Il
tema dell’istruzione sta assumendo rapidamente una posizione di primo piano nei
propositi del nuovo governo. Questo è un fatto che deve essere salutato come altamente
positivo perché – l’abbiamo ripetutamente detto su queste pagine – un paese che
non consideri centrale la formazione qualificata delle giovani generazioni, è
come se si arrendesse a una prospettiva di sicuro declino. Il proposito di cui
più si parla è di lanciare un’ambiziosa opera di riqualificazione edilizia
delle scuole e delle università, ridotte spesso in uno stato pietoso o
addirittura vergognoso. E anche questo è un fatto altamente positivo perché
indica un approccio pragmatico e dettato dal buon senso. È inutile pensare a
programmi ambiziosi se la struttura non ha i requisiti minimi di funzionamento.
È vano pensare di ridare fiducia agli insegnanti e pretendere dagli studenti
impegno e rispetto per un’istituzione che si presenta con connotati fisici poco
rispettabili. Tuttavia, vorremmo suggerire di dedicare tempo e attenzione più
che alle visite delle scuole alla ridefinizione delle procedure amministrative dei
lavori in tutti i loro aspetti, altrimenti si rischia che tutto finisca in una
bolla di sapone mediatica. Se ne sentono troppe a proposito di scuole che non riescono
a usare fondi stanziati per la ristrutturazione perché il comune se li tiene
senza far nulla, o di lavori interrotti a metà perché le ditte annunciano che i
quattrini sono finiti giocando su capitolati poco chiari. Un brutto simbolo
italiano è l’autostrada che finisce in mezzo ai campi: sarebbe tragico veder
finire così un grande e costoso programma di ristrutturazione edilizia.
La
linea del buon senso pragmatico dovrebbe anche evitare la tentazione di
lasciare il segno con l’ennesima riforma globale del sistema scolastico. In
questi decenni, se ne sono accumulate tante, rimaste a metà come la autostrade
di cui sopra, rendendo incoerente e caotico il sistema dell’istruzione e sempre
più difficile operarvi. Si comprende che proprio di qui nasca la tentazione di
costruire la soluzione definitiva, ma il rischio di accrescere la confusione è
troppo grande. Meglio lasciare che i propositi globali maturino attraverso una
riflessione attenta e meditata: qui è una virtù la lentezza, mentre occorre
agire velocemente ed efficacemente su alcuni nodi cruciali capaci di ridare
fiducia al sistema riavviando il funzionamento ordinato della macchina. La più
grande riforma sarebbe dare finalmente la sensazione che le regole vengono
rispettate e che è finito il tempo delle invenzioni continue di deroghe e
scappatoie.
Il
primo dei nodi è il reclutamento degli insegnanti. Nella scuola la parola
d’ordine “largo ai giovani” è divenuta un slogan vuoto e persino irritante.
Esiste il problema del precariato, ma esso non può essere l’eterno alibi per
strozzare il canale della formazione e dell’ingresso dei nuovi insegnanti. Una
norma continuamente disattesa prevede la ripartizione a metà dei posti
disponibili: la si attui una buona volta con decisione e senza inventare
stratagemmi o deroghe che distruggono la possibilità di un percorso di
formazione ordinato e univoco. Invece di escogitare nuove normative si facciano
funzionare quelle esistenti senza scorciatoie. Si parla tanto di riqualificare
la scuola media (secondaria di primo grado). Il problema principale di questa
scuola è che gli insegnanti di materie scientifiche, in particolare di
matematica, provengono da facoltà che non forniscono una formazione adeguata.
Una normativa approvata da alcuni anni, e mai attuata, prevede una serie di
lauree magistrali atte a ovviare a queste carenze di formazione. Qui non c’è
nulla da inventare: basta passare ai fatti.
Abbiamo
apprezzato molto il proposito del ministro Giannini di studiare a fondo la
situazione e i dossier prima di agire. È proprio ciò di cui si ha bisogno: una
fase di riflessione profonda, che coinvolga i vari soggetti dell’istruzione, in
primis gli insegnanti, mentre si opera per riavviare la macchina inceppata. Per
coerenza sarebbe allora bene evitare la politica degli annunci, che servono
solo a creare stress. Nel breve arco di pochi giorni abbiamo sentito parlare di
accorciare il ciclo liceale a quattro anni, e poi (con sollievo) che si intende
soprassedere a questa iniziativa. Più in generale, l’idea di rimettere subito
le mani sui cicli fa venire i brividi. Non è che non vi siano problemi: la
scuola primaria è stata già affastellata di troppe indicazioni nazionali
discutibili; la riforma dei licei ha avuto aspetti positivi di semplificazione
e delle buone indicazioni nazionali, però contraddittorie con un assurdo taglio
delle ore che ha condotto all’invenzione di materie stravaganti come la
“geostoria”; le scuole medie richiedono certamente delle correzioni ma puntare
il dito su di esse come se fossero la fonte di tutti i mali è assai opinabile.
Proprio perché vi sono tanti problemi è bene riflettere a fondo prima di
lanciarsi in grandi ristrutturazioni che, se pensate affrettatamente, rischiano
di peggiorare la situazione.
Indicare
il tema del merito e della valutazione come centrale è sacrosanto. Ma in questi
anni ci siamo gettati a capofitto, sia nella scuola che nell’università, verso
sistemi puramente quantitativi dando per scontato che questa sia l’unica via
dei paesi “avanzati”. Non è così: in Francia l’ente di valutazione
universitario è stato smantellato e la bibliometria è vista malissimo; in
Inghilterra la valutazione delle scuole contempla sia approcci quantitativi che
qualitativi. Senza dire che non tutto quel che accade fuori delle frontiere è
necessariamente buono. Anche qui una pausa di riflessione s’impone, ove si
pensi al gran numero di sperimentazioni per la valutazione degli insegnanti,
finite l’una dopo l’altra nel nulla, con grande sperpero di denaro. Lo stesso
dicasi per l’editoria digitale, dove è stata molto opportuna la frenata del
ministro circa la prospettiva di una rapida eliminazione della carta.
Infine,
una preghiera: cessiamo di scaricare sulla scuola una massa di compiti di
gestione e assistenza sociale che debbono essere ripartiti tra tutte le
istituzioni della società. La scuola deve avere come compito primario quello di
formare giovani colti, competenti, capaci di muoversi autonomamente, il suo
terreno istituzionale deve restare quello dell’istruzione. Essa non può
surrogare compiti che debbono appartenere alla famiglia e ad altri soggetti e
farsi carico della crisi etica e di prospettive di una società avvilita e senza
energie interiori: superare questa crisi è un dovere di tutti che non può
essere scaricato sulla scuola. Abbandoniamo l’idea perniciosa di fare della
scuola un grande centro di assistenza e di iniziative di ogni sorta, in cui la
formazione di competenze disciplinari diventa l’ultimo dei problemi. Si parla
tanto di riqualificare la funzione dell’insegnante e di rivalutarne lo stipendio
legandoli a valutazioni di merito. Benissimo: ma la valutazione di merito non
può che essere sulle competenze disciplinari e sulle capacità educative
dell’insegnante e non sulle sue qualità come assistente sociale.
(Il Messaggero, 28 febbraio 2014)