Trionfano le valutazioni "oggettive", mentre il soggetto è rimosso come spazzatura sotto il tappeto
Apprendiamo dal Foglio (6 ottobre) che per gli “stati generali della cultura italiana” del 15 e 16 ottobre Guido Martinotti e Walter Santagata hanno preparato un discorso sul metodo: come misurare la cultura, e perché. Nel libro “La comunicazione della salute” (Cortina), Domenico De Masi sostiene che, nell’odierna società della comunicazione, quest’ultima «esce dal mondo del pressappoco per entrare nell’universo della precisione scientifica». È uno sviluppo che porta a una gestione scientifica della vita dell’uomo e della sua salute, dalla nascita alla morte. Per la verità, lo storico della scienza Alexandre Koyré, che aveva intitolato a quel modo uno dei suoi saggi più celebri, si rivolterebbe nella tomba all’idea che la precisione dalla sfera del mondo fisico possa entrare in quella del mondo della vita.
Misurare, misurare, misurare. Ormai è un’ossessione. Non si tratta più soltanto di misurare spazi, tempi, correnti elettriche, campi magnetici, ma di misurare salute, intelligenza, cultura, sentimenti, insomma ogni “qualità” esistente.
A dire il vero, uno scienziato degno di questo nome non può che inorridire sentendo parlare di misurazione della cultura o dell’intelligenza. È possibile misurare se esiste un’unità di misura dell’ente in questione. Un secolo fa, il grande scienziato Henri Poincaré e il fondatore della microeconomia Léon Walras scambiarono lettere di importanza cruciale sul tema della misurabilità dell’utilità, ovvero di quella funzione che mira a rappresentare quantitativamente le preferenze di un agente economico. Convennero che l’utilità non è misurabile. Si può dire – osservava Poincaré – che una soddisfazione è più grande di un’altra, perché preferisco l’una all’altra, ma non che una soddisfazione è due volte più grande di un’altra. Questo non vuol dire che una grandezza non misurabile sia esclusa da ogni speculazione matematica. Per esempio la temperatura (prima dell’avvento della termodinamica) era una grandezza non misurabile, definita arbitrariamente con la dilatazione del mercurio. E comunque, «se è possibile dire che la soddisfazione che prova un individuo è maggiore in tale circostanza o in tal altra, non è possibile confrontare le soddisfazioni provate da due individui differenti».
La questione dovrebbe essere chiusa. Come disse Poincaré, l’uso della matematica nelle questioni “morali” è lo scandalo della scienza. Le grandezze per cui non può darsi un’unità di misura riconosciuta universalmente possono essere manipolate numericamente ma non sono misurabili. Per esempio, quando attribuisco un voto al compito di uno studente non misuro un bel nulla: non faccio altro che usare numeri per rappresentare in modo sintetico il mio giudizio soggettivo che mai potrà essere “oggettivo” come lo è invece misurare la lunghezza di un tavolo con un metro. Posso al più tentare di essere “equanime”.
Ma è proprio la soggettività che disturba coloro che sono ossessionati dall’idea che tutto ciò che esiste al mondo debba essere ridotto a valutazioni oggettive. La loro ambizione è di ricondurre tutto a numeri indiscutibili. E così, prima ancora di aver dimostrato che ciò sia possibile e persino che abbia senso, danno per scontato che ogni aspetto della vita degli uomini possa essere misurato e “valutato oggettivamente”, per poterlo gestire in modo “scientifico”. Valutazione degli studenti, degli insegnanti e della ricerca scientifica, rappresentazione delle capacità individuali con strutture neuronali, gestione delle aziende, della salute delle persone, delle loro caratteristiche fin dalla nascita: tutto potrà e dovrà essere regolato in base a regole scientifiche altrettanto certe e determinate di quelle che governano il moto degli astri. In questa apoteosi panmisuratoria un posto speciale spetta oggi alla “valutazione oggettiva”, libera dal dannato inquinamento della soggettività e del giudizio “arbitrario”.
Sarebbe lungo spiegare da dove nasca tutto questo. Molto sinteticamente, la problematica originaria nacque nel settore militare e si sviluppò durante la Seconda Guerra Mondiale. Per esempio, si osservò che le capacità di un pilota da combattimento possono essere stimate con parametri numerici, come il rapporto tra il numero degli obbiettivi colpiti rispetto a quelli assegnati. Nelle forze armate britanniche e statunitensi si introdussero sistemi di punteggio (“assessment”) per valutare le “performance.” Queste metodologie furono riprese negli anni cinquanta dallo psicologo americano David McClelland che elaborò una “teoria delle competenze” al cui centro era una metodologia di assessment che presto si diffuse in ambito aziendale. L’obbiettivo era di rendere “scientifica” la valutazione dei dipendenti ai fini dell’assunzione, degli avanzamenti di carriera, dei premi, dei licenziamenti, ecc. Peraltro il modello di McClelland si rivelò subito di difficile uso, soprattutto perché non si riusciva a definire in modo standard il colloquio di valutazione. Ciononostante, attraverso una serie di correzioni il modello si diffuse sempre di più nelle aziende, investendo anche la problematica delle decisioni di gestione al fine di renderne predicibili gli esiti in modo esatto. Una svolta cruciale avvenne con l’avvento dell’informatica che sembrò poter rendere applicabile su grande scala il modello di competenze. Da tempo ormai è una prassi obbligata nelle aziende definire una tipologia di competenze relative ai vari settori di attività e sviluppare processi di valutazione che richiedono ogni anno un impegno massiccio che spesso sottrae ingenti forze alle attività produttive.
Tutto ciò ha prodotto qualcosa che corrisponde alle intenzioni? Da più parti si ammette che non è così. La valutazione aziendale sta diventando sempre più un rito tanto ingombrante quanto inefficiente. La ragione è semplice. La definizione precisa dei vari livelli di competenza si sta rivelando impossibile: basta vedere le tabelle con cui varie aziende definiscono le tipologie per rendersi conto della genericità, vaghezza e arbitrarietà di tali definizioni. La deprecata soggettività è sempre lì, appena nascosta, come la spazzatura sotto il tappeto. Essa si ripropone in modo imbarazzante nelle interpretazioni locali e talora del tutto personali del modello di competenze. Inoltre, sia la tipologia che le interpretazioni sono costruite spesso a tavolino e hanno uno scarso rapporto con la realtà che non soltanto non riescono a imprigionare ma di cui forniscono una parodia.
Però la baracca resiste per motivi ideologici – il mito della misurazione oggettiva – per motivi pratici – è la foglia di fico per giustificare “scientificamente” i licenziamenti – e infine perché si è costituita una corporazione di “valutatori” di professione che difende la propria ragione di esistenza a qualsiasi costo. Non soltanto: l’ideologia delle competenze ha espugnato il fortino della ricerca scientifica e dell’istruzione, proponendosi come sostituto “oggettivo” delle valutazioni di merito delle pubblicazioni scientifiche, e delle valutazioni soggettive dei professori, le cui prestazioni, a loro volta, dovrebbero essere valutate con metodi “esatti”. Per queste ultime il criterio dovrebbe essere quello del giudizio del dirigente scolastico “manager”, sommato con la stima numerica della “customer satisfaction”, ovvero del grado di soddisfazione degli “utenti”: famiglie e studenti. All’obbiezione che con questi criteri la via maestra per cavarsela è promuovere tutti, si fanno orecchie da mercante; così come viene ignorata l’osservazione che la deprecata soggettività è stata rimossa come la spazzatura sotto il tappeto, ovvero trasferita al giudizio soggettivo dell’“utente” e del dirigente.
Le pubblicazioni scientifiche, a loro volta, non dovrebbero più essere valutate dai colleghi mediante giudizi di merito (“peer review”), bensì mediante i metodi bibliometrici “oggettivi”, fondati sul conteggio del numero di citazioni ottenute. Uno dei parametri chiave è l’Impact Factor della rivista su cui è pubblicato l’articolo: l’IF di una rivista nell’anno N è il rapporto tra il numero di citazioni rilevate in quell’anno di articoli pubblicati nei due anni precedenti diviso per il numero totale degli articoli pubblicati negli stessi anni sulla rivista. Si noti che questa metodologia non è stata né ideata né implementata dalla comunità scientifica bensì da una ditta privata l’ISI (Institute of Scientific Information) fondata nel 1960 da Eugene Garfield e oggi parte della Thomson Reuters Co. Questa azienda, con il suo database, si propone esplicitamente di guidare anche la politica degli acquisti librari e, di fatto, stronca tutte le riviste non anglofone e che non soddisfano i criteri da essa imposti i quali, oltretutto, soffocano nella culla l’emergere di nuovi settori della ricerca. Negli ultimi anni si sta manifestando una rivolta della comunità scientifica contro un andazzo che, come ha osservato il presidente della prestigiosa Society for Applied Mathematics, sta distruggendo l’integrità scientifica: difatti, una volta indicato l’obbiettivo da conseguire, le riviste e i singoli conseguono performance spettacolari semplicemente citandosi a vicenda, anche se gli articoli sono mediocri o addirittura copiati: al contenuto non bada nessuno. Come ha osservato un rapporto della International Mathematical Union e dell’Institute of Mathematical Statistics (le massime autorità mondiali in tema di numeri), si sta sviluppando una “cultura nei numeri” con cui «i decision-makers, incapaci di misurare la qualità la sostituiscono con numeri che possono misurare»: è questo il modo specifico con cui la “spazzatura” della soggettività viene nascosta sotto il tappeto. Come osserva il rapporto, il concetto di citazione non è per niente oggettivo: casomai sarebbe necessaria una sociologia della citazione. Inoltre, il rapporto denuncia gli esiti pazzeschi dell’uso di parametri come l’h-indice – il più grande n per cui uno scienziato ha pubblicato n articoli con n citazioni – che equiparano una persona che ha pubblicato 10 lavori con 10 citazioni e una che, oltre a questi, ne ha pubblicati altri 90 con 9 citazioni ciascuno…
Non meno imbarazzante è la valutazione “oggettiva” degli apprendimenti scolastici. Poiché si è stati costretti ad ammettere che la conoscenza non è misurabile – ma pare che Martinotti e Santagata abbiano sfidato anche questa evidenza – si è pensato di distinguere tra “conoscenza” e “competenza”, mutuando quest’ultimo concetto dal contesto aziendale e lasciando credere che esso sia, a differenza del primo, misurabile. Per dar senso a questa operazione occorreva stabilire che la competenza (intesa, grosso modo, come la capacità di applicare autonomamente le nozioni apprese) è molto più importante della conoscenza. Allo scopo, si è sviluppata una campagna accanita contro l’insegnamento tradizionale accusato di nozionismo, di “trasmissività” ex-cathedra, di reprimere la creatività dello studente. Inutile dire che si è trattato e si tratta di un grande imbroglio, perché è facile dimostrare che anche nella pedagogia di un secolo fa (e diciamo pure da Socrate in poi) era chiarissima l’idea che un buon insegnamento è quello che permette all’allievo di camminare con le proprie gambe, mentre l’altro è semplicemente un cattivo insegnamento. Ma tant’è: ormai la dicotomia conoscenze-competenze è stata esasperata in modo folle a discapito del primo termine. Il colmo è che, pur di difendersi dalla situazione insostenibile che si è così prodotta, è invalsa l’abitudine di accusare chi vuole introdurre una visione meno manichea di essere responsabile della dicotomia stessa…
La chiave per rendere oggettiva la valutazione era la tesi secondo cui le competenze sono misurabili mediante i test. Ma questa tesi è insostenibile per il semplice fatto che non esiste una definizione accettata di competenza di uno studente. Anzi, ne sono state prodotte a centinaia, da quelle “deboli” – come la precedente – a quelle “forti” che includono capacità relazionali e persino affettive. Chi si occupa in modo serio di questi problemi ammette che le definizioni “forti” non si prestano ad alcuna misurazione e che, tutt’al più, con quelle “deboli” si può stimare qualcosa con i test. Ma gli altri proseguono imperterriti vendendo fumo e proponendo il modo specifico per nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto: far credere che esista una definizione univoca di competenza e che i test ne costituiscano l’unità di misura, anche se è ovvio che la preparazione dei test viene fatta da soggetti con le loro idee, la loro cultura (o incultura) e le loro idiosincrasie. La “certificazione delle competenze” introdotta di recente nelle scuole italiane è l’ultimo capitolo di questa triste saga dell’arbitrio gabellato come oggettività: per convincersene basta leggere uno qualsiasi di questi schemi di certificazione.
Tutto ciò significa che non si può “valutare”? Nient’affatto. Il più grande ricatto consiste nel far credere che chi critica questi metodi sia contro la valutazione. In un prossimo capitolo potremmo spiegare cosa si può fare di serio. Per ora concludiamo sottolineando che non quattro scalmanati ma autorità scientifiche di primo piano denunciano un andazzo che rischia di lasciare sul terreno la ricerca scientifica, l’istruzione e, in definitiva, la cultura.
Il Foglio, 13 ottobre 2010, p. II.
31 commenti:
E la cosa più preoccupante è che dietro tutta questa ideologia della “valutazione obiettiva”, che denega la componente soggettiva della valutazione, in chi valuta e in chi viene valutato, vada facendosi strada, conseguentemente, l'ideologia di un sapere senza soggetto. Nella scuola, tutto tende ad oggettivarsi nichilisticamente in un formalismo burocratico di stampo staliniano. I test, le competenze, l'aziendalismo, tutto concorre a ratificare l'oblio della soggettività. I sindacati premono affinché tutto si svolga nel modo più obiettivo e democratico, ma, in sostanza, nel modo più formale e più garantista, altro modo di mettere la soggettività sotto il tappeto. Il Ministero dà manforte.
Ora, io mi chiedo – sarò ingenuo, ma non posso fare a meno di chiedermelo e di chiederglielo – come sia possibile che, rispetto a un articolo come questo suo, il Ministero non si senta chiamato in causa, non dia delle risposte. Eppure Lei ha un importante incarico ministeriale. Tante volte ha scritto che la formulazione delle competenze è un'idiozia, eppure questa idiozia continua a imperversare. Il ministro Gelmini, se si può sapere, che le risponde?
Risponderanno rispetto alla questione -urgentissima, grave, ideologica – dell'oblio della soggettività?
Caro prof. Israel concordo totalmente con lei, in campo umano non si dà misurabilita; con un'unica eccezione però: è misurabile la stupidità. Basta contare in quante pubblicazioni, quante volte un "esperto" pretende di averla raggiunta nell'agire umano per averne una precisa quantificazione.
Vivissimi complimenti per il suo illuminante e perseverante lavoro
Claudio Turri
Prima dell'avvento della Scienza Moderna, di Galilei ecc., tante cose che oggi è _pacifico_ che possono essere trattate matematicamente si riteneva che non potessero essere trattate matematicamente (la "filosofia naturale"). Chi oggi dice che "in campo umano non di dà misurabilità" non è molto diverso dai "non capenti" dell'epoca di Galilei (questo indipendentemente da come stanno le cose nel merito, anzi nel merito potrei dare addirittura ragione a Giorgio Israel). Ogni epoca ha i suoi "non capenti" (che ovviamente credono di essere diversi dai "non capenti" del passato), me ne sono fatto una ragione.
Giovanni Lagnese
Faccio notare, comunque, a Giorgio Israel che non è necessario che esista una "definizione" di una grandezza affinché questa sia misurabile. Fatto notare ciò, mi riservo di essere eventualmente d'accordo nel merito. Ma non ne sono sicuro, perché non ho letto interamente il post (e nemmeno, interamente, il commento che ho a mia volta "commentato").
Giovanni Lagnese
No comment.....
Sì comment. Senza nessuna intenzione di offendere, ma non è singolare dover accettare il confronto dialettico (?) con un interlocutore che non ha letto interamente non dico l'articolo, ma neppure il commento sull'articolo? Con questa premessa, la discussione sulla consistenza delle argomentazioni pro/contro la misurazione ha la stessa solidità dialettica della pretesa di misurare un oggetto (la competenza) di cui non è possibile circoscrivere il campo nè i confini. Temo che questo atteggiamento, sempre più comune, dà l'idea di come ci stiamo avvilendo culturalmente e scientificamente nel nostro Paese in questi anni.
Salutoni, Manganaro
Ma fosse soltanto questo... Quando a parlare in un certo modo sono professori universitari... In fin dei conti, se un sociologo si crede in diritto di far lezioni di scienza e di matematica sparandole grosse a cuor leggero, di cosa stupirsi?
Da Avvenire di ieri:
... il focus dell’iniziativa ruota su un tema che a prima vista può apparire sconcertante: "Misurare la cultura" (curato dal sociologo Guido Martinotti e dall’economista Walter Santagata).
Tanto sconcertante che è preventivamente insorto il matematico Giorgio Israel sul "Foglio" di ieri: «Le grandezze per cui non può darsi un’unità di misura
riconosciuta universalmente, possono essere manipolate numericamente, ma non sono misurabili», ecc. […]
Ma allora, che vuol dire misurare la cultura? «Il quadro - risponde Guido Martinotti - mi sembra questo: sino a non molto tempo fa, un decennio o poco più, si riteneva che tra il mondo della cultura e il mondo del misurabile vi fosse un’assoluta incompatibilità; e proprio questo assunto, mescolato a una più generale ostilità verso la misurazione, si ripercuote nelle mancanze ravvisabili nel sistema educativo italiano. Ma occorre anche intendersi su che cosa si intenda per "misura", per non incorrere in luoghi comuni quali quello che vede opposti tra loro il "quantitativo" e il "qualitativo". La moderna statistica, distinguendo tra misure metriche e misure non metriche, ha fatto giustizia di questi stantii pregiudizi».
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La mia risposta:
Leggo con stupore la replica di Guido Martinotti al mio articolo sul Foglio (“La cultura non si misura”). Dice che «la moderna statistica, distinguendo tra misure metriche e misure non metriche, ha fatto giustizia di questi stantii pregiudizi» (ovvero il credere che il qualitativo non sia misurabile). Lasciamo pure da parte il fatto che le misure metriche sono quelle “metrico-decimali” e le non metriche sono quelle del tipo “inch”, “piede”, “gallone” ecc. e che non si vede cosa c’entri la “moderna statistica” con queste distinzioni. Supponiamo pure che Martinotti avesse piuttosto in mente la distinzione tra misurazioni esatte ed stime statistiche. Già, ma proprio questo è il punto. Le stime non sono misure, sono soltanto stime, per l’appunto, che portano con sé un carico di aspetti soggettivi ineliminabili e che vanno accuratamente valutati per non trarre conclusioni superficiali o addirittura aberranti. Citando Poincaré osservavo che nessuno contesta che le qualità possano essere oggetto di speculazioni matematiche, ma queste non producono misure, tantomeno “oggettive”. Il punto da non eludere è questo: fate tutte le stime che volete, ma non pretendete che abbiano carattere di “oggettività” e quindi un valore impersonale. In conclusione, sono ben felice di condividere con un filone di pensiero che va da Poincaré fino alle odierne prese di posizione della International Mathematical Union e dell’Institute of Mathematical Statistics, lo «stantio pregiudizio» che le produzioni scientifiche e culturali non siano misurabili.
Giorgio Israel
Ho letto di sfuggita l'ultimo commento di Antonino Zich... ehm, di Giorgio Israel. Credo che per "misure non metriche" si debba intendere misure a valori in un insieme non necessariamente linearmente (i.e.: totalmente) ordinato. Quanto alle stime statistiche, credo che Zich... ehm, Israel non abbia chiaro che gli "aspetti soggettivi ineliminabili" dipendono esclusivamente dalle informazioni e dalla potenza di calcolo di cui il "soggetto" dispone in un dato momento.
Ad ogni modo, abbandono la "discussione": ho cose più divertenti da fare.
Giovanni Lagnese
Grazie. Molto divertente.
Mi voglio ricollegare al commento di Junco. Ancora più preoccupante a mio avviso è che tramite una valutazione "oggettiva" degli studenti, si vogliano valutare "oggettivamente" gli insegnanti. Il rischio è che, pur di salvarsi, gli insegnanti ripieghino su un addestramento degli studenti finalizzato al superamento dei test. E' forse questa la cultura da trasmettere alle nuove generazioni?
È il "teaching to the test"!... Cfr. un altro articolo postato qui
Gentile Professore
I pilastri per risollevare le sorti della scuola italiana sono due:
1 la formazione iniziale degli insegnanti
2 l'introduzione della meritocrazia
Bisogna dare atto al Ministro Gelmini della determinazione e del coraggio nell'aver affrontato e risolto la prima questione, a cui Lei ha dato un apporto notevole e della determinazione e coraggio con cui sta cercando di risolvere la seconda. Insegno matematica e scienze nella scuola media da 30 anni e non ho remore nel dire che la mia preparazione iniziale era carente sul versante disciplinare e inesistente su quello pedagogico-didattico. Certo, la nuova formazione iniziale degli insegnanti non è la panacea, bisognerà vedere come le Università organizzeranno i corsi di laurea e soprattutto come saranno selezionati i tutor dei tirocinanti i tutor coordinatori e i tutor organizzatori. Veniamo al secondo pilastro e qui entrano in gioco le "valutazioni oggettive" senza le quali mi sembra difficile parlare di merito. Lei parla della "customer satisfaction" ovvero del grado di soddisfazione degli "utenti": famiglie e studenti, mettendo in guardia dal rischio che si aprano le autostrade delle promozioni facili. Concordo pienamente con lei. La soluzione è facile: togliamo la "customer satisfaction" dalla valutazione degli insegnanti. Lasciamo ai Dirigenti "manager" la valutazione amministrativa(assiduità, puntualità, ascendente verso i colleghi e verso gli studenti ecc.)..(che nostalgia di quando i Presidi erano meno manager e più esperti di pedagogia e di didattica)e agli Ispettori Ministeriali, rigorosamente formati, la valutazione didattica.
Cordiali saluti Mignucci Ermete
Come si può far capire a questi scienziati docimologi la differenza che corre tra Scuola e Caserma? Che nella prima si cerca di esercitare l’insegamento della cultura, e nella seconda si esercita l’addestramento alle tecniche e strategie di difesa? In queste ultime può avere un senso “valutare” in modo obbiettivo i risultati ottenuti, e “valutare” nondimeno l’efficacia dei metodi addestrativi.
Ma che senso ha “misurare” le qualità del corpo e dell’anima nella Scuola? Sono queste realtà prive di “dimensioni”, caratteristiche necessarie per potere immaginare una qualsiasi “misura”, prima ancora di definire le unità di misura.
Ma è inutile: l’ obbiettivo di quei signori è di espropriare la Fisica di un procedimento basilare per regalarsi una parvenza di obbiettività tipica ed esclusiva di quella Scienza.
Cose come la cultura e (io aggiungo) l'intelligenza, non solo non sono misurabili, ma è bene che non lo siano.
Quando ero ragazzino io andavano di moda i test sul quoziente d'intelligenza. Molti di tali test furono usati, specialmente negli USA, per dimostrare che i neri erano più stupidi dei bianchi.
Le stime cosiddette "oggettive" delle qualità e delle virtù umane sono roba da distopia.
Cordialmente.
Luigi Sammartino.
L'ossessione della valutazione, un mio intervento: http://www.gildavenezia.it/docs/Archivio/2010/ott2010/ossessione.htm
Alcune opinioni non polemiche sul post di Cartis:
1)Formazione iniziale degli insegnanti: sbaglierò senz’altro io, ma sono sempre meravigliato di fronte a colleghi che dicono come all’inizio della carriera fossero del tutto a digiuno di cognizioni didattiche, e le hanno dovute imparare “sul campo” con impegno e sacrificio, e quindi ben vengano tutor di tutti i tipi per introdurre l’aspirante docente ai segreti della didattica.
Non posso fare a meno di chieder loro: ma dove sei stato prima di diventare insegnante? Non eri a scuola? Non hai passato quasi vent’anni e quotidianamente di fronte a persone che facevano il lavoro che devi fare tu ora? E non hai imparato NULLA dei loro metodi? Non hai già avuto dei “tutor”?
Non hai incontrato insegnanti bravi, mediocri, infami e non ti sei mai accorto in che consisteva la differenza? Non ti sei fatta un’ idea di quali sono le caratteristiche che deve avere un bravo insegnante?
Mi si risponde sempre: ma un conto è stare dietro ai banchi un altro dietro la cattedra.
Certamente, e infatti si può sempre migliorare grazie all’esperienza, ma sostenere che si è del tutto a digiuno quando si esce dall’università mi sembra davvero esagerato.
E non posso fare a meno di notare come vi siano giovani insegnanti già bravi appena laureati e altri che rimangono del tutto insufficienti fino alla pensione, perché la bravura di un insegnante non solo non è misurabile, ma forse non è nemmeno trasmissibile se chi vuol insegnare non si pone in maniera assiduamente critica di fronte al proprio lavoro.
2)Coi presidi devo essere stato sfortunato, pur avendone cambiati diversi e anche bravi, non ne ho conosciuto uno che fosse in grado di valutare autonomamente un insegnante: quel che ne sapevano era quel che raccoglievano dai pareri dei colleghi, dei bidelli, degli studenti, delle famiglie.
Caro prof. Israel, è con grande soddisfazione che ho letto la sua riflessione sulla presunta misurabilità oggettiva del sapere. Le sue analisi, così importanti e documentate,sono un balsamo per quanti, come me, si battono contro le mode dominanti nel sistema di istruzione e non solo. Nel mio piccolo forum in rete il 19 luglio 2009 avevo scritto la seguente frase: "Dov'è finita la soggettività? La soggettività non è un 'difetto' come vorrebbe la nuova filosofia metrico-decimale. La soggettività è la vera qualità del rapporto educativo, a cui si collega un alto senso della responsabilità etica e professionale. Vittoria Menga - http://educatoriinrete.forumfree.net
Un intero numero di una rivista sull'uso e l'abuso degli indici bibliometrici:
http://www.int-res.com/abstracts/esep/v8/n1/
Il mio postdoctoral advisor in Israele mi diceva scherzando: "Non ho mai avuto il tempo di leggere tutti i miei articoli!" e al di la' della battuta, mi pare che oggigiorno sia impossibile leggere tutto cio' che viene pubblicato e, francamente, non tutto merita di essere letto. La qualita' generale degli articoli ai quali sono solitamente chiamato a fare una review e' penosa: al piu' ne faccio passare uno su dieci. Ma sono sicuro che tanto prima o poi troveranno la loro strada in qualche open access journal indiano. Ma c'e' davvero bisogno di pubblicare cosi' tanto? Il fatto che l'accesso alla cultura sia diventato piu' semplice in molti paesi davvero ci autorizza a pubblicare qualunque cosa? Sono convinto che quegli stessi ricercatori potrebbero sicuramente fare qualche interessante scoperta se non fossero pressati dalla necessita' di pubblicare.
Si prenda per esempio questo sito
http://retractionwatch.wordpress.com/
per capire come tanta ricerca, specialmente in biologia dove gli h-index e impact factors sono piu' alti di quelli in altre scienze, sia fatta in maniera approssimativa, espesse volte in malafede.
In una risposta ad un suo precedente post, me la prendevo con le case editrici e predicevo un "bubble burst" del sistema scientifico se l'andazzo non fosse cambiato: ne sono ancora convinto.
Egregio Professore, qualche provocatore con le idee confuse si infila talvolta fra i commenti, con poco costrutto, pare. La volgarità eventualmente presente nel commento è spia certa del proposito; a volte lo è pure l'incomprensibilità (spero che i miei pleonastici commenti siano comprensibili).
Ben più grama questione pongono - e fuori dal ristretto ambito di un blog, per quanto autorevole - professori universitari, che si avventurano in territori a loro poco familiari con l'ardita e categorica baldanza degli ignoranti genetici (disculturalici: come accudirli?). Non so se si tratti di solo dogmatismo pressapochistico e caricaturalscientifico. Mi resta sempre il dubbio che costoro siano meramente in preda a quella frenesia arruffona e pur abbastanza ordinaria, che già aveva inebriato gli alchimisti in secoli passati oppure i partecipanti alla corsa del Klondike allorché credevano di captare al fiuto la prossimità della meta. E mi resta pure un dubbio su quale delle due evenienze sia peggiore.
Ho ascoltato ieri mattina per caso, andando a scuola in macchina, un noto consulente del ministro Gelmini su Radio 24 alla trasmissione di Oscar Giannino. Ne sono rimasto agghiacciato. Se questa persona è realmente ascoltata come si dice si prefigurano tempi spaventosi per la scuola italiana: altro che le tre I.
Insegnanti come facilitatori che girano tra i tavoli dove gli alunni lavorano in gruppo; e, si badi, non come una delle fasi dell'attività scolastica, ma come l'unica (a parte le questioni di principio c'è da chiedersi se il personaggio in questione sia mai entrato in un'aula scolastica). Enti che predispongono test sulla cui base vengono misurate le competenze degli alunnni, sicché in base ai relativi esiti siano valutati gli insegnanti e i mezzi di comunicazione possano indicare alle famiglie le scuole "migliori" (migliori, naturalmente, secondo il principio dell'assoluta conformità al pensiero dell'insindacabile "autorità" che predispone i test).
A me sembra che neanche Orwell nei suoi peggiori incubi avrebbe immaginato tanto.
Tralasciando altre discutibili affermazioni del personaggio in questione, non soltanto sulla scuola, presentate come verità assolute ed evidenti.
Di chi si tratta? A giudicare dalla sintesi potrebbe trattarsi Roger Abravanel. In tal caso non mi sorprendo, ma condivido in toto il giudizio
Complimenti professore, ha fatto centro al primo colpo!
Ci voleva poco... Conosco bene le sue tesi. Quello che deve preoccupare è che c'è una lobby attorno a lui che porta avanti queste tesi, a cominciare dall'ex-ministro Berlinguer, con potenti agganci da ogni parte.
Dear Professor Israel:
I am writing to correct an error. In my Italian idiolect Lagnese means bugiardo, fingardo. Whereas Lagnoso simply means impertinente, noioso. I suspect the error is in the first spelling of the word. But I may be wrong.
Angus Walters
Questo signor Lagnese (o lagnoso), mi è parso di capire, è un paladino delle misurazioni oggettive del non misurabile. Se poi costui è anche docente universitario, siamo all'assurdo.
A complemento delle mie ignoranze, chi è questo signor Roger Abravanel? Quali altri danni ha fatto? Grazie. Scusate, ma se era russo forse sapevo chi era...
Chiedo ancora, scusi, professore, se sono insistente, chi sarebbe questo tale Roger Abravanel, e quali danni ha provocato. Grazie.
È un ex consulente McKinsey, autore del libro Meritocrazia, vedi anche il suo sito omonimo. Scrive sul Corriere della Sera. È consulente del Ministero dell'Istruzione. Autore del programma PMQ (Merito e Qualità) per la valutazione degli insegnanti che viene implementato in questo periodo in modo sperimentale ma assai intensivo. Non mi pare un problema al passato ma al presente e al futuro, purtroppo.
Grazie mille, gentilissimo.
Una cosa non capisco. Perché molti umanisti spingono verso la misurabilità di ogni scibile? Se arrivassimo a scoprire, per assurdo, che tutto è misurabile e tutto è predeterminato dai neuroni, Augias & co. O chiunque si occupi delle "humanitas", non resterebbe altro che suicidarsi... O no? Scusate la rozzezza del ragionamento.
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