Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una formazione scolastica “per competenze” sono due: (a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale; (b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.
In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che si possa apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.
Mi è occorso più volte, in dibattiti e conferenze, di leggere alcuni brani per descrivere la didattica per competenze, suscitando un entusiastico consenso da parte dei sostenitori di tale didattica, seguito dall’imbarazzo nell’apprendere che quei brani erano tratti dal Regio Decreto del 1913 istitutivo dei Ginnasi-Licei Moderni. È un peccato veniale introdurre una nuova terminologia per richiamare l’esigenza di insegnare bene. Tuttavia, l’introduzione di definizioni superflue e violare il principio del rasoio di Occam non è mai un fatto positivo.
In realtà, anche l’esigenza (b) è inconsistente, in quanto – come vedremo – la pretesa di misurare le competenze è destituita di qualsiasi serio fondamento.
Ciò non vuol dire che la tematica della didattica per competenze sia priva di motivazioni, che però sono di altra natura. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obbiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che da tempo si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento. Al contrario, la teoria delle competenze si è sviluppata nel primo ambito quando nessuno aveva mai pensato di implementarla nel secondo. Una ricostruzione storica accurata di questi processi – che non è qui possibile – potrebbe mostrarlo in modo rigoroso.
Mi limiterò a ricordare che, dopo alcune prove nel settore militare durante la Seconda guerra mondiale, il concetto di competenza fu introdotto nell’ambito aziendale dallo psicologo statunitense David McClelland. Dopo una prima elaborazione teorica, McClelland implementò il modello delle competenze nelle organizzazioni aziendali attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963. I “McClelland-McBer competency models” miravano a replicare i discreti risultati ottenuti in ambito militare. Tuttavia, mentre una qualche “misurazione” delle capacità di un pilota di aviazione poteva essere fatta in modo accettabile, con parametri come il numero di bersagli colpiti rispetto agli obbiettivi prefissati, la misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e la sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test) si rivelò subito molto problematica e ancor più la gestione del colloquio di valutazione. Furono così fatti numerosi tentativi di correzione – in particolare quando la McBer venne acquistata dalla Hay – attraverso lo sviluppo della “Theory of Needs”.
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti. La definizione della tipologia delle competenze si è rivelata estremamente problematica: anche nel caso di importanti grandi aziende si constata che la tipologia di competenze di un dirigente è quasi uguale a quella di un dipendente del più basso livello. La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà.
Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale fa acqua da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico. Il caso più plateale è quello del modello di insegnamento “efficace” introdotto in Inghilterra nel 2000 e commissionato direttamente alla Hay-McBer. Il modello è strutturato in 16 caratteristiche organizzate in cinque gruppi, riflette in pieno le tecniche e l’ideologia della HayMcBer ed è evidente quanto si basi su definizioni vaghe, generiche e arbitrarie:
Professionalismo: Rispetto degli altri - Capacità di proporre sfide e sostenerle - Fiducia in sé - Capacità di ispirare fiducia
Capacità intellettuali: Pensiero analitico - Pensiero concettuale
Capacità di programmare e creare aspettative: Capacità di guidare il miglioramento - Spirito d’iniziativa - Capacità di ricercare le informazioni necessarie
Capacità di guida: Capacità di gestire gli alunni - Passione nel predisporre l’apprendimento - Flessibilità - Capacità di responsabilizzare gli altri
Capacità di entrare in relazione con gli altri: Comprensione degli altri - Capacità di persuadere e influenzare - Capacità di lavorare in squadra.
Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che nessuna di queste “competenze è misurabile. Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta ma è intrisa di fattori soggettivi. Nella fattispecie essi sono rappresentati dai test che sono lo strumento principe di queste valutazioni quantitative. I test sono preparati da persone che hanno opinioni soggettive – spesso assai opinabili e divergenti tra loro – sui criteri di valutazione delle competenze. Pertanto, credere che il test rappresenti una forma di valutazione oggettiva è un modo inelegante di nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto. Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile al livello della valutazione di “competenze” minime pur restando intriso di elementi soggettivi.
È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici. Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato (si pensi ai test d’ingresso nelle università o ai test scolastici in cui si valutano capacità di base di ortografia, grammatica e calcolo). Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali (come nel modello precedente) nessuna stima quantitativa è possibile. Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostina a parlare di misurabilità delle competenze, addirittura di “competenze della vita”.
Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano un intralcio. Le competenze chiave enunciate dal Parlamento Europeo corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative. Questo andazzo, oltretutto gestito da una burocrazia priva di basi culturali, dovrebbe preoccupare in quanto può provocare un grave declino dei sistemi dell’istruzione.
Chi ha a cuore il futuro di questi sistemi dovrebbe battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratiche e di mercato del lavoro, senza nulla togliere a queste esigenze.
Spesso ci si chiede se la didattica delle competenze sia “di destra” o “di sinistra”. È indubbio che fino a tempi recenti le visioni ispirate a un approccio tecnocratico erano duramente avversate dalla cultura progressista. Questo veniva fatto in nome di una tradizione che aveva come massimo rappresentante Antonio Gramsci e la sua nota visione della scuola, dello studio come sacrificio e acquisizione di capacità di lavoro e di concentrazione, del ruolo del latino nella formazione mentale e culturale, e così via. A un certo momento, questo riferimento è stato abbandonato di colpo a favore di un costruttivismo pedagogico di origine anglossassone, nonché di altre teorie, come quelle di Piaget o, più di recente, di Edgar Morin. Appaiono ormai estranei alla sinistra i riferimenti di un pedagogista comunista, pur così aperto all’innovazione come Lucio Lombardo Radice: egli difendeva polemicamente l’esigenza del rigore nello studio contro ogni visione ludica della scuola e l’esigenza della concentrazione personale contro le sperimentazioni empiriche di “di gruppo”. Oggi, il crollo di capacità di lettura e concentrazione dei nostri ragazzi dà clamorosamente ragione a tali ammonimenti. Per quanto il costruttivismo postmoderno e una antica tradizione di costruttivismo sociale possano trovare punti di contatto e consonanze, è singolare la leggerezza con cui quelle posizioni sono state gettate alle ortiche in favore dell’adesione acritica a visioni aziendaliste ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale a esigenze di carattere produttivo; in parole povere, che concepiscono la scuola come un luogo di formazione di addetti per le aziende, e non di cittadini che sulla cultura fondano la loro libertà.
Un altro fenomeno che viene troppo spesso accettato con acritica leggerezza è la formazione di un ceto di “esperti scolastici”, singolari figure di persone la cui unica “competenza” è l’organizzazione scolastica, indipendentemente dalla loro competenza specifica in una qualsiasi tematica dell’insegnamento e persino dall’assenza di qualsiasi esperienza di insegnamento. La tematica che abbiamo riassunto sotto la voce “organizzazione scolastica” comprende temi che hanno a che fare con le modalità dell’insegnamento (strutturazione in classi o in “open space”, introduzione delle tecnologie nelle scuole, orari, tematiche della disabilità e dei disturbi di apprendimento, ecc.) e, in particolare, con quelle della valutazione, sia degli alunni che degli insegnanti e degli istituti scolastici. Va notato, al riguardo, che l’idea che si possa intervenire sulle questioni dell’istruzione in modo completamente astratto e avulso dalle questioni di contenuto dell’insegnamento, è semplicemente aberrante e costituisce una delle cause principali del degrado dell’istruzione, sempre più consegnata allo strapotere di personaggi che impongono metodologie derivanti da presupposti ideologici e che si traducono in una miriade di adempimenti burocratici o di verifiche puramente formali. Senza contare che gli “esperti scolastici” sono considerati, non si sa perché, come al di sopra di qualsiasi valutazione, come se fossero depositari di una metascienza sottratta a qualsiasi verifica.
Tra i molti assiomi ideologici che questo ceto diffonde, e che impone come una verità di fede, sta quello di cui abbiamo già parlato in tema di competenze e che si può riassumere nello slogan generale della misurabilità delle qualità. Trattasi di un esempio caratteristico, in quanto chiunque abbia una sufficiente preparazione scientifica sa perfettamente che un conto è una stima e altro conto una misurazione e che la possibilità di misurare implica una serie di presupposti che soli permettono di parlare di “oggettività”. Quando, invece, ci si trova di fronte a entità da misurare la cui definizione precisa è impossibile, neppure in termini operativi, e che si sfaccettano in una serie di aspetti ognuno dei quali è difficilmente afferrabile, e oltretutto sono soggetti a variabilità sociale e storica, parlare di misurazione è una sciocchezza così plateale che può permettersela soltanto chi goda di totale impunità sul terreno della valutazione.
È davvero sorprendente la schizofrenia con cui molti soggetti che si occupano di scuola da un lato lamentano una progressiva distruzione della cultura – che indubbiamente si sta verificando – e, dall’altro, non si oppongono o addirittura alimentano uno dei fattori principali di tale distruzione: la dittatura degli “esperti”.
(intervento pubblicato nella rivista "Scuola democratica")