Quando si parla dell’antisemitismo cristiano non occorre
dimenticare il percorso compiuto in circa mezzo secolo. Constato senza
esitazione che i miei figli non hanno conosciuto nemmeno una piccola parte
delle cattive parole, delle insinuazioni devastanti, delle pressioni
psicologiche che ho subito nei miei anni scolastici. L’insegnamento del
disprezzo sopravvive, ma in circoli ristretti ed esterni alla dottrina
ufficiale della Chiesa. Come dimenticare quel che veniva scritto ancora meno di
un secolo fa sull’organo ufficiale dei Gesuiti, “Civiltà Cattolica”? Prose come
quelle stentano a uscire – almeno in quei termini – persino dal covo più
accanito dell’antisemitismo cattolico, la comunità lefebvriana. Un grande cammino
è stato compiuto in mezzo secolo dopo duemila anni di odio e di persecuzioni.
Eppure questo non ci basta, ed è giusto che sia così. Ma non sarebbe giusto
svalutare l’importanza di quel cammino, altrimenti non sapremmo neppure cosa
resta da fare.
L’opera di Giovanni XXIII e la Nostra Aetate hanno segnato l’inizio della svolta. Quel testo contiene
l’embrione della tesi più audace, secondo cui i «doni» e la «vocazione» di Dio
sono «senza pentimento», accanto a un atteggiamento di generica benevolenza:
gli ebrei sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità
evangelica». Era un passo decisivo per sbarazzare il campo dell’insegnamento
del disprezzo incorniciato in un invito ai fedeli alla tolleranza e al rispetto
malgrado le incomprensioni depositate nei secoli. Per iniziare a spazzare
via il terreno da queste incomprensioni
occorrevano atti concreti, spettacolari, carichi di emozioni. Tale fu la visita
di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Il papato di Woytila non è stato
esente da passi incespicanti, soprattutto in certe occasioni pasquali in cui
rispuntarono ambigui accenni sul ruolo degli ebrei nella Passione di Gesù. Ma
la nota dominante fu quella della traduzione sul piano concreto dell’invito
contenuto nella Nostra Aetate.
Giovanni Paolo II dichiarò che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». Fu,
ancor più che un asserto teologico, un proclama pratico, un invito a incontrare
non soltanto un ebraismo astratto e cristallizzato nel passato, ma l’ebraismo
vivente e, in definitiva, a incontrare
gli ebrei.
Ma neanche questo poteva bastare. Non poteva bastare la
professione di fratellanza e il fatto emotivo, perché le radici più profonde,
ostinate e difficili da sradicare sono sul terreno teologico. Chi ha compreso
che questo era il passo decisivo da compiere è stato il Cardinale Ratzinger,
prima sotto il papato di Giovanni Paolo II, e poi come quel papa Benedetto XVI
che si è dimesso con un gesto che ha lasciato il mondo attonito.
Sono in tanti, quasi tutti, a riconoscere l’importanza
dell’opera da lui fatta, ma nel passato non sono stati altrettanti ad averla
compresa e apprezzata; soprattutto ad aver valutato lo straordinario sforzo
concettuale e teologico compiuto con il documento del 2001 su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture
nella Bibbia cristiana. È un testo che sviscera tutti i passi evangelici in
cui trova alimento l’antigiudaismo, al fine di eliminare le potenzialità
negative che essi possono contenere. A questo testo occorre aggiungere varie
parti dei libri di Benedetto XVI su Gesù
di Nazaret, che hanno sottratto ogni spazio al tragico mito del deicidio.
C’è chi ha minimizzato l’importanza di quest’opera – che
invece, a mio avviso, costituisce la conquista più solida di tutte – a causa
della visione complessiva ratzingeriana tesa a una forte difesa della dottrina
e della tradizione. È curioso che questa accusa sia venuta talora da chi propone
una difesa del tutto analoga in ambito ebraico. È un atteggiamento incoerente:
perché mai si dovrebbe chiedere un atteggiamento riformatore alla Chiesa quando
si considera un indirizzo del genere una sciagura per sé stessi? Chi scrive
considera negativo – per dirla con le parole di Alberto Cavaglion – che siano
sempre i “modernisti” ad avere la peggio. Ma non si può predicare il
“modernismo” a tutti salvo che a sé stessi.
L’importanza dell’opera teologica di Benedetto XVI è provata
dal fatto che essa ha reso possibile il dialogo sul tema più difficile. Basti
pensare al noto libro del rabbino Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù; o all’affermazione del rabbino Gilles
Benheim – che ricordavo nell’ultima rubrica di Shalom – secondo cui
l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a
percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù.
Cosa resta da fare? Il
lavoro lungo e complesso di trasportare questi risultati nelle coscienze dei
singoli e radicarli in profondità. È un lavoro tanto più complesso in un
periodo di grande difficoltà e di sfide epocali per il mondo cattolico, e
cristiano in generale, di cui le dimissioni del Papa sono la testimonianza. Sta
alla saggezza di tutti mettersi gli occhiali di quel che unisce, persino quando
si guarda a quel che divide, anziché darsi all’opera di distruzione, la più
facile di tutte.
(Shalom, marzo 2013)
20 commenti:
"secondo cui l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù."
Essendo ateo questi temi non dovrebbero riguardarmi (impossibile per me essere antigiudaico) ma non lo sono stato sempre, ho ricevuto una completa educazione cattolica e ricordo bene i ragionamenti e i sentimenti che da credente provavo nei riguardi del popolo ebreo.
Il principale era proprio quello: com'era possibile che questo popolo che poi era il suo avesse rifiutato la divinità di Cristo? Ma come, aspettano il Messìa per secoli e quando arriva non sanno riconoscerlo...ma che gente erano?
Altri popoli, magari politeisti, magari idolatri o pagani che non l'avevan mai visto non hanno avuto difficoltà ad accettare il Cristianesimo e invece proprio dove è nato e si è manifestato ha trovato l'ostilità e l'incredulità più grandi?
Questa contraddizione mi stupiva tantissimo. Lo stupore era essenzialmente alimentato dai film hollywoodiani o zeffirelliani che vedevo da bambino, con questo Cristo biondo, alto, bello, buono, aureolato di luce..si vedeva da lontano che era il figlio di Dio, perfino senza miracoli, come facevano quei buzzurri a dubitare? Chiunque avrebbe saputo riconoscerlo loro no, ma com'era possibile?
Non sto scherzando ma rievocando sentimenti genuini, quel che mi colpiva di più nella straordinaria storia di Cristo era l'ostilità del suo stesso popolo, in mezzo al quale aveva vissuto.
Nonostante mia madre mi accennasse vagamente agli ebrei come deicidi nella mia famiglia vigeva una certa razionalità diciamo illuministica che impediva di attribuire agli ebrei contemporanei la responsabilità di quanto praticato da certi loro avi duemila anni prima, ma la domanda finchè son stato credente è rimasta: perchè non l'hanno riconosciuto?
Da ateo, più grandicello e magari scettico verso i film americani mi pare d'aver capito: se c'era un popolo che aveva motivi per non credere al primo che si proclamava "il Messìa" eran proprio gli ebrei, magari ogni tanto ne sorgeva uno, era un problema riconoscere quello giusto.
Tanto più, e qui ragiono da ateo, quando quello giusto era solo un mito, e forse era bene che tale rimanesse anche per loro.
Ma dunque quale sarebbe, constatata l'assurdità di incolpare gli ebrei per aver rifiutato la divinità di Gesù, il significato positivo di questo rifiuto?
(Spero nessuno si senta offeso d'aver trattato la questione coi miei occhi di ragazzino, in fin dei conti immagino anche tanti cristiani si siano formati così)
È la difesa strenua del principio monoteista. Naturalmente, si può dissentire e ritenere che il cristianesimo non lo metta in discussione. Ma per gli ebrei il rifiuto della divinità di Cristo è essenzialmente motivato dalla volontà di difendere in modo completo il monoteismo. Poi, ripeto, si può dissentire e avere una opinione divergente (anzi, senz'altro i cristiani la hanno) ma si può capire che tale rifiuto ha una ragione positiva e non meramente negativa o addirittura ostile.
Articolo molto interessante, ma ancor più interessante la risposta che ha dato all'interlocutore precedente.
Per me, cristiano, c'è ancora un altro tema: il rispetto della libertà dell'uomo da parte del suo Creatore. La differenza tra l'ebraismo-cristianesimo e le religioni antiche o orientali, non sta solo nel monoteismo, secondo me, ma nel fatto che Dio stesso entra in contatto con l'umanità. La "legge" è ben diversa dall'estasi dello sciamano o dalla ricerca zen.
Ebbene Dio per "dialogare" con l'umanità deve rispettare le caratteristiche dell'interlocutore, che lui stesso ha creato libero.
Se per assurdo Gesù si fosse manifestato in modo tale che i contemporanei non avessero potuto non riconoscerlo come il messia, la libertà dell'uomo non sarebbe stata rispettata, quindi Gesù non sarebbe stato il messia.
Intanto un grazie al professore per aver risolto definitivamente un dubbio che, mi sono accorto leggendo il suo articolo, mi son portato dietro per tanti anni senza approfondirlo.
Poi, caro GDLC, quel che lei giustamente dice riguardo Gesù mi pare possa però valere per qualunque religione e non solo il Cristianesimo: un dio che si manifestasse in modo indubitabile priverebbe l'umanità del libero arbitrio, avrebbe creato solo una massa di schiavi.
E'un argomento forte, anche se naturalmente un ateo non può che pensarlo anche come una ingegnosa scappatoia per sostituire la fede alla ragione e ai dati di fatto.
Ma il mio dubbio era un altro: come mai il Cristianesimo ha trovato eccezionale diffusione fra tutti i popoli del mondo...tranne in quello dove aveva avuto origine.
Mi pare di aver capito che proprio l'esistenza fra gli ebrei di una salda religione monoteista (a differenza di quelle degli altri popoli) ha determinato questo fenomeno.
Egr. Nautilus, mi permetto d interloquire dicendole che ciò di cui ha parlato GDLC, la Libertà (volutamente con lettera grande) dell' uomo di fronte a Dio, la possibilità di scegliere liberamente se riconoscerLo o no Dio e Padre, così come la libertà di riconoscere o no in Gesù il Messia, non vale affatto per qualunque altra religione. Almeno in misura lontanamente paragonabile. Se le capita di leggere lettere o interviste di missionari inviati in paesi africani o asiatici, che vivono immersi quotidianamente e profondamente nella vicinanza di altre religioni, vedrà che le cose non stanno affatto come pensa. Per esempio, padre Piero Gheddo, un uomo
eccezionale che con la sua instancabile attività di sacerdote, saggista e giornalista ha dedicato (e continua a dedicare) alle missioni nel terzo mondo tutta la sua vita riporta nel libro 'La missione continua' quello che gli raccontò una volta un padre redentorista dello Sri Lanka, specialista di studi buddhisti:
«Il buddhismo non dà stimoli per la giustizia sociale. Tutto va bene così com' è, non bisogna darsi da fare per cambiare, perchè secondo la legge eterna del "karma" ciascuno ha già quello che è bene per lui in questa vita: nella prossima potrà cambiare, ma adesso è bene che il ricco sia ricco e il povero povero. E' bene per il paria rimanere paria, non cerchi di migliorare la sua situazione: questo porta ad accettare tutto senza moti di ribellione, di rivolta. Oggi le cose cambiano anche fra i buddhisti per influsso delle missioni cristiane e del mondo moderno, ma c'è schizofrenìa totale fra la religione nazionale e la vita moderna che stimola all'impegno per cambiare il mondo: questa è una novità portata dal cristianesimo, il buddhismo non giustifica nè la democrazia nè la giustizia sociale nè qualsiasi idea nuova»
E' solo un esempio, ma di citazioni come questa, su religioni che spesso portano certe società pericolosamente vicine ad essere «private del libero arbitrio» ed una «massa di schiavi», come dice lei, ne potrei fare diverse. E questo è il motivo per cui l' argomentazione di GDLC non è affatto una «scappatoia per sostituire la fede alla ragione e ai dati di fatto» (e quali?).
Ma Nautilus, le dobbiamo spiegare proprio tutto! :)
"Tanto più, e qui ragiono da ateo, quando quello giusto era solo un mito": credo che l'interpretazione mitica della figura di Gesù Cristo sia una delle più screditate a livello scientifico e ci sono montagne di libri, articoli e saggi anche divulgativi che ne ripercorrono la genesi e il breve cammino, (tanto per citarne uno, il classico Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori, pubblicato quando ero al liceo e tradotto in decine di lingue). Ho studiato Storia e credo che siano pochi gli antichi su cui esistono così tante e concordanti testimonianze tuttaltro che mitiche come su Gesù (a cominciare dai vangeli che di mitico non hanno nulla, dal linguaggio ai "dati di fatto").
Poi: "una ingegnosa scappatoia per sostituire la fede alla ragione e ai dati di fatto", ma come? dopo che il nostro buon papa emerito non ha fatto che parlare, da par suo, di rapporto fra fede e ragione, lei se ne esce con questa frase? Allora per lei i credenti rinunciano alla ragione? No, mi spiace, sono credente anche perché la fede cattolica mi sembra convincente razionalmente e profondamente logica, in particolare alla luce dell'esperienza concreta (si intende che io non conto niente, ma il mondo è da sempre pieno, grazie a Dio, di straordinari scienziati e pensatori profondamente cristiani). Un conto è la ragione, un conto è divinizzarla o confonderla con ciò che si può vedere e toccare. Mi scusi, ma mi sembrano argomenti superati.
Professore, so, e mi duole molto, che i cattolici sono stati spesso ingiusti e intolleranti verso gli ebrei, ma credo che la situazione di crisi attuale stia vagliando i credenti e siano sempre meno quelli che professano e praticano la religione cattolica per consuetudine (la domenica ci sono molte altre belle cose da fare e e numerosi centri commerciali sempre aperti) e senza interrogarsi sulle ragioni della propria fede. Fra i cattolici credo che oggi si trovino i migliori amici degli ebrei. Non sono esperta di ebraismo, ma, non so cosa lei ne pensi, ho trovato in libri come il bellissimo "Danny l'eletto" di Chaim Potok l'espressione della la comune radice, della profonda consonanza fra le nostre fedi, che è la carità.
Certo caro Marinelli, avevo pensato che si prestava a questa osservazione ma non prima di aver inviato il post :), ormai era andato.
Volevo dire una cosa diversa: qualunque religione fosse fondata sull'evidenza sensibile dell'esistenza di un dio trasformerebbe ipso facto i suoi fedeli in un gregge privo di volontà che ubbidisce al pastore in tutto e per tutto. Peggio che nella peggiore dittatura orwelliana, un ente superiore essendo solitamente onnisciente e onnipresente.
Una tale evidenza in realtà non è mai esistita, pur se le religioni, Cristianesimo in testa, indulgono nella narrazione di "miracoli", che sono proprio interventi divini nella sfera del sensibile.
Spero di non offendere (troppo) i credenti esternando questa mia opinione: in realtà il cosiddetto "libero arbitrio" esiste proprio perchè nessun uomo ha mai avuto la "prova provata" dell'esistenza di dio, e può mantenere un fondo di incredulità, insieme alla gioia di "credere" senza sussistenza nè bisogno di alcuna prova.
Vero che il Cristianesimo con la confessione permette di farsi perdonare i peccati ma se l'umanità avesse creduto fino in fondo in un giudice supremo e in una pena eterna, non le sarebbe stato troppo difficile rigare dritto.
Mentre ci siamo comportati e ci stiamo comportando peggio delle belve.
Quel che lei dice sui buddhisti (e induisti) l'ho constatato anch'io, infatti sono popolazioni (apparentemente) meno inquiete di noi...perchè senz'altro più credenti, e in religioni che non gli lasciano vie di fuga.
Cara Grazia, guarda che son già convinto, c'era un equivoco: per me un mito era l'attesa del Messìa.
Che Gesù Cristo sia una figura storica non ho dubbi, pur se non c'è ricerca che possa dimostrare fosse il figlio di Dio.
Quello del papa per me è stato un buon tentativo di conciliare fede e ragione, ho letto molte volte il fine discorso di Ratisbona, ma c'è poco da fare, quando dalla porta entra la fede la ragione esce dalla finestra, non so chi l'ha detto. Non è che siano in contrasto, agiscono in sfere diverse ma per aver fede bisogna sospendere, in quell'ambito, l'uso della ragione.
D'altra parte, facciamo uso della ragione quando ci innamoriamo? Amore e ragione sono quindi in lotta fra loro? Possono tranquillamente coesistere, grazie al cielo.
Egr. Nautilus,
sa, io non sono molto d' accordo su alcune cose che ha scritto. Per esempio, quando dice «se l'umanità avesse creduto fino in fondo in un giudice supremo e in una pena eterna, non le sarebbe stato troppo difficile rigare dritto». In passato c' è stato anche chi ha commesso delle atrocità nella piena convinzione di agire rettamente e conformemente a dei precetti religiosi, certo di ottenere ottime credenziali da esibire in sede di giudizio finale, di fronte al «giudice supremo». E qualche volta queste cose accadono anche oggi. Spiegare il fatto che l' umanità non abbia sempre «rigato dritto» semplicemente con l' assenza di una fede autentica e profonda non mi convince per niente. Poi devo dirle che trovo parecchio fastidiose espressioni come «ci siamo comportati e ci stiamo comportando peggio delle belve», da alcuni anni molto di moda. "Ci" stiamo comportando? Io non credo affatto di comportarmi ed essermi comportato in passato «peggio delle belve». Certo, ho fatto degli errori e ne ho pagato il prezzo imparando, mi è capitato di illudermi e ho acquisito consapevolezza, ma la frequenza con cui si leggono e si ascoltano espressioni di quel tipo danno quasi l' impressione che sia proprio urgente portare l' umanità di fronte ad un qualche tribunale (ma sotto l' autorità di quale giudice, a quel punto, e di quale corte?). Non è che l' umanità abbia fatto solo disastri da quando esiste, e non è vero che sia impossibile trovare del bene là fuori.
Caro Nautilus,
grazie per la sua garbata risposta e scusi la petulanza del mio post, ma devo insistere:
i miracoli sono fatti, la rivelazione è un fatto. Certo non è dato a tutti avere delle esperienze sensibili straordinarie e la maggior parte di noi devono prestare fede alla testimonianza di coloro che le hanno avute. Paolo di Tarso correva verso Damasco per perseguitare i cristiani che aborriva e... non c'è bisogno che glielo racconti. Ora, io mi fido di Paolo di Tarso almeno, se non di più, quanto dei racconti sugli avvenimenti che visse mio nonno quando fece la grande guerra. Per me è tutto qui, altro che sfere diverse, la fede cristiana è perfettamente razionale.
Devo confessare che l'ultimo post mi ha sorpreso. Con piccoli cambiamenti di luoghi e persone, sono quasi esattamente le stesse parole che anni fa un mio conoscente usava per descrivere la sua esperienza con Sai Baba, un santone indiano che all'epoca godeva di una certa notorietà. Insisteva in particolare sulle "esperienze sensibili straordinarie", un livello che evidentemente presenta un nucleo comune nelle diverse culture.
Gent. Marinelli, nessun tribunale, l'uomo è un impasto di bene e di male in proporzioni notevolmente diverse a seconda delle personali inclinazioni, e che ci possiamo fare? Nulla, siam fatti così.
Sostengo che se avessimo l'assoluta certezza che alcuni comportamenti verrebbero puniti, non li metteremmo in atto.
Magari sbaglio, c'è chi fuma o si buca, lo sanno che li danneggia e lo fanno lo stesso :)
Certo se avessimo davanti una pena eterna...forse allora...Ma chi ci crede fino in fondo?
Ormai poi anche l'inferno, dopo aver spaventato generazioni di peccatori si è addomesticato del tutto, chi ne parla più?
Saremo diventati tutti più buoni.
Cara Grazia, non accetto le sue scuse. Non ha nulla di cui scusarsi, scrivendo in fretta mi capita di esser poco chiaro. E poi la trovo molto simpatica.
Per chi crede capisco che tutto paia razionale, a chi non crede no.
Mentre sul teorema di Pitagora, una volta dimostrato, siamo d'accordo tutti e due.
No Sai Baba no, la prego Massimiliano. Mi sono spiegata male o lei ha letto solo l'ultimo post. La fede non si fonda sui miracoli, ma data la storicità del Cristo dei vangeli (nei quali per altro si narra di tanti miracoli compiuti da Gesù di fronte a migliaia di testimoni, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci) la presunta irrazionalità sta tutta nella difficoltà' di accettare come reale la Resurrezione, che fra tutti i miracoli è il più importante ed l'avvenimento fondamentale per il cristianesimo. Essa è stata affermata da centinaia di testimoni oculari, ai quali i cristiani di ogni tempo hanno creduto e credono.
A proposito di tribunale divino, credo possa avere un significato, in questo contesto, riportare le parole dettate dal grandissimo poeta peruviano (e universale) César Vallejo alla moglie Georgette, prima di morire, sul letto di un ospedale parigino, il 29 marzo del 1938:
“Cualquiera que sea la causa que tenga que defender ante Dios, màs allà de la muerte, tengo un defensor: Dios”
“Qualunque causa io debba difendere davanti a Dio, oltre la morte, ho un difensore: Dio”.
Queste parole che, sul limite dell'animo umano, alludono al mistero della misura tra Legge e Misericordia, quest'anno le ho fatte trascrivere sul diario ai miei alunni, a contrappeso di quelle paure sommosse dall'immaginario dell'inferno dantesco in cui li calo.
Noticina bibliografica: Una volta, far conoscere agli amici l'opera di Vallejo della Edizioni Accademia, era un'impresa, per la difficile reperibilità. Oggi, per esempio, c'è in formato Kindle l'opera completa a tre euro, ma solo in spagnolo.
In realtà mi aveva solo colpito la coincidenza quasi fotografica del linguaggio. Poi, ad essere sincero, rileggendo con maggior attenzione i suoi post precedenti in questo thread mi accorgo di non concordare con quasi tutte le sue affermazioni, sia in termini di impostazione ideologica e religiosa (più o meno per gli stessi motivi per cui non concordavo con il conoscente seguace di Sai Baba, un personaggio che tra l'altro mi era precedentemente ignoto e verso cui quindi non avevo alcuna prevenzione), sia in termini di metodologia storica e storiografica, ma d'altronde, riprendendo una vecchia battuta, spesso due interventi rappresentano tre pareri mutuamente esclusivi.
Scusate se ci torno su, ma, mi scusi Nautilus, che c'entra il teorema di Pitagora? E' degli argomenti pro o contro la fede in Dio che stiamo parlando. Mi sembra, in tutta umiltà, che quando gli atei cercano di dimostrare l'inesistenza di Dio o delle manifestazioni del soprannaturale si basino essenzialmente su un unico fatto a loro disposizione, che cioè loro stessi non hanno visto Dio nè alcun fatto straordinario a Dio riconducibile. E non compiono forse un atto di fede nel nulla? Cosa c'è nel loro assunto di più razionale e fondato che quello opposto? Certo la Rivelazione va ancora oltre.
Non ho la pretesa di convincere Massiliano con i miei semplici argomenti, ma molti atei teorici e pratici, uomini di Scienza, colti raffinati e perfino irridenti verso le religioni rivelate, sono in pochi minuti diventati credenti granitici per quelle irruzioni del sacro nella vita umana cui non crede.
Cara Grazia, dimostrare l'inesistenza di Dio è impossibile anche per l'ateo più accanito, se vuole è una fede anche questa: noi atei "crediamo" che Dio non esista ma ovviamente non possiamo dimostrarlo.
E' ben per questo che i problemi di fede sfuggono alla ragione, la ragione in questo campo non funziona.
Con Pitagora sì: se lei non ci credesse io potrei farne la dimostrazione e dopo lei ne sarebbe convinta come me.
Questo fa la differenza fra fede e ragione.
Ratzinger ha fatto un tentativo di annullare questa differenza:
"Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità....Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo."
Insomma questi interrogativi non possono (ovviamente) essere risolti dalla scienza come la intendiamo.
La soluzione?
"Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza."
Cioè alle verità della scienza (verificabili) occorre unire le verità della fede che sole possono dare risposta a ciò cui la scienza non arriva.
Che queste seconde verità non siano verificabili non interessa, il "verificabile" essendo solo una parte di una verità più grande.
A me pare che qui il "ragionamento" vacilli: dove la ragione da sola non basta bisogna soccorrerla con la fede. Ammettiamo pure: resta che sono due cose diverse e distinte, le domande cui dà risposta la scienza non han bisogno della fede. E viceversa.
Dal mio punto di vista, il rifiuto della divinità di Gesù rappresenta una mancata accettazione dell’umanità di Dio.
Giorgio Della Rocca
Concordo con il giudizio di Grazia Dei. Infatti, nel Cristianesimo, con l'Aquinate, la ragione umana raggiunge il suo apice, oltre il quale si entra nella teologia. A Nautilus consiglierei (se non lo conoscesse) di riesaminare il teorema di non- completezza di Kurt Gödl, secondo il quale anche la razionalità dei teoremi richiede l'imperativo categorico di una "fede" sulla ragione umana.
Gent. Angus no, non conosco quel teorema ma non ho nessuna difficoltà a riconoscere che anche la ragione poggia su quelli che si possono chiamare atti di fede (penso a certi assiomi geometrici indimostrabili) e se non sbaglio Cartesio già cercava di dimostrare che esistiamo, cosa per lui non pacifica.
Ma non tutti gli atti di fede contengono la stessa probabilità: io posso sostenere che credo che in questo momento una teiera verde (l'ho letto da qualche parte) sia in orbita attorno a Giove e la sfido a dimostrare che non è vero, cosa che lei non può certamente fare. Ma la probabilità che sia vero è ben diversa dalla probabilità che siano veri gli assiomi della geometria euclidea, pure indimostrati.
Se ho capito quel che voleva dire.
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