Sul discorso di Ratisbona
Intervento a “I grandi discorsi di Benedetto XVI”
Palazzo Apostolico Lateranense
20 gennaio 2011
Posto che, indubbiamente, il tema del discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona aveva come centro il tema della convivenza - o direi piuttosto della necessaria convivenza e coerenza - tra religione e ragione nella società contemporanea, a me sembra che la tesi che esso suggerisce sia declinata in due sensi strettamente legati tra di loro.
Il primo è che la diffusione della fede mediante la violenza, ovvero in forme coercitive, sia contro la ragione e in contrasto con la natura di Dio e dell’anima. O potremmo dire, per sottolineare la coerenza di cui si diceva, contro la natura di Dio e dell’anima in quanto contro la ragione e viceversa.
Il secondo è che l’uso della ragione non è antitetico alla fede religiosa, non la contraddice o la confuta, in quanto per avere fede religiosa non bisogna uscire dal pensiero razionale; e, viceversa, l’adesione dal pensiero razionale non preclude la fede religiosa.
Ne derivano conseguenze teoriche e pratiche che sono strettamente interconnesse.
Il discorso di Ratisbona ha al centro una una serie di considerazioni generali sul problema della trascendenza divina e sui rischi connessi all’estremizzazione di questa trascendenza che pure è una caratteristica fondante della religiosità monoteista classica. Non c’è dubbio che - come ha osservato il grande studioso della Kabbalah ebraica Gershom Scholem - l’ingresso delle religioni monoteiste ha significato una rottura dello scenario monista dell’età mitica in cui la natura era il teatro della relazione tra l’uomo e gli dèi, creando un abisso tra Dio, Essere infinito e trascendente e l’Uomo, creatura finita. È altresì indubbio che, in varie forme, il pensiero religioso ha tentato di colmare questo abisso, non soltanto con la voce della preghiera, ma anche cercando di ricostruire il legame tra il pensiero umano e la volontà divina, non accontentandosi di uno scenario dominato da una volontà divina assoluta e incomprensibile dalla ragione umana, di cui l’uomo potrebbe soltanto contemplare passivamente il creato. Ove prevalesse una simile visione - e cioè la separazione venisse dichiarata assoluta, l’abisso insuperabile in qualsiasi modo e la volontà divina assolutamente arbitraria e priva di qualsiasi contatto con la razionalità umana - ne deriverebbero tre conseguenze:
1) La prima, che ricordo con le parole stesse del discorso di Ratisbona, è che «Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria». Sarebbe un «Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene». Persino la morale diverrebbe un mistero e di fatto ne verrebbe distrutto qualsiasi valore normativo e pratico per l’uomo.
2) La seconda conseguenza riguarda i testi rivelati. Essi non possono essere concepiti come oggetto di studio esegetico, di comprensione umana, in quanto la ragione umana non ha nulla da dire circa la parola divina. I testi sacri sono scritti direttamente con il “dito di Dio”, sono una lettera testuale “conferita” piuttosto che un messaggio “rivelato” da Dio agli uomini, e che essi hanno scritto ed esposto con parole umane e pertanto contenenti una “mediazione”. Il testo sacro è “la” parola divina. Esso va accolto nella sua assoluta letteralità, senza alcuna possibilità di interpretazione, ovvero senza la mediazione della ragione umana. L’esegesi in questa ottica semplicemente non ha luogo di esistere, è impensabile, se non addirittura dissacrante. Il testo sacro si legge e si apprende, non si commenta e non si interpreta.
3) La terza conseguenza è che una scienza come conoscenza non è possibile. Come potremmo difatti pretendere di poter ricavare delle leggi naturali - così come le ha concepite la scienza moderna, ovvero delle leggi che governano l’ordine del cosmo - se Dio avesse riservato a sé l’arbitrio totale di mutare questo ordine a suo piacimento, in qualsiasi modo e in qualsiasi momento? La scienza moderna è basata sulla convinzione nella permanenza dell’ordine naturale e su quella che un grande matematico, Henri Poincaré, ha chiamato la convinzione nella “permanenza” delle leggi del pensiero. Se queste convinzioni non avessero alcun fondamento una scienza sarebbe semplicemente impossibile. Sarebbe possibile soltanto un sapere pratico, contingente, poggiato sulla sabbia e che potrebbe crollare in qualsiasi momento. La scienza sarebbe interessante soltanto in quanto portatrice di conseguenze utili, di realizzazioni tecniche.
È ben noto come il discorso di Ratisbona abbia sollevato un’ondata di violentissime polemiche. Esso è stato visto come una critica della religione musulmana in quanto dominata da una visione di trascendentalismo assoluto del tipo sopra descritto, con tutte le conseguenze appena illustrate. In realtà, la critica era molto più ampia e riguardava anche tendenze sviluppatesi nel mondo cristiano e tendenti a rompere il rapporto con lo spirito greco, tendenze che portavano all’idea che di Dio possiamo conoscere soltanto la “voluntas ordinata” e non possiamo esplorare l’imperscrutabile ragione. Pertanto, il discorso di Ratisbona va visto piuttosto come un’esortazione a valorizzare al massimo quella sintesi tra spirito greco e lo spirito delle religioni monoteistiche, che è apparso e appare soprattutto oggi offuscato, sia per responsabilità dell’integralismo religioso, sia del positivismo.
Se la religione classica tutto sommato propendeva per una visione contemplativa - è indubbio che l’ebraismo biblico ha un atteggiamento tutto sommato passivo nei confronti del dispiegarsi della volontà divina di cui si limita ad ammirare le straordinarie creazioni - l’ebraismo medioevale, soprattutto con il suo massimo rappresentante, Mosé Maimonide, mostra fino a qual punto è giunta la sintesi tra pensiero greco e religiosità monoteista. È giunta al punto che Maimonide afferma che la chiave del racconto della Genesi - il cosiddetto Ma’aseh Bereshit - è stata persa dalla tradizione, ma che questa chiave ci viene restituita dalla Fisica di Aristotele. Logica e Fisica - afferma con estrema audacia Maimonide - permettono di decrittare la Bibbia e di scoprire che la Genesi e Aristotele dicono la stessa cosa. Allo stesso modo, il Racconto del Carro - Ma’aseh Merkabà - ovvero la visione mistica del carro divino da parte del profeta Ezechiele, è in perfetta armonia con la Metafisica di Aristotele. Questo razionalismo è talmente forte che, anche nella reazione antiaristotelica della mistica kabbalistica esso non viene abbandonato e diventa una chiave essenziale dell’esegesi biblica. Anzi, la rinuncia all’esegesi viene condannata. «Coloro che si occupano del senso ovvio della Torah dormono di un sonno profondo», ammonisce Moshe Hayim Luzzatto e lo Zohar definisce questo senso ovvio la mera «paglia» della Torah.
Del resto è noto come Maimonide, San Tommaso d’Aquino e Averroé costituiscano la triade razionalista della teologia delle tre grandi religioni monoteiste, ispirata a uno stretto rapporto con il razionalismo greco. E proprio ad Averroé dobbiamo un’affermazione relativa al nostro terzo punto, e cioè che «niente prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo. L’ordine del cosmo può essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina […] e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la conoscenza». Sono parole scritte in risposta all’Autodistruzione dei filosofi di Al Ghazali che, al contrario, sosteneva che «il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non obbedisce ad alcuna norma. […] la natura è al servizio dell’Onnipotente: essa non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. […] le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede».
È innegabile che il mondo islamico non abbia scelto Averroé contro Ghazali, bensì abbia scelto Ghazali contro Averroé, la cui figura non è mai stata rivalutata. È proprio nella condanna mai revocata di Averroé che risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della cultura greca. Questo è un fatto indiscutibile e ben noto agli storici, e non può essere fonte di offesa rilevarlo. Al contrario, rilevarlo, anche indicando in modo pacifico e amichevole i rischi che comportano determinate scelte, è un contributo alla crescita di tutti, nell’ottica di una concezione del dialogo che mi pare caratteristica del pensiero di Benedetto XVI, ovvero tanto aperto quanto non sincretistico. È una concezione che richiama una bella frase del filosofo Emmanuel Levinas: «Non si tratta di pensare insieme, io e l’altro, ma di essere in faccia».
La chiarezza e l’onestà intellettuale induce altresì a non nascondere che la crescita della rivoluzione scientifica è stata contrassegnata da grandi conflitti con le autorità religiose, che spesso ebbero risvolti anche drammatici. Non vi fu soltanto il caso Galileo, ma anche le minacce che indussero Descartes a non pubblicare Le Monde, la persecuzione subita in ambito protestante da Copernico, le difficoltà che indussero Newton a nascondere il suo monoteismo antitrinitario, la condanna di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam, e molte altre analoghe vicende. Tuttavia, non è certamente sminuirne la gravità affermare che quasi tutte queste vicende sono state drammatiche in quanto hanno rappresentato una manifestazione di intolleranza, ma non hanno mai messo in discussione l’idea della coerenza tra fede e ragione, né hanno arrestato in cammino della scienza e della filosofia. Si confrontavano tra di loro modi differenti di vedere il rapporto tra religione e ragione, anche diverse metodolologie scientifiche o di uso della ragione. Non fu deplorevole che a Galileo fosse stato opposto un diverso punto di vista, quanto che la contesa fosse stata risolta con la forza. D’altra parte, come ha osservato lo storico della scienza, Amos Funkenstein, tutti i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica, da Galileo a Descartes, da Keplero a Newton, erano dei “teologi laici”, per cui le questioni in gioco gravitavano sempre attorno al rapporto tra scienza e teologia.
Che la rivoluzione scientifica e gli sviluppi filosofici ad essa connessi siano stati un grande e ulteriore passo sulla via della sintesi tra pensiero religioso monoteista e pensiero greco si vede dal fatto che il primo ha iniettato nel secondo l’idea dell’infinito che era rimasta preclusa o quantomeno confinata al pensiero greco, il quale era molto diffidente nei suoi confronti. Questo è stato visto molto bene da un grande filosofo contemporaneo, Edmund Husserl, che definisce la grande impresa della conoscenza europea che prende forma dal Cinquecento, come una scienza onnicomprensiva, una «scienza della totalità dell’essere» che «persegue nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente, nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso infinito ma razionale di ricerca». Husserl aggiunge significativamente che tra i tanti problemi che si pone questa filosofia razionale v’è quello di Dio «che contiene evidentemente il problema della ragione “assoluta” in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del “senso” del mondo.». Così come sono problemi razionali - egli aggiunge - «il problema dell’immortalità” e il «problema della libertà». E non è certamente un caso che sia stato Husserl a criticare con tanta forza analitica la “decapitazione” della ragione compiuta dal positivismo, la razionalità “ridotta” da esso proposta, con un linguaggio che contiene molte assonanze con quello di Ratisbona e di altri discorsi di Benedetto XVI. Non è un caso, anche perché pochi filosofi come lui hanno percepito il valore del concetto di ragione che si è espresso nella civiltà europea e pochi come lui hanno amaramente ammonito contro il rischio che ne venisse smarrito il senso, un rischio che oggi è di fronte a noi come un fatto reale.
Ma qui è necessario sviluppare alcune considerazioni sul terzo punto, quello che riguarda il rapporto tra ragione scientifica e religione. L’affermazione teologica più forte della coerenza tra religione e scienza sta nella tesi di Galileo che il mondo è matematico, anzi che il mondo è stato strutturato da Dio in forma matematica, per cui la scoperta della leggi, espresse in forma matematica, che governano la natura, comporrebbe l’armonia tra razionalità oggettiva posta da Dio a base della creazione e la nostra ragione soggettiva. Questa formula galileiana è affascinante ma ritengo che sia elusiva e anzi che da essa derivino molte delle difficoltà che hanno condotto all’attuale riduzione positivistica della ragione. Difatti, come dimostra lo stesso sviluppo storico della scienza, l’ipotesi che il mondo è matematico è soltanto un’ipotesi di un genere molto particolare, in quanto assolutamente inverificabile. Essa è in realtà un’ipotesi metafisica che per sorreggersi ha bisogno di verifiche continue, ma mai definitive: per dirla in modo semplice, essa può nutrirsi soltanto del suo successo, mai può aspirare a una verifica definitiva. Il corso degli eventi ha piuttosto dimostrato che in tanti ambiti essa appare smentita o quantomeno appare molto dubbia.
La conseguenza più pericolosa di tale ipotesi è di aver generato l’idea che non soltanto il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia matematico. Come si dice nel discorso di Ratisbona, è ormai comune ritenere che «soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità», per cui «ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio, e così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi al canone della scientificità». Ma questo sviluppo è profondamente negativo non soltanto per la scienza, in quanto l’efficacia del matematismo nelle scienze umane è lungi dall’essere evidente. Esso è anche fonte di riduzione del razionalismo al riduzionismo positivistico e quindi è la fonte diretta della «limitazione autodecretata della ragione». In realtà qui il matematismo è soltanto rappresentativo di una tendenza alla dittatura del riduzionismo. Quando si tende - come accade oggi - a cancellare ogni forma di conoscenza che non sia segnata dal prefisso “neuro” - e si parla di neuro-economia, di neuro-etica, di neuro-filosofia e persino di neuro-teologia - è facile intendere le conseguenze. Chi ingenuamente vede una conferma della religione nella pretesa scoperta di strutture neuronali che spiegherebbero l’emergere nel cervello del sentimento di trascendenza e quindi - come si dice - mostrerebbero “l’esistenza di Dio nel cervello”, non si avvede che mettere Dio alla mercé di una conformazione cerebrale - che esiste in alcuni individui e in altri no, che può degenerare nel processo evolutivo o essere soppressa con interventi umani - significa semplicemente distruggerlo.
Non ci difenderemo validamente dal relativismo se non affermando che la razionalità che si esprime nella soggettività umana è irriducibile ai canoni ristretti dell’oggettivismo scientifico di tipo fisico-matematico o dello scientismo riduzionista e materialista. “Razionalità ampia” significa ricercare un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio.
Queste sono alcune delle riflessioni che mi ha suggerito la rilettura del discorso di Ratisbona.
Giorgio Israel