lunedì 17 febbraio 2014

Il test Invalsi distrae dallo studio

La questione della valutazione del sistema scolastico, e del ruolo dell’ente preposto a tale funzione, l’Invalsi, non è roba da addetti ai lavori. Ogni genitore tocca con mano le novità introdotte dall’uso diffuso di test che, nel caso dell’esame di terza media, influiscono anche sul voto. Era quindi giusto che, nel momento in cui si aprivano le procedure per la nomina del nuovo presidente dell’Invalsi, si chiedesse un dibattito su ruolo e metodi della valutazione nella scuola italiana. Purtroppo, la cosa ha preso subito un taglio bizzarro così riassumibile: discutiamo sì, ma per convincere i recalcitranti della bontà dell’indirizzo finora seguito e nessuno si azzardi a modificarne di un millimetro la direzione, altrimenti si renderà responsabile di una catastrofe nazionale; il tutto condito, con articoli e interviste, da una pesante delegittimazione del Comitato di selezione delle candidature, in alcuni casi fino alla denigrazione.
Come si diceva, la problematica investe la vita quotidiana di insegnanti, studenti e famiglie. In molte classi, in questi giorni, gli studenti sono invitati a stampare i test Invalsi di italiano e matematica per le medie: due volumi di un centinaio di pagine che spodesteranno parte della didattica ordinaria, impegnando nell’addestramento a superare i quiz invece di studiare testi di letteratura o teoremi di geometria. Lo stesso accade nelle primarie, sebbene i test Invalsi vi abbiano un ruolo di mero censimento. Il dilagare di quel che gli anglosassoni chiamano il “teaching to the test” – l’insegnamento in funzione del superamento dei test e non in funzione dell’acquisizione di conoscenze – è una realtà innegabile. E poiché questa prassi è sempre più aspramente criticata proprio nei paesi in cui è diffusa da tempo dovrebbe essere razionale discuterne. I critici che non sono di per sé nemici della valutazione (e non sono pochi) osservano che la pratica del “teaching to the test” conviene ai peggiori insegnanti che, invece di fare un lavoro di classe impegnativo (commentando e discutendo testi di letteratura, o spiegando concetti matematici), si adagiano a “somministrare” quiz e a verificare, come nei giochi televisivi, la velocità di risposta degli studenti. Vi sarebbe poi da discutere sul contenuto e la qualità dei test e sul dilagare di una manualistica di addestramento di infimo livello. Sono tutte questioni molto serie, su cui all’estero si dibatte, e il vero provincialismo è far credere che sia tutto ovvio, invece di considerare come un fatto positivo, l’esistenza nel mondo della scuola di un’ampia diversità di visioni e del desiderio di discutere.
In conclusione, in una fase così delicata, l’Invalsi ha bisogno di un presidente e di una dirigenza capaci di parlare con il mondo della scuola, non per indottrinare ma per discutere, capaci di affrontare le tematiche in gioco con spirito aperto, come conviene a un atteggiamento razionale. Il nuovo presidente, Anna Maria Ajello, sembra essere la persona giusta, anche in vista delle sue prime equilibrate dichiarazioni. È naturale quindi che, in questa nuova fase, si riemerso da più parti l’invito a dibattere il tema della valutazione. Tutto bene, dunque? Per niente. Perché con toni stizziti e diffidenti è stata riproposta lo stesso ammonimento di cui all’inizio: state attenti, la linea giusta è quella finora seguita, e che va anzi rafforzata, e chi non è d’accordo è persona che «non vuole mai mettere in discussione il proprio operato». È il punto di vista sostenuto da Luisa Ribolzi, commissario dell’Anvur (l’equivalente dell’Invalsi per l’università) in un duro commento sul Sole 24 Ore che ammonisce che «se si operasse un ridimensionamento del programma di test in favore della cosiddetta “valutazione qualitativa”, finiremmo anche con l’allontanarci dal quadro di riferimento europeo».
Siamo alle solite. Quando non si sa come imporre qualcosa si ricorre all’imperativo “l’Europa lo vuole” che, ammesso che esista, non dice nulla a chi ragioni con la propria testa, visto che i precetti dell’eurocrazia non sono il quinto vangelo. Pochi giorni or sono il presidente Napolitano è andato al Parlamento europeo a dar voce alle critiche sempre più diffuse di chi denuncia il rischio di appiattirsi dogmaticamente su ricette che alimentano l’euroscetticismo. Non solo l’economia, ma la cultura e l’istruzione sono un tema su cui non può essere vietato discutere e riflettere criticamente.
Vi sarebbe molto da dire sulla contrapposizione tra valutazioni “quantitative” e “qualitative”: se mai, i fautori delle prime non sostengono la tesi assurda che le seconde non esistano o siano il “male”, ma sostengono di poterle riassorbire nelle prime ed è proprio questo uno dei punti più controversi. Vi sarebbe molto da dire sull’operato dell’Anvur, di cui molti pensano (e si tratta spesso di persone di prim’ordine sul piano scientifico) che non sia un modello di pratiche virtuose, e che invece stia contribuendo a seppellire l’università sotto un cumulo di burocrazia e a ridurla a un luogo di compilazione di scartafacci inutili. Vi sarebbe molto da dire sulla pretesa di qualificare chiunque non si adegui al “verbo” come uno che vuol “tirare a campare” (casomai, è il “teaching to the test” che sta mobilitando stuoli di insegnanti che tirano a campare). Ci limitiamo a rilevare l’emergere di un atteggiamento che sarebbe solo buffo se la faccenda non fosse seria: chi si rifiuta categoricamente di mettere in discussione il proprio operato accusa chi chiede di discutere criticamente di non voler mettere in discussione il proprio operato…
È quindi auspicabile che venga una fase aperta, libera da logiche di irregimentamento. E ben venga il dibattito; ma non quello che si faceva in certe assemblee, dove tutti parlavano e poi i capi davano la linea e chi non si atteneva veniva sprangato. Certo, qui nessuno spranga, ma qualche volta le sprangate intellettuali non sono meno pericolose.


(Il Mattino, 17 febbraio 2014)

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