La
questione della valutazione del sistema scolastico, e del ruolo dell’ente
preposto a tale funzione, l’Invalsi, non è roba da addetti ai lavori. Ogni
genitore tocca con mano le novità introdotte dall’uso diffuso di test che, nel
caso dell’esame di terza media, influiscono anche sul voto. Era quindi giusto
che, nel momento in cui si aprivano le procedure per la nomina del nuovo
presidente dell’Invalsi, si chiedesse un dibattito su ruolo e metodi della
valutazione nella scuola italiana. Purtroppo, la cosa ha preso subito un taglio
bizzarro così riassumibile: discutiamo sì, ma per convincere i recalcitranti
della bontà dell’indirizzo finora seguito e nessuno si azzardi a modificarne di
un millimetro la direzione, altrimenti si renderà responsabile di una
catastrofe nazionale; il tutto condito, con articoli e interviste, da una
pesante delegittimazione del Comitato di selezione delle candidature, in alcuni
casi fino alla denigrazione.
Come
si diceva, la problematica investe la vita quotidiana di insegnanti, studenti e
famiglie. In molte classi, in questi giorni, gli studenti sono invitati a
stampare i test Invalsi di italiano e matematica per le medie: due volumi di un
centinaio di pagine che spodesteranno parte della didattica ordinaria, impegnando
nell’addestramento a superare i quiz invece di studiare testi di letteratura o
teoremi di geometria. Lo stesso accade nelle primarie, sebbene i test Invalsi vi
abbiano un ruolo di mero censimento. Il dilagare di quel che gli anglosassoni
chiamano il “teaching to the test” – l’insegnamento in funzione del superamento
dei test e non in funzione dell’acquisizione di conoscenze – è una realtà
innegabile. E poiché questa prassi è sempre più aspramente criticata proprio
nei paesi in cui è diffusa da tempo dovrebbe essere razionale discuterne. I
critici che non sono di per sé nemici della valutazione (e non sono pochi)
osservano che la pratica del “teaching to the test” conviene ai peggiori
insegnanti che, invece di fare un lavoro di classe impegnativo (commentando e
discutendo testi di letteratura, o spiegando concetti matematici), si adagiano
a “somministrare” quiz e a verificare, come nei giochi televisivi, la velocità
di risposta degli studenti. Vi sarebbe poi da discutere sul contenuto e la
qualità dei test e sul dilagare di una manualistica di addestramento di infimo
livello. Sono tutte questioni molto serie, su cui all’estero si dibatte, e il
vero provincialismo è far credere che sia tutto ovvio, invece di considerare
come un fatto positivo, l’esistenza nel mondo della scuola di un’ampia
diversità di visioni e del desiderio di discutere.
In
conclusione, in una fase così delicata, l’Invalsi ha bisogno di un presidente e
di una dirigenza capaci di parlare con il mondo della scuola, non per
indottrinare ma per discutere, capaci di affrontare le tematiche in gioco con
spirito aperto, come conviene a un atteggiamento razionale. Il nuovo
presidente, Anna Maria Ajello, sembra essere la persona giusta, anche in vista
delle sue prime equilibrate dichiarazioni. È naturale quindi che, in questa
nuova fase, si riemerso da più parti l’invito a dibattere il tema della
valutazione. Tutto bene, dunque? Per niente. Perché con toni stizziti e
diffidenti è stata riproposta lo stesso ammonimento di cui all’inizio: state
attenti, la linea giusta è quella finora seguita, e che va anzi rafforzata, e
chi non è d’accordo è persona che «non vuole mai mettere in discussione il
proprio operato». È il punto di vista sostenuto da Luisa Ribolzi, commissario
dell’Anvur (l’equivalente dell’Invalsi per l’università) in un duro commento
sul Sole 24 Ore che ammonisce che «se si operasse un ridimensionamento del
programma di test in favore della cosiddetta “valutazione qualitativa”,
finiremmo anche con l’allontanarci dal quadro di riferimento europeo».
Siamo
alle solite. Quando non si sa come imporre qualcosa si ricorre all’imperativo
“l’Europa lo vuole” che, ammesso che esista, non dice nulla a chi ragioni con
la propria testa, visto che i precetti dell’eurocrazia non sono il quinto
vangelo. Pochi giorni or sono il presidente Napolitano è andato al Parlamento
europeo a dar voce alle critiche sempre più diffuse di chi denuncia il rischio
di appiattirsi dogmaticamente su ricette che alimentano l’euroscetticismo. Non
solo l’economia, ma la cultura e l’istruzione sono un tema su cui non può
essere vietato discutere e riflettere criticamente.
Vi
sarebbe molto da dire sulla contrapposizione tra valutazioni “quantitative” e
“qualitative”: se mai, i fautori delle prime non sostengono la tesi assurda che
le seconde non esistano o siano il “male”, ma sostengono di poterle riassorbire
nelle prime ed è proprio questo uno dei punti più controversi. Vi sarebbe molto
da dire sull’operato dell’Anvur, di cui molti pensano (e si tratta spesso di
persone di prim’ordine sul piano scientifico) che non sia un modello di
pratiche virtuose, e che invece stia contribuendo a seppellire l’università
sotto un cumulo di burocrazia e a ridurla a un luogo di compilazione di
scartafacci inutili. Vi sarebbe molto da dire sulla pretesa di qualificare
chiunque non si adegui al “verbo” come uno che vuol “tirare a campare”
(casomai, è il “teaching to the test” che sta mobilitando stuoli di insegnanti
che tirano a campare). Ci limitiamo a rilevare l’emergere di un atteggiamento
che sarebbe solo buffo se la faccenda non fosse seria: chi si rifiuta
categoricamente di mettere in discussione il proprio operato accusa chi chiede
di discutere criticamente di non voler mettere in discussione il proprio
operato…
È
quindi auspicabile che venga una fase aperta, libera da logiche di
irregimentamento. E ben venga il dibattito; ma non quello che si faceva in
certe assemblee, dove tutti parlavano e poi i capi davano la linea e chi non si
atteneva veniva sprangato. Certo, qui nessuno spranga, ma qualche volta le
sprangate intellettuali non sono meno pericolose.
(Il Mattino, 17 febbraio 2014)
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