“Perché
se muore il liceo classico muore il paese” era il titolo di un articolo
pubblicato su queste pagine [Il Mattino] a fine agosto 2013 e che ha avuto una grande
diffusione; è stato discusso largamente nelle scuole ed è capitato di sentirlo
citare nella presentazione dell’offerta formativa di alcuni licei classici. Si è
forse sviluppato in questi mesi un dibattito culturale che abbia difeso o
contestato la tesi di quell’articolo? Nulla di tutto ciò. La tecnica collaudata
per far passare un progetto senza discutere è ben nota: prima si lancia il
“ballon d’essai” provocatorio – la riduzione del liceo a quattro anni, la
riforma radicale del classico, il ridimensionamento della filosofia – poi si
assiste in silenzio alle reazioni, senza alimentare alcun dibattito, quindi si
torna alla carica su un altro terreno, quello dell’indottrinamento; il quale,
manco a dirlo, è rivolto agli insegnanti. È questa una categoria che ha mele
sane e marce come tutte ma che gode di uno speciale “privilegio” oltre a quello
di essere la più malpagata d’Europa: di essere l’oggetto speciale dell’attenzione
di “esperti” della scuola che si dedicano a riformarne le teste sulla base di
teorie insindacabili e al disopra di ogni possibile contestazione.
Forse
per sottrarsi a questa tecnica di indottrinamento coatto alcuni licei classici
romani hanno promosso incontri sul tema del futuro del liceo classico che
avrebbero dovuto mettere a confronto, su un piede di parità, difensori e
detrattori, in una sorta di processo, con tanto di accusa, difesa, giuria e
sentenza finale. Non posso dare un giudizio completo di come sia andata non
avendo partecipato alle iniziative, ma mi ha assai colpito la lettura dei
dettagliati rendiconti per due aspetti. In primo luogo, l’ammissione che l’accusa
era stata più nutrita, incisiva e coordinata, mentre la difesa era stata più
debole e minoritaria, il che suggerisce che forse non è stata scelta la
migliore politica degli inviti. In secondo luogo, e soprattutto, mi ha colpito la
sentenza finale espressa con una formula di pessimo gusto: all’imputato (il
liceo classico) «non arresti domiciliari ma impegno nei servizi sociali»…
Difatti,
le cronache raccontano il solito contenzioso, francamente ripetitivo: il liceo
classico è lontano dalla vita, manca di pratiche esperienziali, si arrocca su
una didattica fine a sé stessa, non collega lo studio delle lingue classiche
all’acquisizione di “competenze”, non contempla pratiche laboratoriali, e così
via. La ricetta del riscatto è prevedibile: rinnovamento delle pratiche
didattiche basate sull’acquisizione di “competenze” più che di “nozionistiche”
conoscenze, apertura al mondo esterno anche con l’alternanza scuola-lavoro.
Facciamo grazia al lettore di trascinarlo nella diatriba competenze/conoscenze
tipica della scolastica didattichese: una persona esterna a tale gergo
difficilmente può capire come si possa avere una buona conoscenza di qualsiasi
cosa senza saperne far uso (competenza), se non per colpa di un cattivo insegnamento.
Lasciamo anche perdere lo slogan sull’alternanza scuola-lavoro: o ci si spiega
in che modo può realizzarsi per certe materie o siamo alla pura chiacchiera da
bar. Ma quel che soprattutto colpisce è l’ostinazione. Se è vero – come ripete
l’accusa – che il calo di iscrizioni testimonierebbe che il liceo classico è
irrimediabilmente morente, e che esso se lo merita in quanto detestabile
relitto di una visione gentiliana e aristocratica della cultura, perché mai
agitarsi tanto? Il corso delle cose realizzerà l’esito agognato: rimarrà un
numero sempre più piccolo di persone, amanti della cultura classica, del
latino, del greco, della filosofia, che magari saranno utili per intrattenere i
residui relitti dei nostri beni culturali e mantenere un legame, ormai solo
sentimentale, con il passato su cui si è costruita la nostra identità. Il punto
è che il liceo classico, malgrado il declino delle iscrizioni, è lungi dal
rappresentare una fetta marginale dell’istruzione liceale italiana. E la
vitalità dei licei classici è lungi dall’essere spenta: chi frequenti le
presentazioni dell’offerta formativa resta colpito, al contrario, dal fatto che
questi licei, nonostante tutto, offrono l’immagine di una serietà, di un
entusiasmo, di un impegno e – diciamolo pure – di uno stile che contribuisce a
dare linfa all’intero sistema delle scuole superiori. E allora l’unica
spiegazione è un’ostilità di principio, incomprensibile per chi non capisce le
guerre di religione ed è convinto della positività dello sviluppo dei licei
scientifici e dell’assoluta necessità di restituire alla formazione tecnica e
professionale la qualità e il prestigio che appartengono alla tradizione
nazionale, in vista di una necessaria ripresa tecnologica del paese. Ma forse è
un’ostilità non tanto incomprensibile se l’intento è quello di puntare a
trasformare la scuola in un sistema di formazione di quadri per le imprese: le
manifestazioni di intenti in tal senso sono troppo smaccate per poterle
ignorare.
Nessuno
vuol negare a priori la necessità di miglioramenti didattici; al contrario, purché
questo venga fatto con serietà e – valga qui il termine – con competenza, e non
con slogan, come se ripetere “didattica laboratoriale” voglia dire di per sé
nulla di sensato (ad esempio, o si configura in modo serio e concreto cosa
possa essere un laboratorio di filosofia, o è meglio tacere). Ma la domanda è
un’altra. Qualcuno pensa davvero che, anche nella necessaria riqualificazione
di tutto il sistema dell’istruzione e anche concentrando l’attenzione sulla
formazione tecnica e professionale, non sia necessaria più cultura per tutti,
anche per chi andrà a fare l’elettricista o il panettiere? Qualcuno può credere
seriamente che si possa formare un buon cittadino, una persona capace di buoni
comportamenti emotivi e relazionali, che abbia senso etico, morale, senza aver
letto buoni libri, grandi romanzi, belle poesie (anche su un tablet), e senza aver
avuto almeno qualche sentore dei temi fondamentali della filosofia? Chi può
credere seriamente che si possa formare un buon cittadino rispettoso delle
leggi e dei principi della convivenza civile che non abbia ricevuto un’adeguata
conoscenza della storia che lo renda consapevole delle origini dei principi
della democrazia? Tutto questo deve esserci in ogni scuola, e non basta
certamente l’alternanza scuola-lavoro e il legame con il territorio a crearlo.
Quindi, più preparazione tecnica e maggiore concretezza, ma anche più cultura,
quella che non si mangia; più cultura dappertutto, nelle scuole di ogni ordine
e grado. E poiché il liceo classico è il luogo in cui – come tutti, convinti o obtorto
collo, concedono – viene dato il massimo spazio alla coltivazione di quelle
basi culturali che sono il fondamento della nostra identità italiana ed
europea, molto giustamente fu detto che “se muore il liceo classico muore il
paese”.
(Il Mattino, 26 aprile 2014)
4 commenti:
E' una vita che mi batto per questo e più vedo il mondo, più sento i mie studenti, più percepisco l'urgenza dell'educazione classica. Scrivo sul Suo blog proprio perché ho trovato finalmente qualcuno che non solo la pensa in un certo modo, ma lo scrive e ha visibilità.
Grazie, dunque, di una posizione finalmente scevra dall'effimero valore dell'attualità, delle mode, della rincorsa al nuovo fine a se stesso.
Mi colpisce, Professore, il suo passaggio circa l'idea che la scuola serva per formare quadri aziendali - non Sua, ovviamente, l'idea contro la quale Lei si batte. Perche' questa e' un'idea che si riferisce a un mondo imprenditoriale di cinquanta anni fa. Gia' allora il grande manager (e grande umorista) Robert Townshend descriveva l'organigramma, nel suo bellissimo "Viva l'Organizzazione" (Inglese: “Up the Organization”), come il "rigor mortis" dell'azienda, e da allora l'intero concetto di “quadri di azienda” e' diventato caso mai piu' antiquato e inutile.
Un paio di anni fa, Forbes Magazine pubblico' i risultati di uno studio nei mestieri che danno piu' felicita'/soddisfazione, e in quelli che ne danno meno. Lei non sara' ovviamente sorpreso che al vertice dei mestieri piu' soddisfacenti c'erano ecclesiastici, pompieri, fisioterapisti, scrittori, insegnanti per disabili, psicologi, artisti, maestri di scuola – e due mestieri apparentemente meno altruistici, operatori di grandi macchine (Forbes attribuisce questo al piacere di giocare con giocattoli giganti come gru, escavatori e bulldozers) e consulenti finanziari (un mestiere che, se fatto bene e onestamente, puo' anche dare lo stesso piacere di contatto e aiuto agli altri di quelli di terapista o sacerdote o insegnante). Piu' significativa e' la lista dei dieci mestieri piu' odiati da quelli che li fanno: 1. Director of Information Technology 2. Director of Sales and Marketing 3. Product Manager 4. Senior Web Developer 5. Technical Specialist 6. Electronics Technician 7. Law Clerk 8. Technical Support Analyst 9. CNC Machinist 10. Marketing Manager. (Praticamente non vale la pena di tradurre dall'inglese, tanti di questi posti.) Questi sono tutti “quadri” di livello teoricamente elevato, offerti a persone preparate e ambiziose. Forbes ha questo da dire: “[si tratta di] persone di livello relativamente alto, incarcerate in burocrazie gerarchiche. Non vedono nessun significato in quel che fanno. Le organizzazioni cui appartengono non sanno dove stanno andando, e quindi neanche loro lo sanno.”
“La cosa piu' triste,” continua Forbes, “e' che le organizzazioni per cui lavorano stanno crepando. Gli studi del Deloitte’s Center for the Edge dimostrano che la vita media di un'azienda della lista Fortune 500 e' calata da circa 75 anni mezzo secolo fa, a meno di 15 anni, e sta andando verso i 5. L'inutilita' che queste persone sentono nel proprio lavoro e' un accurato riflesso della condizione declinante delle aziende per cui lavorano...”
“Questi problemi non si risolvono ridisegnando l'organigramma...” No, dice Forbes, ci vogliono aziende come Amazon o Apple, in grado di ripensare le proprie strutture e il proprio ruolo. Ci vogliono, insomma, aziende fatte da uomini che PENSANO. E dove, esattamente, devono imparare a pensare, costoro? Io direi che le nostre scuole, nel passato, non se la sono cavata troppo male nel creare persone dalla mente attiva; e che il fatto che l'Italia sia stata per decenni tra i dieci paesi piu' avanzati del mondo non sia dovuto al caso. E quindi, per tornare all'inglese e all'ovvieta' dei proverbi – if it ain't broke, don't fix it.
Forse il nostro mondo confindustriale è proprio roba di mezzo secolo fa. Perché queste sono le idee esplicitamente portate avanti da Confindustria e da personaggi influenti di quel mondo come Celli.
La ringrazio, prof. Israel, per questa sua lucidissima analisi della realtà contemporanea. Nessuno nega l'importanza dell'inglese o dell'informatica, ma la base culturale umanistica resta sempre un prezioso biglietto da visita per tutti coloro che vogliono essere cittadini responsabili e autonomi nelle proprie scelte. Io personalmente, che insegno latino e greco nel Liceo Classico dal lontano 1980, ho sempre condannato questa mentalità pragmatista e americaneggiante che concepisce l'istruzione unicamente come finalizzata al mondo del lavoro o a ciò che "serve" nella vita quotidiana. La scuola non deve "servire", ma deve formare, creare delle personalità di persone colte e dotate di spirito critico.
Vorrei segnalarle il mio blog, che parla anche di questi argomenti e che la invito a seguire: http://profrossi.wordpress.com
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