A
proposito dell’intervista rilasciata a Orizzonte Scuola sull’Invalsi mi sono
state trasmesse e proposte le seguenti domande:
... potreste girare al professore l'unica domanda che non gli è
stata fatta e che io ho riproposto: come e con quali standard la scuola
abitualmente, nelle più varie materie, valuta le conoscenze di italiano,
storia, geografia, latino, storia dell'arte, matematica ecc.? Quanto la scuola
e gli insegnanti possono giustificare della robustezza teorica ed
epistemologica dei propri processi di valutazione? Perché, Alessandro, ce lo
siamo già detti, il problema non è Invalsi (ed anche le polemiche strumentali
che spesso ci stanno dietro) il vero problema è quale sia la reale cultura
della valutazione abituale e di routine nel nostro paese. Scuola compresa.
Ecco, queste domande gliele farei.
Ci interessa rendere confrontabili i sistemi di valutazione di
un Liceo di Milano con uno della provincia di Caltanissetta? Non si pensa che,
in un mondo globale, anche sapere che tipo di preparazione in letteratura, in
storia o in matematica, hanno in un Liceo romano debba essere confrontabile con
quella di un liceo di Berlino o di Parigi? I critici di Invalsi, si sentono
tranquilli di opporre la vecchia interrogazione o il vecchio tema per fare
questi confronti? Insomma quello che c'è già come sistema di valutazione da
decenni ci soddisfa? Oppure si potrebbero fare critiche severe, e forse anche
più severe, di quelle qui esposte da Israel? Al professore farei anche questi
quesiti. Sono certo che, dalle risposte, tutti avremo da apprendere qualcosa.
(N. Artico)
Inizio
dal punto cruciale: “robustezza teorica ed epistemologica dei processi di
valutazione”. Che cosa s’intende con questo? Vi è qualche ingenuità
nell’evocare un problema che percorre secoli di gnoseologia ed epistemologia e
che non possiamo certo risolvere in una chiacchiera su un blog o, peggio
ancora, su Facebook. È evidente che quando si parla di “robustezza” si allude
alla possibilità di un giudizio che abbia un carattere “oggettivo” e “universale”,
tale da poter confrontare i risultati di una scuola di Milano, di Palermo e di
Berlino. L’aspirazione all’oggettività assoluta è una stella polare della
scienza (e più in generale della conoscenza) ma che sia alla portata di qualche
ricetta semplice è peggio che ingenuo. Il regno dell’oggettività sembra essere
la matematica, eppure neppure qui le cose sono tanto semplici quanto credono o
vogliono far credere gli ignoranti. L’oggettività assoluta in matematica può
essere raggiunta soltanto adottando il punto di vista assiomatico, ovvero
svuotando totalmente di contenuto le costruzioni matematiche e riducendole a
procedimenti di logica formale. Resta poi il problema del loro rapporto con la
“realtà” e persino all’interno della matematica, per esempio con la geometria
che non è una branca puramente formale della matematica. Si può costruire una
geometria formalizzata che elude il problema della definizione contenutistica
dei suoi enti, ma poi il problema si ripresenta. Per due secoli il calcolo
infinitesimale è andato avanti senza una definizione “rigorosa” dei suoi
fondamenti: Eulero, che ha dato forse il massimo contributo allo sviluppo
classico di questa disciplina, lo definiva come il calcolo dei rapporti 0/0,
una definizione che garantirebbe oggi una bocciatura a un esame di analisi e
che certo didattichese ignorante definirebbe come una “misconcezione”. La
matematica è disseminata di “misconcezioni” e di nozioni controverse, ha come
pane quotidiano l’errore. Figuriamoci quando passiamo a scienze che non
consentono la fuga verso il formalismo logico, come la fisica, la biologia o le
scienze economiche… Siamo al punto che il Nobel Robert Aumann ha sostenuto che
la validità di una teoria si misura con il grado di consenso sociale che essa
ha conseguito… È davvero bizzarro che nell’epoca del relativismo, e del
relativismo assoluto – della credenza che non esistono verità indiscutibili e
assolute, al riparo da ogni possibile messa in discussione – sia tanto diffusa
l’ossessione per l’oggettività assoluta… È qualcosa che si può capire
psicologicamente, come il desiderio di afferrarsi a una solida ciambella di
salvataggio in mezzo a tanti flutti, ma gabellarlo per rigore epistemologico è
alquanto risibile.
Ed è
quindi ingenuo sperare di ottenere mediante i numeri l’agognata oggettività
assoluta, come se traducendo un concetto (le competenze, l’abilità) in numeri –
il che è già di per sé un’operazione quanto mai discutibile dal punto di vista
epistemologico – si fosse risolto il problema. Non è così. Come hanno scritto
nel report “Citation Statistics” la International Mathematical Union,
l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of
Mathematical Statistics, l’oggettività dei numeri è illusoria. L’operazione
soggiacente è ingenua e rozza: «La tendenza verso la trasparenza e
l’accountability ha prodotto una “cultura dei numeri” in cui le istituzioni e
gli individui credono che possano essere conseguite decisioni corrette mediante
la valutazione algoritmica di alcuni dati statistici: incapaci come sono di misurare la qualità (che è lo scopo finale) i
decision-makers sostituiscono la qualità con numeri che possono misurare».
Già,
ma i numeri si misurano, la qualità non si misura, per cui la sostituzione è
arbitraria e inconsistente.
Si
dice: ma non basta criticare questa tendenza, occorre anche criticare le
modalità di valutazione classiche. Facciamolo pure, ma a due condizioni: di non
mettere in campo un’idea ingenua di “robustezza epistemologica” – coincidente
con la pretesa ingenua che sia possibile raggiungere nella valutazione delle
qualità un’oggettività assoluta che non esiste neppure nelle scienze “dure” – e
di non fare troppa facile ironia sulla valutazione con i temi, le
interrogazioni e i voti. I quali sono nient’altro che la traduzione con un
numero della valutazione soggettiva
da parte dell’insegnante, o del consiglio di classe, delle competenze e delle
conoscenze dello studente. Lo scopo di una valutazione seria è di raggiungere
un grado quanto più possibile elevato di condivisione
intersoggettiva di tali giudizi inevitabilmente soggettivi: questa è la
sola forma sensata (ed epistemologicamente fondata) di ottenere una buona
valutazione. Il voto deve essere quindi espresso in forma trasparente e
motivata, discusso di fronte al dipartimento disciplinare – per esempio di matematica
– e di fronte al consiglio di classe. Per garantire il più possibile la
costruzione di valutazioni condivisibili e di accertare che esse siano
costruite in modo quanto più possibile equanime
e libero da qualsiasi forma di influenza estranea al contesto specifico, può
giovare il confronto campionario delle valutazioni tra scuole diverse, come si
fa in altri paesi. Una scuola di Milano trasmette le valutazioni di una classe
(con tutta la documentazione, compiti, ecc.) a una scuola di Napoli e riceve le
controdeduzioni. Il tutto viene sottoposto a una commissione di valutazione
della scuola.
Esiste
poi il vasto capitolo delle ispezioni, che ho descritto in altra sede, su cui
non mi dilungo.
Il
principio è che la valutazione di aspetti qualitativi e immateriali come la
conoscenza, le competenze, gli apprendimenti, deve essere considerata come un
processo culturale. La valutazione deve essere un processo di crescita
culturale, in cui diverse realtà si confrontano criticamente, nell’intento che
il “meglio” prevalga sul “peggio” e traini il sistema verso un miglioramento.
È
invece assolutamente puerile e distruttivo credere che una buona valutazione
“oggettiva” si ottenga con la standardizzazione.
Certo, una scuola di Milano e di Palermo sono diverse, anche perché esprimono
tradizioni culturali diverse. Davvero è intelligente e costruttivo pensare che
tali diversità debbano essere demolite mediante la fabbricazione di una cultura
didattica standardizzata – di una matematica uguale per tutti, di una letteratura
e di una filosofia identiche per tutti e così via – che appiattisca la varietà
culturale?
Si
accomodi chi vuol perseguire una simile idea da Brave New World.
Una
scuola di Parigi e una scuola di Roma, per non dire una scuola di Palermo ed
una di Pechino, non sono facilmente confrontabili? È ovvio, dietro vi sono
secoli di culture diverse, che esprimono una ricchezza e una varietà di
prospettive che è tristissimo pensare di abolire. Come ha detto Benedetto
Vertecchi, la minestra si mangia dappertutto, ma se si vuole la minestra
standardizzata resta soltanto l’acqua calda con (forse) un po’ di sale… Sarebbe
una gran bella esperienza spedire una scuola, o un gruppo di insegnanti tedeschi
a Pechino per confrontarsi sui modi diversi di insegnare la matematica. Ne
risulterebbe un arricchimento per entrambi, fermo restando che nessuno
desidererebbe distruggere le specificità culturali del proprio insegnamento, a
meno che non abbia una visione a dir poco riduttiva della cultura. Dovremmo
forse distruggere le specificità culturali perché è difficile valutare in modo
oggettivo e standardizzato una scuola di Parigi e una di Pechino? Scherziamo?
Certo, ci prova l’Ocse-Pisa con i suoi test, e non a caso i suoi risultati sono
sempre più screditati e privi di senso, tanto da aver suscitato una reazione
internazionale che si è concretizzata in un appello di gran rilievo.
Il
sistema di valutazione in atto da decenni va certamente perfezionato, non
lasciando all’arbitrio personale la valutazione, ma rendendola sempre più
trasparente, condivisa, intersoggettivamente accettata. Tutto ciò può essere
ottenuto con un lento, vasto e complesso processo di crescita culturale, in cui
debbono intervenire molti fattori oggi inesistenti, tra cui la formazione in
servizio degli insegnanti e il rapporto continuo tra scuola e università. Ma
dai corti circuiti della standardizzazione statistica, vade retro.