martedì 22 novembre 2011

Il governo Monti ricomincia col "testing": dalla padella nella brace

 "L'Europa lo vuole" 
Si risente di nuovo la canzone che ci portò alla laurea 3+2, ovvero al disastro dell'università italiana. E stavolta è vero che l'eurocrazia - non gli europei, l'eurocrazia -, più potente e arrogante che mai, lo vuole davvero, poiché ha già chiesto imperiosamente al governo Monti di valutare gli insegnanti in base ai rendimenti dei loro alunni stimati mediante i test Invalsi. E naturalmente un governo di tecnocrati come questo lo farà, eccome, con il consenso trasversale di una politica e di una democrazia boccheggianti. Che questo abbia qualcosa a che fare con il risanamento dell'economia italiana possono crederlo soltanto gli ingenui o i frequentatori degli inginocchiatoi di fronte alla detta eurocrazia. I quali intonano, sempre in ginocchio, il ritornello della valutazione "oggettiva e misurabile", ignorando a priori qualsiasi argomento in senso contrario. Del resto, gli atti di fede si recitano come una messa cantata. 
Intanto, all'estero - preferibilmente fuori d'Europa - si moltiplicano le voci che criticano sempre più aspramente testing, accountability e valutazioni quantitative. Fra gli ultimi contributi, segnalo il recente articolo di John Ewing, "Mathematical Intimidation: Driven by the Data": http://www.ams.org/notices/201105/rtx110500667p.pdf


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Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all'analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale. Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un "modo di ridere", ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in "ordine crescente di intensità". La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l'alunno acquisirebbe la "competenza" di distinguere le "sfumature di significato".
Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un "sorriso amaro", di un "sorriso di simpatia", di un "sorriso ironico", e anche di un "triste sorriso". Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest'ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un'intensificazione del ridere; non certamente il ridere un'intensificazione del ridacchiare.
Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s'intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l'interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l'aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l'esempio proposto non è isolato, bensì tipico.
Nei test Invalsi proposti ai licei si proponeva un brano di un racconto di Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché – chiede il quiz – la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall'invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos'altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera "esatta" può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l'ambiguità dell'analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.
Del resto, quando l'uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull'uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d'istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l'anima – declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell'insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati – non si trova di meglio che parlare di "test", nella cornice di un linguaggio economicista, a base di "capitale umano", "forza lavoro", "fabbisogni" e "aree in ritardo"? Invece di capire che quello di cui ha bisogno l'istruzione è soprattutto di motivazioni profonde e di restituzione del "senso" della propria missione? Davvero malinconico.

(Il Giornale, 21 novembre 2011)

4 commenti:

Marisa ha detto...

Da professoressa di Lettere sono completamente d'accordo con Lei, professor Israel.
Ho rebloggato il suo articolo sul mio blog laprofonline.
Grazie per la costante attenzione che presta al "problema" dei test. La gente comune probabilmente pensa che la nostra ostilità nei loro confronti sia dettata dal timore di essere valutati. Il fatto è che, invece, la misurazione fatta attraverso questo genere di test (e sottolineo "questo") è inattendibile. Senza contare che, come anche Lei giustamente sottolinea, il valore di questi test è assolutamente nullo ai fini della valutazione del sistema educativo.
Forse sarebbe il caso di trovare altri strumenti di valutazione ma non so se questo governo sia interessato a cambiare lo stato delle cose. Soprattutto dopo che la "premiata ditta" Gelmini-Abravanel ha fatto dei test la bandiera da sventolare in nome della meritocrazia.

Buona giornata.

Marisa Moles

Giorgio Israel ha detto...

Gentile professoressa, non bisogna farsi intimidire dal ricatto "non volete la valutazione", che usano anche con noi universitari. La vogliamo, eccome, ma non questa, non questa cialtroneria. Non voglio essere valutato da statistici, psicologi e da docenti amici di chi conta che compilano test a suon di decine di migliaia di euro. La prova della malafede sta nel fatto che ho scritto quintali di articoli pieni di documentazione sulla faccenda e non ho ricevuto una sola contestazione di merito, perché non hanno niente da dire, vogliono soltanto imporsi con prepotenza.
Il passato ministro, soprattutto nell'ultima fase, si è messo in mano della Confindustria. Come sperare che un governo con questa composizione non faccia ancora peggio?...

vela ha detto...

Io proporrei un test invalsi anche per i politici....una selezione preliminare....sarei curiosa di vedere i risultati.....
Saluti

Nautilus ha detto...

"Del resto, quando l'uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali – ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto – è inevitabile che si cada in queste miserie."
E questo è il punto. Ma perchè si cade in queste "miserie"? Secondo me perchè non si ha uno straccio d'idea su come giudicare la qualità dell'insegnamento e ci si aggrappa ai primi ciarlatani che propongono una soluzione facile e quindi fattibile a un problema molto difficile.
Proprio ieri con un' amica insegnante di lettere facevamo l'elenco di quante qualità dovremmo avere e non abbiamo e di quanti difetti non riusciamo a liberarci, ammesso e non concesso di averli individuati. E' poi anche vero che non conta la diversità di modo d'insegnare ma il risultato finale: creare interesse e conoscenza della materia nei ragazzi. Vallo un po' a "misurare"..
La questione è quindi di grande complessità, io insisto su un mio vecchio pallino: non si può prescindere dal giudizio degli allievi. Casualmente son capitato su di un blog in cui uno studente di fisica di un prestigioso ateneo descrive i propri insegnanti: a parte le divertenti note di colore e l'evidente voglia di non emettere giudizi di qualità, non è difficile individuare quelli che vengono considerati più bravi e non credo queste stime siano sbagliate.