principio giuridico degno di questo nome.
Altro esempio. Si dice che noi avremmo penalizzato la scuola perché nella tabella del tirocinio formativo attivo il tirocinio il classe rappresenta "soltanto" 12 crediti, ovvero alla scuola viene dato soltanto 12/60 = 1/5 del totale. Lasciamo perdere il fatto che altri 9 crediti sono per la relazione di tirocinio che è seguita da un docente della secondaria. Il punto è un'altro: i crediti non sono uguali per tutte le attività. E i crediti di tirocinio valgono un numero di ore molte volte superiore a quello delle lezioni ordinarie. Pertanto 12 crediti è davvero moltissimo. Significa più di un quadrimestre di lezione attiva in classe!... È chiaro quale falsificazione rappresenti dire che la scuola "vale" soltanto un quinto del totale!... Ora, che una cosa simile la dica una persona qualsiasi si può capire - così come è accaduto a qualcuno che ha letto i parametri di valutazione dell'esame di tirocinio e non ci ha capito nulla - ma che lo dica qualcuno che si pretende un "esperto" di questioni scolastiche non è ammissibile. Perchè, in tal caso, se lo sapeva ci troviamo di fronte a un mestatore nel torbido. Se non lo sapeva è bene che parli soltanto dopo essersi informato e dopo aver fatto un corso di aggiornamento sulla teoria delle proporzioni; e per l'intanto la smetta di pontificare come "esperto".
Questo è il livello a cui bisogna discutere. Questo è il livello a cui si affossa un paese.
Infine, che dire dei messaggi di coloro che credono che un modo di rafforzare le loro critiche sia di dire che non hai mai visto una scuola materna, una scuola elementare, una scuola media, un liceo, un'università, un maestro, uno studente, un supervisore, un insegnante, un'aula, ecc. ecc. Ebbene, se ci si vuole consolare convincendosi che l'interlocutore abbia l'anello al naso si faccia pure. Ognuno se la cava come può.
Per fortuna ci sono le tantissime persone che capiscono e che continuano a remare dal lato opposto di quelli che remano contro. La barca resta ferma, ma prima o poi chissà.
Chiuso il discorso.
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
venerdì 27 febbraio 2009
Prima l’inamovibilità poi il ritiro coatto. Ecco i malanni che rendono i vecchi inutili
Nella bella intervista su Tempi (12 febbraio) del mio quasi omonimo, l’oncologo francese Lucien Israël, mi ha colpito un’osservazione a margine del tema centrale – la denuncia dell’eutanasia. Israël, oggi ottantatreenne, lamenta di essere stato pensionato a 60 anni: «Negli Stati Uniti dire a un medico o a chiunque eserciti una professione che è troppo vecchio per lavorare è considerato un atto discriminatorio. In Francia a sessant’anni ci si libera di un professionista proprio quando è entrato in possesso di un sapere e di un patrimonio di esperienze che sarebbero immensamente utili alla società».
Si potrebbe aggiungere che negli Stati Uniti si perde il posto quando ci si dimostra inadeguati, indipendentemente dall’età. Le università sono piene di luminari novantenni e ciò non implica affatto un blocco all’ingresso dei giovani. Lucien Israël parla della Francia, ma in Italia va peggio. Qui si prende un posto per diritti “acquisiti” (per diritto di precariato, per aver fatto una supplenza o essersi seduto per un po’ di tempo su una scrivania) dopodichè nessuno te lo toglie più, indipendentemente da quello che fai, fino alla pensione, che però cade come una ghigliottina. Non c’è un criterio con cui spostare la gente secondo età e competenze da una funzione all’altra, oppure cacciarla o promuoverla (per merito e non per anzianità). Un insegnante può offrire cose molto diverse secondo l’età: magari, col passare del tempo, è meno puntiglioso e attento ai dettagli ma è capace di fornire una visione più ampia e matura. Quale che sia il mestiere o la professione una persona anziana e competente ha un ruolo insostituibile nel formare i giovani che prenderanno il suo posto.
Invece stiamo perdendo di vista la questione fondamentale: la trasmissione delle competenze. Si pensa stupidamente che per risolvere la cristallizzazione delle persone in posizioni inamovibili ed eliminare i blocchi che impediscono l’accesso ai giovani occorra spedire la gente in pensione prima che sia possibile invece di dislocarla nei ruoli più adeguati al contributo che possono offrire, oltre a mandare a casa i nullafacenti e gli incapaci. Conosco molti casi di persone che, nella crisi attuale, perdono il posto perché “costano troppo” perché “anziane” e vengono sostituite da un ragazzino non in quanto più capace ma perché “costa poco”. Nelle università ora si parla di alleggerire le spese spedendo in pensione anticipata il massimo numero di docenti. Questo andazzo, sommato alla valanga di pensionamenti “naturali” previsti, creerà una frattura generazionale che disperderà tutte le competenze acquisite. Tutto ciò è straordinariamente irresponsabile e sarà fonte di un sicuro decadimento culturale. Proprio questo mentre ci si riempie la bocca dello slogan secondo cui viviamo nella “società della conoscenza”…
L’aspetto tragicomico di questa faccenda è che lo slogan dello “svecchiamento” – non importa come e non importa con quali conseguenze – è quasi sempre scandito da anziani che si ritengono, e sono, inamovibili. Ricordo la filippica tenuta alcuni anni fa da un noto politico settantenne che si scagliò contro la “gerontocrazia di stile cinese” vigente in Italia. Ora leggiamo che questo personaggio è in pista per l’ennesima carica, stavolta culturale. Nulla da obiettare, per carità, ove si dimostrasse l’utilità della persona in quella posizione. Il problema sta in quella filippica che richiama proprio lo stile della Rivoluzione culturale cinese: un capo ottantenne, Mao, che incita le giovanissime Guardie rosse a sparare sul “quartier generale” dei “gerontocrati”. Senti chi parla.
(Tempi, 26 febbraio 2009)
Si potrebbe aggiungere che negli Stati Uniti si perde il posto quando ci si dimostra inadeguati, indipendentemente dall’età. Le università sono piene di luminari novantenni e ciò non implica affatto un blocco all’ingresso dei giovani. Lucien Israël parla della Francia, ma in Italia va peggio. Qui si prende un posto per diritti “acquisiti” (per diritto di precariato, per aver fatto una supplenza o essersi seduto per un po’ di tempo su una scrivania) dopodichè nessuno te lo toglie più, indipendentemente da quello che fai, fino alla pensione, che però cade come una ghigliottina. Non c’è un criterio con cui spostare la gente secondo età e competenze da una funzione all’altra, oppure cacciarla o promuoverla (per merito e non per anzianità). Un insegnante può offrire cose molto diverse secondo l’età: magari, col passare del tempo, è meno puntiglioso e attento ai dettagli ma è capace di fornire una visione più ampia e matura. Quale che sia il mestiere o la professione una persona anziana e competente ha un ruolo insostituibile nel formare i giovani che prenderanno il suo posto.
Invece stiamo perdendo di vista la questione fondamentale: la trasmissione delle competenze. Si pensa stupidamente che per risolvere la cristallizzazione delle persone in posizioni inamovibili ed eliminare i blocchi che impediscono l’accesso ai giovani occorra spedire la gente in pensione prima che sia possibile invece di dislocarla nei ruoli più adeguati al contributo che possono offrire, oltre a mandare a casa i nullafacenti e gli incapaci. Conosco molti casi di persone che, nella crisi attuale, perdono il posto perché “costano troppo” perché “anziane” e vengono sostituite da un ragazzino non in quanto più capace ma perché “costa poco”. Nelle università ora si parla di alleggerire le spese spedendo in pensione anticipata il massimo numero di docenti. Questo andazzo, sommato alla valanga di pensionamenti “naturali” previsti, creerà una frattura generazionale che disperderà tutte le competenze acquisite. Tutto ciò è straordinariamente irresponsabile e sarà fonte di un sicuro decadimento culturale. Proprio questo mentre ci si riempie la bocca dello slogan secondo cui viviamo nella “società della conoscenza”…
L’aspetto tragicomico di questa faccenda è che lo slogan dello “svecchiamento” – non importa come e non importa con quali conseguenze – è quasi sempre scandito da anziani che si ritengono, e sono, inamovibili. Ricordo la filippica tenuta alcuni anni fa da un noto politico settantenne che si scagliò contro la “gerontocrazia di stile cinese” vigente in Italia. Ora leggiamo che questo personaggio è in pista per l’ennesima carica, stavolta culturale. Nulla da obiettare, per carità, ove si dimostrasse l’utilità della persona in quella posizione. Il problema sta in quella filippica che richiama proprio lo stile della Rivoluzione culturale cinese: un capo ottantenne, Mao, che incita le giovanissime Guardie rosse a sparare sul “quartier generale” dei “gerontocrati”. Senti chi parla.
(Tempi, 26 febbraio 2009)
sabato 21 febbraio 2009
Sulle conclusioni del Gruppo di lavoro ministeriale sulla formazione
La lettura dei temi di matematica per l’abilitazione dei maestri elementari di una trentina di anni fa da la misura di quanto i tempi siano cambiati: oggi un laureato in matematica potrebbe faticare a risolverli. Nel frattempo ci si può laureare maestri frequentando in quattro anni non più di una trentina di ore di matematica (e altrettanto di storia), e in certi casi neppure una – tutto ciò in barba alla retorica sul “team” dei maestri “specializzati”. In cambio, il futuro maestro viene assoggettato a un diluvio di materie psico-pedagogiche e di metodologia didattica in un’ottica che è più quella della formazione di un assistente sociale che non quella di un’insegnante.
Un tempo gli insegnanti di scienze nelle scuole medie inferiori erano laureati in matematica o in fisica. Oggi, dopo l’apertura degli accessi a una miriade di altre lauree, la maggioranza degli insegnanti di questo ordine di scuole ha una preparazione matematica di modestissimo livello. In queste condizioni, discettare sulle ragioni delle pessime prestazioni matematiche degli studenti italiani è una perdita di tempo, se non un voler nascondere la verità.
Quando si dicono queste cose si rischia l’accusa di voler offendere gli insegnanti. È vero il contrario. La scuola italiana galleggia per merito dell’eroismo di tanti di loro, che spesso suppliscono da soli alle carenze di un sistema formativo che fa acqua da tutte le parti. Un’altra accusa è quella di denigrare un sistema scolastico che sarebbe comunque eccellente. Non si capisce allora il perché di tanti verdetti negativi confermati dall’esperienza diffusa e dalle testimonianze raccolte nei tanti libri di insegnanti che descrivono la crisi del sistema dell’istruzione. Né si capirebbe, se tutto andasse per il meglio, perché da anni ci si affanni a tentare di ripensare da cima a fondo il processo di formazione dei docenti.
Una premessa fondamentale: non si verrà mai a capo di questa situazione se non si affronterà il nodo dei contenuti invece di divagare soltanto sulle questioni metodologiche o sulle architetture istituzionali: si possono ideare tanti meccanismi, ma nessuno di essi funzionerà se non si porrà mano ai contenuti della formazione. Inoltre, in un sistema scolastico stressato da innumerevoli interventi, occorre procedere con ragionevolezza e prudenza, con operazioni mirate, tanto agili e realistiche sul piano normativo quanto incisive sul piano dei contenuti. È inspirandosi a questi principi che ha operato il Gruppo di lavoro ministeriale sui temi della formazione degli insegnanti che ho avuto l’onore di coordinare. Vediamo in estrema sintesi come si è cercato di tradurre questi principi.
In primo luogo, un atteggiamento ragionevole significa che, per quanto si possano rimpiangere i tempi in cui un maestro elementare possedeva un bagaglio di conoscenze assai superiore a quello attuale, sarebbe sbagliato disconoscere l’apporto della pedagogia e della didattica. Se è perfettamente possibile diventare un ottimo insegnante semplicemente insegnando e apprendendo a farlo “a bottega”, ovvero seguendo l’esempio dei propri insegnanti di valore, l’accumulazione di conoscenze e riflessioni circa le metodologie d’insegnamento, la psicologia dei bambini e dei ragazzi e le tecniche didattiche ha un indubbio valore, soprattutto in una scuola di massa. Come al solito, i disastri derivano dagli estremismi ideologici. Tale è l’idea che le conoscenze disciplinari siano secondarie o irrilevanti, che l’unica cosa che conta sia “insegnare a insegnare”: ovvero considerare secondaria la conoscenza di base e pretendere che qualsiasi concetto venga introdotto subordinatamente alla definizione di come esso deve essere insegnato. L’idea che la pedagogia e la didattica siano “metadiscipline” che stanno al di sopra di tutte le altre e le governano come regine è una delle cause principali degli attuali dissesti. Pertanto, un riequilibrio tra le componenti disciplinari e quelle metodologiche è necessario per formare insegnanti che siano, al contempo, preparati e consapevoli delle problematiche dei metodi d’insegnamento. Non si tratta affatto di tornare al passato, ma di comprendere che non possiamo più permetterci maestri che non sappiano neppure cosa sia l’algoritmo della divisione, che non vadano oltre un’infarinatura di storia moderna e ignorino gli elementi della fisica.
Una ragionevolezza analoga deve ispirare la riforma di quello che è da tutti considerato come il buco nero della scuola italiana, ovvero la secondaria di primo grado (o “media inferiore”, come si diceva un tempo). Qui il problema maggiore è la matematica, spesso insegnata da laureati in scienze naturali o in altre materie, i quali non hanno avuto modo di studiare seriamente questa disciplina. Possiamo pensare a un ritorno all’indietro che riservi l’insegnamento della matematica ai laureati in matematica o fisica? Sarebbe una prospettiva dirompente sul piano sociale. La soluzione “ragionevole” consiste nel costruire un percorso di laurea che compensi le carenze in matematica e fisica attraverso un meccanismo di crediti accuratamente bilanciato in funzione della preparazione d’ingresso.
In generale, la proposta delineata dal Gruppo di lavoro mira a trovare una soluzione all’interno del sistema esistente senza introdurre troppi stress e rivoluzionamenti. Si propone che il percorso di formazione consista in una laurea triennale ordinaria seguita da una laurea magistrale il più possibile pensata in funzione della formazione di insegnanti: difatti, si deve fare in modo che la componente disciplinare e la componente didattico-pedagogica collaborino alla formazione di una figura non generica ma specificamente orientata verso l’insegnamento. Per questo, il percorso dovrà concludersi con un anno di tirocinio nelle scuole secondarie, consistente in una fase di osservazione e in una fase di insegnamento attivo, sotto la guida di un insegnante e accompagnato da altri corsi di didattica disciplinare, di pedagogia e da attività di laboratorio gestite dalle università assieme alle scuole, il tutto sotto la responsabilità di una facoltà universitaria. Anche qui si tratta di recuperare le esperienze positive delle SSIS (Scuole di Specializzazione dell’Insegnamento Secondario) ma di superarne i difetti che si sono manifestati o nella riproposizione meccanica di insegnamenti disciplinari già forniti nel corso di laurea o in uno spazio smisurato conferito alle materie psico-pedagogiche, nonché nella tendenza a operare in modo autoreferenziale.
Naturalmente non è questa la sede per entrare nei numerosi dettagli tecnici del progetto. Siamo convinti che esso delinei in modo preciso il quadro per muovere, in modo costruttivo e non ideologico, verso la soluzione di un problema attorno a cui si gira da anni e che non può più attendere.
(Il Messaggero, 20 febbraio 2009)
Un tempo gli insegnanti di scienze nelle scuole medie inferiori erano laureati in matematica o in fisica. Oggi, dopo l’apertura degli accessi a una miriade di altre lauree, la maggioranza degli insegnanti di questo ordine di scuole ha una preparazione matematica di modestissimo livello. In queste condizioni, discettare sulle ragioni delle pessime prestazioni matematiche degli studenti italiani è una perdita di tempo, se non un voler nascondere la verità.
Quando si dicono queste cose si rischia l’accusa di voler offendere gli insegnanti. È vero il contrario. La scuola italiana galleggia per merito dell’eroismo di tanti di loro, che spesso suppliscono da soli alle carenze di un sistema formativo che fa acqua da tutte le parti. Un’altra accusa è quella di denigrare un sistema scolastico che sarebbe comunque eccellente. Non si capisce allora il perché di tanti verdetti negativi confermati dall’esperienza diffusa e dalle testimonianze raccolte nei tanti libri di insegnanti che descrivono la crisi del sistema dell’istruzione. Né si capirebbe, se tutto andasse per il meglio, perché da anni ci si affanni a tentare di ripensare da cima a fondo il processo di formazione dei docenti.
Una premessa fondamentale: non si verrà mai a capo di questa situazione se non si affronterà il nodo dei contenuti invece di divagare soltanto sulle questioni metodologiche o sulle architetture istituzionali: si possono ideare tanti meccanismi, ma nessuno di essi funzionerà se non si porrà mano ai contenuti della formazione. Inoltre, in un sistema scolastico stressato da innumerevoli interventi, occorre procedere con ragionevolezza e prudenza, con operazioni mirate, tanto agili e realistiche sul piano normativo quanto incisive sul piano dei contenuti. È inspirandosi a questi principi che ha operato il Gruppo di lavoro ministeriale sui temi della formazione degli insegnanti che ho avuto l’onore di coordinare. Vediamo in estrema sintesi come si è cercato di tradurre questi principi.
In primo luogo, un atteggiamento ragionevole significa che, per quanto si possano rimpiangere i tempi in cui un maestro elementare possedeva un bagaglio di conoscenze assai superiore a quello attuale, sarebbe sbagliato disconoscere l’apporto della pedagogia e della didattica. Se è perfettamente possibile diventare un ottimo insegnante semplicemente insegnando e apprendendo a farlo “a bottega”, ovvero seguendo l’esempio dei propri insegnanti di valore, l’accumulazione di conoscenze e riflessioni circa le metodologie d’insegnamento, la psicologia dei bambini e dei ragazzi e le tecniche didattiche ha un indubbio valore, soprattutto in una scuola di massa. Come al solito, i disastri derivano dagli estremismi ideologici. Tale è l’idea che le conoscenze disciplinari siano secondarie o irrilevanti, che l’unica cosa che conta sia “insegnare a insegnare”: ovvero considerare secondaria la conoscenza di base e pretendere che qualsiasi concetto venga introdotto subordinatamente alla definizione di come esso deve essere insegnato. L’idea che la pedagogia e la didattica siano “metadiscipline” che stanno al di sopra di tutte le altre e le governano come regine è una delle cause principali degli attuali dissesti. Pertanto, un riequilibrio tra le componenti disciplinari e quelle metodologiche è necessario per formare insegnanti che siano, al contempo, preparati e consapevoli delle problematiche dei metodi d’insegnamento. Non si tratta affatto di tornare al passato, ma di comprendere che non possiamo più permetterci maestri che non sappiano neppure cosa sia l’algoritmo della divisione, che non vadano oltre un’infarinatura di storia moderna e ignorino gli elementi della fisica.
Una ragionevolezza analoga deve ispirare la riforma di quello che è da tutti considerato come il buco nero della scuola italiana, ovvero la secondaria di primo grado (o “media inferiore”, come si diceva un tempo). Qui il problema maggiore è la matematica, spesso insegnata da laureati in scienze naturali o in altre materie, i quali non hanno avuto modo di studiare seriamente questa disciplina. Possiamo pensare a un ritorno all’indietro che riservi l’insegnamento della matematica ai laureati in matematica o fisica? Sarebbe una prospettiva dirompente sul piano sociale. La soluzione “ragionevole” consiste nel costruire un percorso di laurea che compensi le carenze in matematica e fisica attraverso un meccanismo di crediti accuratamente bilanciato in funzione della preparazione d’ingresso.
In generale, la proposta delineata dal Gruppo di lavoro mira a trovare una soluzione all’interno del sistema esistente senza introdurre troppi stress e rivoluzionamenti. Si propone che il percorso di formazione consista in una laurea triennale ordinaria seguita da una laurea magistrale il più possibile pensata in funzione della formazione di insegnanti: difatti, si deve fare in modo che la componente disciplinare e la componente didattico-pedagogica collaborino alla formazione di una figura non generica ma specificamente orientata verso l’insegnamento. Per questo, il percorso dovrà concludersi con un anno di tirocinio nelle scuole secondarie, consistente in una fase di osservazione e in una fase di insegnamento attivo, sotto la guida di un insegnante e accompagnato da altri corsi di didattica disciplinare, di pedagogia e da attività di laboratorio gestite dalle università assieme alle scuole, il tutto sotto la responsabilità di una facoltà universitaria. Anche qui si tratta di recuperare le esperienze positive delle SSIS (Scuole di Specializzazione dell’Insegnamento Secondario) ma di superarne i difetti che si sono manifestati o nella riproposizione meccanica di insegnamenti disciplinari già forniti nel corso di laurea o in uno spazio smisurato conferito alle materie psico-pedagogiche, nonché nella tendenza a operare in modo autoreferenziale.
Naturalmente non è questa la sede per entrare nei numerosi dettagli tecnici del progetto. Siamo convinti che esso delinei in modo preciso il quadro per muovere, in modo costruttivo e non ideologico, verso la soluzione di un problema attorno a cui si gira da anni e che non può più attendere.
(Il Messaggero, 20 febbraio 2009)
venerdì 20 febbraio 2009
L’insopportabile accanimento scientifico sulla “zona grigia” della vita umana
Per secoli morire ha significato perdere il soffio vitale: uno specchietto che non si appannava di fronte alla bocca era il segno inequivocabile della morte. Poi, con la scoperta della circolazione del sangue l’arresto cardiaco è divenuto la prova della morte. E, a ben vedere, questo resta il criterio più corretto e indiscutibile: è noto che un arresto cardiaco anche di breve durata può compromettere irreparabilmente il cervello e anche altri organi e, se il tempo di arresto si prolunga, nulla può salvare la persona dalla morte. Ma da quando la medicina ha appreso ad agire sempre più efficacemente nella fascia ristrettissima di tempo antecedente la morte irreversibile e da quando è iniziata l’era dei trapianti quel criterio troppo netto e radicale non poteva più essere accettato ed è subentrato il criterio della “morte cerebrale”, ovvero una definizione dello stato di “morte” che rende possibile e lecito espiantare gli organi di una persona.
Le pratiche mediche sempre più sofisticate e “accanite” in quella ristrettissima zona prima preclusa ad ogni intervento esterno hanno prodotto situazioni inedite, spesso drammatiche e difficili, e hanno sollevato non poche questioni etiche che la scienza è impotente a risolvere, perché non è in grado neppure di comprenderne le radici. Quando ci si avventura in quella zona si è costretti a trattare i problemi della mente e della coscienza. È sconcertante assistere alla leggerezza con cui questi problemi vengono affrontati in termini di funzioni cerebrali, quando è evidente – fosse anche per una provvisoria incapacità della scienza – che l’attività mentale deborda da ogni lato quella cerebrale. Se dico «voglio morire» nessuno sa spiegare come questo concetto verrebbe generato da processi fisici cerebrali. Pertanto concetti come quello di «stato minimo di coscienza» sono delle bestialità da ogni punto di vista, incluso quello scientifico. Si tratta di convenzioni che servono solo a governare processi che non siamo in grado di definire e comprendere e che escono dal campo dell’umano per entrare in quello della rappresentazione formale della vita.
Pertanto, sono pienamente d’accordo con Giuliano Ferrara quando scrive che «il codice deontologico dei medici, le giuste regole contrarie all’accanimento terapeutico e all’abbandono o desistenza terapeutica, interpretate con discrezione e amore, caso per caso, sono una soluzione incomparabilmente migliore della guerra delle sentenze e delle leggi» e lamenta che la zona grigia – che è proprio quella di cui parliamo sopra – sia stata invasa «manu militari» da operazioni ideologiche violente. Angelo Panebianco trova contraddittoria la difesa della zona grigia con «l’imperiosa riaffermazione della difesa della sacralità della vita». Ma a me pare che egli non si avveda che la zona grigia esiste proprio nella misura in cui le si riconosce una caratteristica di mistero, di qualcosa che non può essere completamente illuminato e che chiede rispetto: appunto, il rispetto della vita umana che noi, con le nostre modeste conoscenze, tentiamo di praticare con discrezione e amore. Ma quando si pretende di illuminare questa zona con riflettori tanto violenti quanto inefficaci, malgrado la loro pretesa di onnipotenza, per trattare la persona come un meccanismo, da accendere e spegnere secondo le convenienze, e non come un essere umano, allora le cose cambiano. In tal caso, difendere la zona grigia non ha nulla di «imperioso». È, al contrario, l’estremo tentativo di salvaguardare la dignità della persona umana contro la pretesa violenta di trattarla come una macchina in nome di principi che nascondono la loro natura ideologica dietro il manto della “scienza”.
(Tempi, 19 febbraio 2009)
Le pratiche mediche sempre più sofisticate e “accanite” in quella ristrettissima zona prima preclusa ad ogni intervento esterno hanno prodotto situazioni inedite, spesso drammatiche e difficili, e hanno sollevato non poche questioni etiche che la scienza è impotente a risolvere, perché non è in grado neppure di comprenderne le radici. Quando ci si avventura in quella zona si è costretti a trattare i problemi della mente e della coscienza. È sconcertante assistere alla leggerezza con cui questi problemi vengono affrontati in termini di funzioni cerebrali, quando è evidente – fosse anche per una provvisoria incapacità della scienza – che l’attività mentale deborda da ogni lato quella cerebrale. Se dico «voglio morire» nessuno sa spiegare come questo concetto verrebbe generato da processi fisici cerebrali. Pertanto concetti come quello di «stato minimo di coscienza» sono delle bestialità da ogni punto di vista, incluso quello scientifico. Si tratta di convenzioni che servono solo a governare processi che non siamo in grado di definire e comprendere e che escono dal campo dell’umano per entrare in quello della rappresentazione formale della vita.
Pertanto, sono pienamente d’accordo con Giuliano Ferrara quando scrive che «il codice deontologico dei medici, le giuste regole contrarie all’accanimento terapeutico e all’abbandono o desistenza terapeutica, interpretate con discrezione e amore, caso per caso, sono una soluzione incomparabilmente migliore della guerra delle sentenze e delle leggi» e lamenta che la zona grigia – che è proprio quella di cui parliamo sopra – sia stata invasa «manu militari» da operazioni ideologiche violente. Angelo Panebianco trova contraddittoria la difesa della zona grigia con «l’imperiosa riaffermazione della difesa della sacralità della vita». Ma a me pare che egli non si avveda che la zona grigia esiste proprio nella misura in cui le si riconosce una caratteristica di mistero, di qualcosa che non può essere completamente illuminato e che chiede rispetto: appunto, il rispetto della vita umana che noi, con le nostre modeste conoscenze, tentiamo di praticare con discrezione e amore. Ma quando si pretende di illuminare questa zona con riflettori tanto violenti quanto inefficaci, malgrado la loro pretesa di onnipotenza, per trattare la persona come un meccanismo, da accendere e spegnere secondo le convenienze, e non come un essere umano, allora le cose cambiano. In tal caso, difendere la zona grigia non ha nulla di «imperioso». È, al contrario, l’estremo tentativo di salvaguardare la dignità della persona umana contro la pretesa violenta di trattarla come una macchina in nome di principi che nascondono la loro natura ideologica dietro il manto della “scienza”.
(Tempi, 19 febbraio 2009)
lunedì 16 febbraio 2009
giovedì 12 febbraio 2009
Da Galileo a Fourier, la storia della scienza è piena di questi incorreggibili “gentiliani”
Chi sa fare bene propaganda sa come conferire a certe parole la virtù di imprimere il marchio di un giudizio indipendentemente dal loro significato. Per esempio, ormai la parola “fascista” serve in modo indiscriminato a designare un infame. Sembra che qualcosa di analogo stia accadendo con l’aggettivo “gentiliano” nel campo dell’istruzione. Per designare qualcosa di ignobilmente reazionario basta dire “gentiliano”. L’aggettivo ha assunto un valore di esecrazione indipendente dal suo significato come risulta da alcune polemiche recenti sui quadri orari per il Liceo scientifico in cui riemergerebbe “l’idealismo gentiliano”. Si incrimina una frase dei regolamenti che dice che «il fine specifico dei percorsi dei licei è la theoria», e si lamenta il ritorno a una visione “deduttivistica” della scienza in cui prevale l’approccio teorico su quello sperimentale e laboratoriale.
In realtà Gentile non c’entra nulla. La sua riforma era basata sulla centralità della cultura classica, storico-filosofica e umanistica che aveva un carattere di preminenza su quella scientifica, ma Gentile non si è mai sognato di dire che la scienza va studiata in modo “deduttivista”. Casomai gli idealisti italiani pensavano il contrario: per loro la scienza era un sapere pratico-operativo privo di valore conoscitivo. Ma anche questo vale per Croce e meno assai per Gentile, che cambiò posizione riconoscendo alla scienza un valore conoscitivo. Ma che importa? Quel che conta è aver trovato un aggettivo esecrativo, tanto più efficace in quanto si riferisce a un ministro dell’istruzione fascista.
Oltretutto – diciamolo chiaramente – se Gentile pensava a quel modo aveva ragione da vendere. Vuol dire che sapeva che la scienza moderna deve i suoi successi proprio al fatto di essere “deduttivista” e non meramente manipolativa. «Matematica purissima» definisce Galileo la sua scienza del moto. E il grande fisico-matematico Fourier dopo aver sottolineato che le esperienze forniscono la materia per il progresso scientifico avvertiva che «la teoria dirige tutte le misure e ne assegna la precisione».
Pertanto chi crede o predica che lo studente debba entrare in laboratorio senza un supporto preventivo di teoria e possa apprendere qualcosa “scoprendo” a caso non ha capito nulla di cosa sia la scienza e ne ha un’idea prossima a quella dell’alchimia medioevale. È ottimo che vi siano laboratori nelle scuole ma lo studente deve entrarvi con una preparazione teorica, altrimenti non caverà un ragno dal buco. Lavoisier non ha mostrato che l’acqua è composta da idrogeno e ossigeno pasticciando a caso, ma perché perseguiva una precisa idea circa la struttura della materia.
Il danno degli slogan è dimostrato da un’ottima lettera di Maria Elisa Bergamaschini sulla rivista Emmeciquadro in cui deplora «la deriva costruttivista, supportata dai diversi pedagogismi» che «toglie all’insegnante la responsabilità di “maestro”», «nega nelle pratiche didattiche il carattere peculiare della ricerca scientifica in quanto ricerca del “vero”», «riduce la dimensione sperimentale delle scienze a un “saper fare”, dove il metodo scientifico diventa un insieme di tecniche da applicare», fa «prevalere l’aspetto informativo su quello conoscitivo». Non si potrebbe dire meglio. Ma allora non si vede come si possa andar d’accordo con chi proscrive il riemergere dell’idealismo gentiliano in quanto sintesi di tutte quelle cose che Bergamaschini ritiene giustamente caratteristiche della scienza come impresa di conoscenza. Perciò attenzione a prestar fede a chi usa le parole come mazze ferrate: si rischia di andare nella direzione opposta a quella desiderata.
(Tempi, 12 febbraio 2009)
In realtà Gentile non c’entra nulla. La sua riforma era basata sulla centralità della cultura classica, storico-filosofica e umanistica che aveva un carattere di preminenza su quella scientifica, ma Gentile non si è mai sognato di dire che la scienza va studiata in modo “deduttivista”. Casomai gli idealisti italiani pensavano il contrario: per loro la scienza era un sapere pratico-operativo privo di valore conoscitivo. Ma anche questo vale per Croce e meno assai per Gentile, che cambiò posizione riconoscendo alla scienza un valore conoscitivo. Ma che importa? Quel che conta è aver trovato un aggettivo esecrativo, tanto più efficace in quanto si riferisce a un ministro dell’istruzione fascista.
Oltretutto – diciamolo chiaramente – se Gentile pensava a quel modo aveva ragione da vendere. Vuol dire che sapeva che la scienza moderna deve i suoi successi proprio al fatto di essere “deduttivista” e non meramente manipolativa. «Matematica purissima» definisce Galileo la sua scienza del moto. E il grande fisico-matematico Fourier dopo aver sottolineato che le esperienze forniscono la materia per il progresso scientifico avvertiva che «la teoria dirige tutte le misure e ne assegna la precisione».
Pertanto chi crede o predica che lo studente debba entrare in laboratorio senza un supporto preventivo di teoria e possa apprendere qualcosa “scoprendo” a caso non ha capito nulla di cosa sia la scienza e ne ha un’idea prossima a quella dell’alchimia medioevale. È ottimo che vi siano laboratori nelle scuole ma lo studente deve entrarvi con una preparazione teorica, altrimenti non caverà un ragno dal buco. Lavoisier non ha mostrato che l’acqua è composta da idrogeno e ossigeno pasticciando a caso, ma perché perseguiva una precisa idea circa la struttura della materia.
Il danno degli slogan è dimostrato da un’ottima lettera di Maria Elisa Bergamaschini sulla rivista Emmeciquadro in cui deplora «la deriva costruttivista, supportata dai diversi pedagogismi» che «toglie all’insegnante la responsabilità di “maestro”», «nega nelle pratiche didattiche il carattere peculiare della ricerca scientifica in quanto ricerca del “vero”», «riduce la dimensione sperimentale delle scienze a un “saper fare”, dove il metodo scientifico diventa un insieme di tecniche da applicare», fa «prevalere l’aspetto informativo su quello conoscitivo». Non si potrebbe dire meglio. Ma allora non si vede come si possa andar d’accordo con chi proscrive il riemergere dell’idealismo gentiliano in quanto sintesi di tutte quelle cose che Bergamaschini ritiene giustamente caratteristiche della scienza come impresa di conoscenza. Perciò attenzione a prestar fede a chi usa le parole come mazze ferrate: si rischia di andare nella direzione opposta a quella desiderata.
(Tempi, 12 febbraio 2009)
lunedì 9 febbraio 2009
Caso Eluana Englaro
Lo so che bisognerebbe parlare del caso Englaro. Tutti dicono la propria e proprio questo rende difficile aggiungere una voce superflua in questo frastuono. Superfluo perché posso limitarmi a dire, almeno per ora, che aderisco alla manifestazione promossa da Tempi e da L'Occidentale per domani al Pantheon a Roma.
Dico soltanto che trovo allucinante la lettura di certe dichiarazioni come questa: «"Da esperienze internazionali e per questi tipi di malati posso dire che dal momento della sospensione dell'alimentazione alla morte potrebbero passare anche 12-14 giorni". Lo ha detto il neurologo Carlo Alberto Defanti. Il Parlamento quindi avrebbe tutto il tempo? "No, questo no - afferma Defanti - perché danni irreversibili e irreparabili potrebbero accadere ben prima. Del resto loro lo sanno benissimo"».
Irreversibili e irreparabili per cosa? Ma non era morta da 17 anni? Di che cosa si sta parlando?
Per il resto, trovo questa disputa sulla Costituzione e sulla difesa della democrazia stucchevole e di una strumentalità insopportabile. Il tipico modo con cui l'ubriaco evita di cascare per terra appendendosi a un lampione.
Non ho da aggiungere una sola parola all'articolo di Peppino Caldarola, uomo di sinistra ma soprattutto persona che pensa con la sua testa e non con quella degli altri:
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=327281
Dico soltanto che trovo allucinante la lettura di certe dichiarazioni come questa: «"Da esperienze internazionali e per questi tipi di malati posso dire che dal momento della sospensione dell'alimentazione alla morte potrebbero passare anche 12-14 giorni". Lo ha detto il neurologo Carlo Alberto Defanti. Il Parlamento quindi avrebbe tutto il tempo? "No, questo no - afferma Defanti - perché danni irreversibili e irreparabili potrebbero accadere ben prima. Del resto loro lo sanno benissimo"».
Irreversibili e irreparabili per cosa? Ma non era morta da 17 anni? Di che cosa si sta parlando?
Per il resto, trovo questa disputa sulla Costituzione e sulla difesa della democrazia stucchevole e di una strumentalità insopportabile. Il tipico modo con cui l'ubriaco evita di cascare per terra appendendosi a un lampione.
Non ho da aggiungere una sola parola all'articolo di Peppino Caldarola, uomo di sinistra ma soprattutto persona che pensa con la sua testa e non con quella degli altri:
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=327281
venerdì 6 febbraio 2009
È tutto un caso?
Noi non sappiamo quale sarà la situazione nel momento in cui compariranno queste righe. Ci auguriamo che sia migliore di quel che appare mentre scriviamo. Se così sarà bisognerà tirare un respiro di sollievo perché qualcosa di gravissimo sta avvenendo e non c’è bisogno di fare alcuna dietrologia per dire che al centro del mirino vi sono i rapporti ebraico-cristiani. Con tutta evidenza qualcuno vuole scavare un fossato drammatico tra ebrei e cristiani. E al centro del mirino c’è anche Benedetto XVI.
Sembrava che le parole chiare e inequivocabili pronunciate da Benedetto XVI potessero spazzare via le nubi che si erano addensate attorno alla vicenda del vescovo lefebvriano Williamson che ha negato l’esistenza delle camere a gas e ha ridotto il numero degli ebrei sterminati a 200.000, 300.000 al massimo. Il Papa ha espresso «piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza», ha rivolto un monito non soltanto contro il “negazionismo” ma anche contro il “riduzionismo” ed ha sottolineato che il ritorno dei lefebvriani nel seno della Chiesa non può che avvenire nella cornice del Concilio Vaticano II e quindi del rapporto con l’ebraismo istituito dalla “Nostra Aetate”. Il rabbinato israeliano ha accolto le parole del Papa come un «grande passo avanti», «una dichiarazione molto importante per noi e per il mondo intero».
Questo intervento del Papa ha spazzato via le critiche di chi aveva accusato le proteste di parte ebraica di essere esagerate, irrispettose e ingiuste. Già la Chiesa svizzera aveva esplicitamente detto che tali proteste erano pienamente giustificate e il portavoce della Chiesa tedesca era stato ancor più netto definendole «comprensibilissime». Il Papa non ha mostrato minimamente di sentirsi offeso o colpito da quelle critiche. Egli ha parlato con una chiarezza morale che si è elevata di molte spanne al di sopra di tanti altri interventi avari o equivoci. Non era possibile che la vicenda si chiudesse sulla base delle scuse rivolte dalla fraternità San Pio X al Papa in cui ci si limitava a definire “inopportune” le dichiarazioni di Williamson. Come se si trattasse di una mera questione di opportunità e non di verità… Sono stati usati aggettivi reticenti per criticare quelle dichiarazioni: “infondate”, “immotivate”, ecc. Soltanto il Papa ha saputo usare il linguaggio giusto e ha mirato al cuore della questione.
Ma proprio questo isolamento era singolare e inquietante. Ed ecco che, mentre si sperava che con quelle parole si fosse rimosso un masso dal cammino, un prete di Treviso, tal Floriano Abrahamowicz – che viene definito lefebvriano ma che pare sia sull’orlo dello scisma dalla fraternità di San Pio X – riapre la questione con un’intervista in cui rincara la dose dicendo che delle camere a gas si può dire soltanto che siano servite a “disinfettare”. Non soltanto: il monsignore dice di non volersi addentrare neppure sulla questione del numero delle vittime della Shoah, che potevano anche essere più di 6 milioni, ma dice semplicemente che «il genocidio è un’esagerazione»…
A questo punto, è impossibile considerare quel che sta accadendo come una coincidenza. Siamo di fronte a un’esplosione improvvisa di rigurgiti di fogna che smuovono – come già si constata – un fondo limaccioso di odio che un quarantennio di dialogo aveva lavorato a smaltire. Il Papa si trova solo di fronte a una situazione ingovernabile. Il mondo ebraico viene ripetutamente preso a schiaffi. C’è certamente una persona che può rallegrarsi di tutto questo: il presidente iraniano Ahmadinejad, massimo negazionista vivente.
(Tempi, 29 gennaio 2009)
Sembrava che le parole chiare e inequivocabili pronunciate da Benedetto XVI potessero spazzare via le nubi che si erano addensate attorno alla vicenda del vescovo lefebvriano Williamson che ha negato l’esistenza delle camere a gas e ha ridotto il numero degli ebrei sterminati a 200.000, 300.000 al massimo. Il Papa ha espresso «piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza», ha rivolto un monito non soltanto contro il “negazionismo” ma anche contro il “riduzionismo” ed ha sottolineato che il ritorno dei lefebvriani nel seno della Chiesa non può che avvenire nella cornice del Concilio Vaticano II e quindi del rapporto con l’ebraismo istituito dalla “Nostra Aetate”. Il rabbinato israeliano ha accolto le parole del Papa come un «grande passo avanti», «una dichiarazione molto importante per noi e per il mondo intero».
Questo intervento del Papa ha spazzato via le critiche di chi aveva accusato le proteste di parte ebraica di essere esagerate, irrispettose e ingiuste. Già la Chiesa svizzera aveva esplicitamente detto che tali proteste erano pienamente giustificate e il portavoce della Chiesa tedesca era stato ancor più netto definendole «comprensibilissime». Il Papa non ha mostrato minimamente di sentirsi offeso o colpito da quelle critiche. Egli ha parlato con una chiarezza morale che si è elevata di molte spanne al di sopra di tanti altri interventi avari o equivoci. Non era possibile che la vicenda si chiudesse sulla base delle scuse rivolte dalla fraternità San Pio X al Papa in cui ci si limitava a definire “inopportune” le dichiarazioni di Williamson. Come se si trattasse di una mera questione di opportunità e non di verità… Sono stati usati aggettivi reticenti per criticare quelle dichiarazioni: “infondate”, “immotivate”, ecc. Soltanto il Papa ha saputo usare il linguaggio giusto e ha mirato al cuore della questione.
Ma proprio questo isolamento era singolare e inquietante. Ed ecco che, mentre si sperava che con quelle parole si fosse rimosso un masso dal cammino, un prete di Treviso, tal Floriano Abrahamowicz – che viene definito lefebvriano ma che pare sia sull’orlo dello scisma dalla fraternità di San Pio X – riapre la questione con un’intervista in cui rincara la dose dicendo che delle camere a gas si può dire soltanto che siano servite a “disinfettare”. Non soltanto: il monsignore dice di non volersi addentrare neppure sulla questione del numero delle vittime della Shoah, che potevano anche essere più di 6 milioni, ma dice semplicemente che «il genocidio è un’esagerazione»…
A questo punto, è impossibile considerare quel che sta accadendo come una coincidenza. Siamo di fronte a un’esplosione improvvisa di rigurgiti di fogna che smuovono – come già si constata – un fondo limaccioso di odio che un quarantennio di dialogo aveva lavorato a smaltire. Il Papa si trova solo di fronte a una situazione ingovernabile. Il mondo ebraico viene ripetutamente preso a schiaffi. C’è certamente una persona che può rallegrarsi di tutto questo: il presidente iraniano Ahmadinejad, massimo negazionista vivente.
(Tempi, 29 gennaio 2009)
martedì 3 febbraio 2009
Da leggere
Dalla prima pagina de Il FOGLIO del 2 gennaio 2009, l'editoriale di Giuliano Ferrara "Care Cassandre, forse è ora di riscrivere la storia della guerra in Iraq":
Ce ne avevano messo di tempo la grande stampa e la grande tv per accorgersi che la nuova strategia irachena di Bush e Petraeus si stava rivelando quella giusta. Questo giornalino, che si era permesso di mandare nella provincia di Anbar due inviati a raccontare il surge, la conquista di un livello decente di sicurezza, la nuova tattica militare e la nuova strategia politica contro Al Qaeda e gli estremismi tribali dell’ex partito baathista, alla fine era riuscito a indurre i colossi dell’informazione a raccontare qualcosa di vero e di serio sulla grande storia di inizio secolo, il contrattacco occidentale all’attentato più feroce e temibile della storia dell’umanità, l’11 settembre del 2001. Siamo di nuovo in epoca distratta. Tutti i benpensanti della geopolitica mondiale guardano di sghimbescio, e senza saperne assolutamente nulla, a Guantanamo Bay, dove sorge uno dei tanti e necessari carceri per combattenti nemici che tra qualche mese sarà rimpianto, sempre che riescano davvero a chiuderlo e a sostituirlo con una soluzione giuridico-legale effettivamente migliore e più garantita. Ma le elezioni provinciali in Iraq, la battaglia fatta da donne e uomini in un normale sabato di democrazia per sanare le ferite etniche, settarie, e per rimarginare piaghe politiche pluridecennali di un’odiosa dittatura terroristica, questo interessa meno. L’Iraq non è più la tomba di soldati americani caduti in battaglia, e la profetessa Spinelli non ha molto da dire, parla d’altro; è sempre meno il luogo impossibile dove la furia religiosa e il risentimento portano a incandescenza la vita quotidiana, e il focoso polemista Zucconi non vuole darsene per inteso. Si chiama inoltre democrazia politica, democrazia elettorale dei partiti, il sistema che faticosamente, centimetro dopo centimetro, promette di rimpiazzare questa specie di sharia laica che fu la tirannia di Saddam, dove al posto della legge di Dio c’era la sua legge, la legge del Raiss; ma anche questo piccolo particolare non interessa che pochi addetti ai lavori rimasti al loro posto nel tentativo di raccontare la realtà possibile che gli occhi possono fissare senza perdersi nel labirinto fumoso dell’ideologia, cioè noi e pochi amici. La compassione pelosa dell’occidentale stanco va sempre e solo agli eserciti terroristi chiusi nei loro tunnel a Gaza, e ai bambini che gli fanno da scudo umano, e un certo tipo di osservatore europeo muove il culo dalla sedia solo se debba raccontare la riscossa dei Talebani nel sud dell’Afghanistan. Ma nessuno vuole compassionevolmente e freddamente rifare la storia della guerra in Iraq, delle feroci polemiche che l’accompagnarono e seguirono, del dolore consapevole che portò una classe dirigente responsabile a deciderla e a eseguirla nel nome della nostra sicurezza e libertà e della sicurezza e libertà degli iracheni, degli arabi, degli islamici del grande medio oriente, e magari rifare questo percorso alla luce di come si è provvisoriamente concluso, con l’emancipazione politica di sciiti sunniti e kurdi iracheni; no, meglio aspettare che qualcosa vada storto, meglio sperare che qualche gesto affrettato di Barack Obama rimetta in discussione con un ritiro affannoso i risultati di normalizzazione politica e civile conquistati con la tragica fatica di cinque anni di guerra durissima. Che nel cuore del mondo arabo islamico una spietata e nichilista tirannia sia stata trasformata nel più grande esperimento costituzionale e riformatore dell’intera storia islamica, questo non interessa l’ottusità morale e politica nonché il pressappochismo storico degli occidentali che dannano Bush e si prosternano, moda odiosa e snob, di fronte alla speranza messianica di Obama.
Ce ne avevano messo di tempo la grande stampa e la grande tv per accorgersi che la nuova strategia irachena di Bush e Petraeus si stava rivelando quella giusta. Questo giornalino, che si era permesso di mandare nella provincia di Anbar due inviati a raccontare il surge, la conquista di un livello decente di sicurezza, la nuova tattica militare e la nuova strategia politica contro Al Qaeda e gli estremismi tribali dell’ex partito baathista, alla fine era riuscito a indurre i colossi dell’informazione a raccontare qualcosa di vero e di serio sulla grande storia di inizio secolo, il contrattacco occidentale all’attentato più feroce e temibile della storia dell’umanità, l’11 settembre del 2001. Siamo di nuovo in epoca distratta. Tutti i benpensanti della geopolitica mondiale guardano di sghimbescio, e senza saperne assolutamente nulla, a Guantanamo Bay, dove sorge uno dei tanti e necessari carceri per combattenti nemici che tra qualche mese sarà rimpianto, sempre che riescano davvero a chiuderlo e a sostituirlo con una soluzione giuridico-legale effettivamente migliore e più garantita. Ma le elezioni provinciali in Iraq, la battaglia fatta da donne e uomini in un normale sabato di democrazia per sanare le ferite etniche, settarie, e per rimarginare piaghe politiche pluridecennali di un’odiosa dittatura terroristica, questo interessa meno. L’Iraq non è più la tomba di soldati americani caduti in battaglia, e la profetessa Spinelli non ha molto da dire, parla d’altro; è sempre meno il luogo impossibile dove la furia religiosa e il risentimento portano a incandescenza la vita quotidiana, e il focoso polemista Zucconi non vuole darsene per inteso. Si chiama inoltre democrazia politica, democrazia elettorale dei partiti, il sistema che faticosamente, centimetro dopo centimetro, promette di rimpiazzare questa specie di sharia laica che fu la tirannia di Saddam, dove al posto della legge di Dio c’era la sua legge, la legge del Raiss; ma anche questo piccolo particolare non interessa che pochi addetti ai lavori rimasti al loro posto nel tentativo di raccontare la realtà possibile che gli occhi possono fissare senza perdersi nel labirinto fumoso dell’ideologia, cioè noi e pochi amici. La compassione pelosa dell’occidentale stanco va sempre e solo agli eserciti terroristi chiusi nei loro tunnel a Gaza, e ai bambini che gli fanno da scudo umano, e un certo tipo di osservatore europeo muove il culo dalla sedia solo se debba raccontare la riscossa dei Talebani nel sud dell’Afghanistan. Ma nessuno vuole compassionevolmente e freddamente rifare la storia della guerra in Iraq, delle feroci polemiche che l’accompagnarono e seguirono, del dolore consapevole che portò una classe dirigente responsabile a deciderla e a eseguirla nel nome della nostra sicurezza e libertà e della sicurezza e libertà degli iracheni, degli arabi, degli islamici del grande medio oriente, e magari rifare questo percorso alla luce di come si è provvisoriamente concluso, con l’emancipazione politica di sciiti sunniti e kurdi iracheni; no, meglio aspettare che qualcosa vada storto, meglio sperare che qualche gesto affrettato di Barack Obama rimetta in discussione con un ritiro affannoso i risultati di normalizzazione politica e civile conquistati con la tragica fatica di cinque anni di guerra durissima. Che nel cuore del mondo arabo islamico una spietata e nichilista tirannia sia stata trasformata nel più grande esperimento costituzionale e riformatore dell’intera storia islamica, questo non interessa l’ottusità morale e politica nonché il pressappochismo storico degli occidentali che dannano Bush e si prosternano, moda odiosa e snob, di fronte alla speranza messianica di Obama.
domenica 1 febbraio 2009
Dinamitardi
Per aver criticato la dichiarazione del cardinale Martino di "Gaza come un lager" e aver posto il problema di un maggiore equilibrio del Vaticano nei confronti di Israele, mi sono preso (assieme a Giuliano Ferrara) una scarica di insulti dal condirettore di Libero, del genere "sfacciati prosopopeisti", "stellette e falcette di tolla", con l'ammonimento che «neppure la nobiltà di portare un cognome come Israel» può valere «l'impunità di impartire lezioncine prêt-à-porter alla Chiesa e ai suoi pastori». Poi è venuto sempre su Libero un altro attacco personale concernente le «inutili polemiche» circa il vescovo negazionista Williamson intitolato «Da quali pulpiti si fa la predica a Ratzinger». A parte il fatto che ritengo di avere le carte perfettamente in regola per poter parlare sul tema dei rapporti ebraico-cristiani, ho vanamente spiegato che qui non è in ballo alcun attacco personale a Ratzinger e alcuna predica, bensì un sacrosanto discorso sul negazionismo che non soltanto tante autorità del mondo cattolico hanno perfettamente recepito - a cominciare dalla Chiesa tedesca che ha definito "comprensibilissime" le reazioni di parte ebraica - ma che è stato fatto in primis dal Papa con parole che sono state apprezzate dal rabbinato israeliano e che hanno riaperto la strada al dialogo.
Casomai ponevo il problema che qui c'è qualcuno che vuole litigare per forza e scavare un fossato invalicabile tra ebrei e cattolici.
E tanto questo è vero che è arrivata la terza botta, ancora su Libero. Ignorando del tutto quanto avevo scritto nelle mie due precedenti repliche, Renato Farina propone un articolo dal titolo «L'ossessione degli ebrei di sorvegliare il Papa» richiamato in prima pagina con l'occhiello: "Perché gli ebrei ce l'hanno con il Papa". Tralascio i contenuti, semplicemente forsennati, tutti rivolti a sottolineare ciò che divide, enfatizzando in modo sconsiderato e rissoso episodi negativi e cianciando di un'inesistente ostilità personale nei confronti di Benedetto XVI. Insomma, invece di contribuire a calmare le acque, una bidonata di benzina lanciata nel modo più spiacevole e sconsiderato. Se da parte ebraica c'è qualcuno che preferisce la rottura ad ogni costo, di certo le firme di Libero hanno deciso di schierarsi sul fronte di chi, da parte cattolica, gode al pensiero di questa rottura.
Comunque, se si voleva rendere la vita impossibile a chi questa rottura non vuole, ci si è perfettamente riusciti.
Di certo, con cattolici fanatici e intolleranti come questi non si può neanche andare a prendere un caffé.
(v. anche Informazione Corretta)
Casomai ponevo il problema che qui c'è qualcuno che vuole litigare per forza e scavare un fossato invalicabile tra ebrei e cattolici.
E tanto questo è vero che è arrivata la terza botta, ancora su Libero. Ignorando del tutto quanto avevo scritto nelle mie due precedenti repliche, Renato Farina propone un articolo dal titolo «L'ossessione degli ebrei di sorvegliare il Papa» richiamato in prima pagina con l'occhiello: "Perché gli ebrei ce l'hanno con il Papa". Tralascio i contenuti, semplicemente forsennati, tutti rivolti a sottolineare ciò che divide, enfatizzando in modo sconsiderato e rissoso episodi negativi e cianciando di un'inesistente ostilità personale nei confronti di Benedetto XVI. Insomma, invece di contribuire a calmare le acque, una bidonata di benzina lanciata nel modo più spiacevole e sconsiderato. Se da parte ebraica c'è qualcuno che preferisce la rottura ad ogni costo, di certo le firme di Libero hanno deciso di schierarsi sul fronte di chi, da parte cattolica, gode al pensiero di questa rottura.
Comunque, se si voleva rendere la vita impossibile a chi questa rottura non vuole, ci si è perfettamente riusciti.
Di certo, con cattolici fanatici e intolleranti come questi non si può neanche andare a prendere un caffé.
(v. anche Informazione Corretta)
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