lunedì 30 giugno 2014

DOMANDE E RISPOSTE SULLA VALUTAZIONE

A proposito dell’intervista rilasciata a Orizzonte Scuola sull’Invalsi mi sono state trasmesse e proposte le seguenti domande:

... potreste girare al professore l'unica domanda che non gli è stata fatta e che io ho riproposto: come e con quali standard la scuola abitualmente, nelle più varie materie, valuta le conoscenze di italiano, storia, geografia, latino, storia dell'arte, matematica ecc.? Quanto la scuola e gli insegnanti possono giustificare della robustezza teorica ed epistemologica dei propri processi di valutazione? Perché, Alessandro, ce lo siamo già detti, il problema non è Invalsi (ed anche le polemiche strumentali che spesso ci stanno dietro) il vero problema è quale sia la reale cultura della valutazione abituale e di routine nel nostro paese. Scuola compresa. Ecco, queste domande gliele farei.
Ci interessa rendere confrontabili i sistemi di valutazione di un Liceo di Milano con uno della provincia di Caltanissetta? Non si pensa che, in un mondo globale, anche sapere che tipo di preparazione in letteratura, in storia o in matematica, hanno in un Liceo romano debba essere confrontabile con quella di un liceo di Berlino o di Parigi? I critici di Invalsi, si sentono tranquilli di opporre la vecchia interrogazione o il vecchio tema per fare questi confronti? Insomma quello che c'è già come sistema di valutazione da decenni ci soddisfa? Oppure si potrebbero fare critiche severe, e forse anche più severe, di quelle qui esposte da Israel? Al professore farei anche questi quesiti. Sono certo che, dalle risposte, tutti avremo da apprendere qualcosa. (N. Artico)

Inizio dal punto cruciale: “robustezza teorica ed epistemologica dei processi di valutazione”. Che cosa s’intende con questo? Vi è qualche ingenuità nell’evocare un problema che percorre secoli di gnoseologia ed epistemologia e che non possiamo certo risolvere in una chiacchiera su un blog o, peggio ancora, su Facebook. È evidente che quando si parla di “robustezza” si allude alla possibilità di un giudizio che abbia un carattere “oggettivo” e “universale”, tale da poter confrontare i risultati di una scuola di Milano, di Palermo e di Berlino. L’aspirazione all’oggettività assoluta è una stella polare della scienza (e più in generale della conoscenza) ma che sia alla portata di qualche ricetta semplice è peggio che ingenuo. Il regno dell’oggettività sembra essere la matematica, eppure neppure qui le cose sono tanto semplici quanto credono o vogliono far credere gli ignoranti. L’oggettività assoluta in matematica può essere raggiunta soltanto adottando il punto di vista assiomatico, ovvero svuotando totalmente di contenuto le costruzioni matematiche e riducendole a procedimenti di logica formale. Resta poi il problema del loro rapporto con la “realtà” e persino all’interno della matematica, per esempio con la geometria che non è una branca puramente formale della matematica. Si può costruire una geometria formalizzata che elude il problema della definizione contenutistica dei suoi enti, ma poi il problema si ripresenta. Per due secoli il calcolo infinitesimale è andato avanti senza una definizione “rigorosa” dei suoi fondamenti: Eulero, che ha dato forse il massimo contributo allo sviluppo classico di questa disciplina, lo definiva come il calcolo dei rapporti 0/0, una definizione che garantirebbe oggi una bocciatura a un esame di analisi e che certo didattichese ignorante definirebbe come una “misconcezione”. La matematica è disseminata di “misconcezioni” e di nozioni controverse, ha come pane quotidiano l’errore. Figuriamoci quando passiamo a scienze che non consentono la fuga verso il formalismo logico, come la fisica, la biologia o le scienze economiche… Siamo al punto che il Nobel Robert Aumann ha sostenuto che la validità di una teoria si misura con il grado di consenso sociale che essa ha conseguito… È davvero bizzarro che nell’epoca del relativismo, e del relativismo assoluto – della credenza che non esistono verità indiscutibili e assolute, al riparo da ogni possibile messa in discussione – sia tanto diffusa l’ossessione per l’oggettività assoluta… È qualcosa che si può capire psicologicamente, come il desiderio di afferrarsi a una solida ciambella di salvataggio in mezzo a tanti flutti, ma gabellarlo per rigore epistemologico è alquanto risibile.
Ed è quindi ingenuo sperare di ottenere mediante i numeri l’agognata oggettività assoluta, come se traducendo un concetto (le competenze, l’abilità) in numeri – il che è già di per sé un’operazione quanto mai discutibile dal punto di vista epistemologico – si fosse risolto il problema. Non è così. Come hanno scritto nel report “Citation Statistics” la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, l’oggettività dei numeri è illusoria. L’operazione soggiacente è ingenua e rozza: «La tendenza verso la trasparenza e l’accountability ha prodotto una “cultura dei numeri” in cui le istituzioni e gli individui credono che possano essere conseguite decisioni corrette mediante la valutazione algoritmica di alcuni dati statistici: incapaci come sono di misurare la qualità (che è lo scopo finale) i decision-makers sostituiscono la qualità con numeri che possono misurare».
Già, ma i numeri si misurano, la qualità non si misura, per cui la sostituzione è arbitraria e inconsistente.
Si dice: ma non basta criticare questa tendenza, occorre anche criticare le modalità di valutazione classiche. Facciamolo pure, ma a due condizioni: di non mettere in campo un’idea ingenua di “robustezza epistemologica” – coincidente con la pretesa ingenua che sia possibile raggiungere nella valutazione delle qualità un’oggettività assoluta che non esiste neppure nelle scienze “dure” – e di non fare troppa facile ironia sulla valutazione con i temi, le interrogazioni e i voti. I quali sono nient’altro che la traduzione con un numero della valutazione soggettiva da parte dell’insegnante, o del consiglio di classe, delle competenze e delle conoscenze dello studente. Lo scopo di una valutazione seria è di raggiungere un grado quanto più possibile elevato di condivisione intersoggettiva di tali giudizi inevitabilmente soggettivi: questa è la sola forma sensata (ed epistemologicamente fondata) di ottenere una buona valutazione. Il voto deve essere quindi espresso in forma trasparente e motivata, discusso di fronte al dipartimento disciplinare – per esempio di matematica – e di fronte al consiglio di classe. Per garantire il più possibile la costruzione di valutazioni condivisibili e di accertare che esse siano costruite in modo quanto più possibile equanime e libero da qualsiasi forma di influenza estranea al contesto specifico, può giovare il confronto campionario delle valutazioni tra scuole diverse, come si fa in altri paesi. Una scuola di Milano trasmette le valutazioni di una classe (con tutta la documentazione, compiti, ecc.) a una scuola di Napoli e riceve le controdeduzioni. Il tutto viene sottoposto a una commissione di valutazione della scuola.
Esiste poi il vasto capitolo delle ispezioni, che ho descritto in altra sede, su cui non mi dilungo.
Il principio è che la valutazione di aspetti qualitativi e immateriali come la conoscenza, le competenze, gli apprendimenti, deve essere considerata come un processo culturale. La valutazione deve essere un processo di crescita culturale, in cui diverse realtà si confrontano criticamente, nell’intento che il “meglio” prevalga sul “peggio” e traini il sistema verso un miglioramento.
È invece assolutamente puerile e distruttivo credere che una buona valutazione “oggettiva” si ottenga con la standardizzazione. Certo, una scuola di Milano e di Palermo sono diverse, anche perché esprimono tradizioni culturali diverse. Davvero è intelligente e costruttivo pensare che tali diversità debbano essere demolite mediante la fabbricazione di una cultura didattica standardizzata – di una matematica uguale per tutti, di una letteratura e di una filosofia identiche per tutti e così via – che appiattisca la varietà culturale?
Si accomodi chi vuol perseguire una simile idea da Brave New World.
Una scuola di Parigi e una scuola di Roma, per non dire una scuola di Palermo ed una di Pechino, non sono facilmente confrontabili? È ovvio, dietro vi sono secoli di culture diverse, che esprimono una ricchezza e una varietà di prospettive che è tristissimo pensare di abolire. Come ha detto Benedetto Vertecchi, la minestra si mangia dappertutto, ma se si vuole la minestra standardizzata resta soltanto l’acqua calda con (forse) un po’ di sale… Sarebbe una gran bella esperienza spedire una scuola, o un gruppo di insegnanti tedeschi a Pechino per confrontarsi sui modi diversi di insegnare la matematica. Ne risulterebbe un arricchimento per entrambi, fermo restando che nessuno desidererebbe distruggere le specificità culturali del proprio insegnamento, a meno che non abbia una visione a dir poco riduttiva della cultura. Dovremmo forse distruggere le specificità culturali perché è difficile valutare in modo oggettivo e standardizzato una scuola di Parigi e una di Pechino? Scherziamo? Certo, ci prova l’Ocse-Pisa con i suoi test, e non a caso i suoi risultati sono sempre più screditati e privi di senso, tanto da aver suscitato una reazione internazionale che si è concretizzata in un appello di gran rilievo
Il sistema di valutazione in atto da decenni va certamente perfezionato, non lasciando all’arbitrio personale la valutazione, ma rendendola sempre più trasparente, condivisa, intersoggettivamente accettata. Tutto ciò può essere ottenuto con un lento, vasto e complesso processo di crescita culturale, in cui debbono intervenire molti fattori oggi inesistenti, tra cui la formazione in servizio degli insegnanti e il rapporto continuo tra scuola e università. Ma dai corti circuiti della standardizzazione statistica, vade retro.


martedì 24 giugno 2014

INTERVISTA A ORIZZONTE SCUOLA SULL'INVALSI


Intervista a Orizzonte Scuola:


1   In un suo intervento di qualche giorno fa comparso sul quotidiano Il Mattino ha scritto di essere rimasto a bocca aperta di fronte all’affermazione, fatta da una collaboratrice dell’istituto Invalsi, secondo cui i loro strumenti di misurazione sarebbero simili a quelli delle scienze sperimentali.  Quali sono, invece, i limiti più evidenti?

Chiunque abbia un minimo di cultura storico-scientifica sa che il problema del trasferimento dei metodi usati dalle scienze sperimentali e fisico-matematiche nel contesto dei fenomeni inanimati ai fenomeni della vita o della sfera umana ha suscitato riflessioni di estrema complessità che si protraggono da più di due secoli e sono tutt’altro che concluse. Affermare con tanta leggerezza che l’Invalsi avrebbe apprestato strumenti di misurazione di fattori immateriali quali le competenze o le abilità, analoghi a quelli in uso in un laboratorio di fisica, è indice di un’ignoranza tanto profonda quanto irresponsabile per la ridicola arroganza che l’accompagna. Non posso certamente qui mettermi a fare un trattato sulla tematica suddetta, di cui peraltro mi occupo e su cui ho scritto da più di trent’anni. Dico soltanto che la misurazione nelle scienze sperimentali riguarda grandezze che sono definibili almeno in termini operativi in modo oggettivo e indipendente da variabili ausiliarie (altrimenti, neppure la temperatura sarebbe una grandezza misurabile). Pertanto esiste una definizione (ripeto, anche solo operativa) delle grandezze fondamentali della fisica, che è il fondamento di procedure di misurazione esatte e di valore intersoggettivo (entro i limiti della teoria degli errori). “Grandezze” come la competenza o l’abilità non sono suscettibili di alcuna definizione condivisa e quindi nessuno saprebbe indicarne l’unità di misura. Oltretutto, non è affatto detto che siano rappresentabili mediante un solo numero, bensì (ammesso e non concesso che siano di natura numerica) appare ovvio che abbiano un carattere multidimensionale, senza che nessuno abbia la minima idea di come identificare queste dimensioni. È una situazione del tutto analoga a quella che si ha in economia matematica con il concetto di “utilità”: esso è suscettibile di rappresentazioni numeriche, ma nessuno ha la chiave per eliminare le funzioni ausiliarie che intervengono nella sua definizione per renderlo “oggettivo” e comunque  si badi bene – limitatamente all’utilità di un singolo soggetto: possso dire che, per una data persona, l’utilità di una banana è maggiore dell’utilità di un cetriolo, ma è impossibile confrontare le utilità di due persone diverse. Allo stesso modo, non esiste alcun modo per confrontare le competenze (rappresentate in numeri) di due soggetti diversi. So bene come vengono “scavalcate” queste difficoltà: fornendo definizioni puramente formali dell’“oggettività”, delle “variabili” in gioco e anche della nozione di misurabilità e quindi facendo dipendere tutto da un modello matematico-statistico di cui peraltro si dice esplicitamente che non è suscettibile di verifica empirica… Questo è un gioco formale. Ognuno si diverte come può, ma appendere le sorti della scuola italiana a questi giochetti nel vuoto – che ben conosce chi abbia frequentato la modellistica matematica – non è responsabile, tanto meno se ci si rifiuta categoricamente di mettere in discussione il proprio operato e ci si limita a presentarlo come una verità rivelata.

2   Se i test di cui si serve l’Invalsi non possono, per loro limiti oggettivi, misurare la qualità degli apprendimenti, di conseguenza non sono efficaci nemmeno per valutare la qualità dell’insegnamento?

Se i test Invalsi venissero apprestati con ambizioni esattamente opposte a quelle sventolate in quella sfortunata intervista, e cioè se avessero ambizioni minimali, di verifica di competenze o conoscenze assolutamente imprescindibili a un certo livello di scolarità, potrebbero essere assai utili. Un buon insegnante di matematica può stendere facilmente un elenco di ciò che si richiede a uno studente di quinta elementare o di terza media, e così un insegnante di italiano sa quali sono le competenze grammaticali imprescindibili a un certo livello, ed entrambi saprebbero come preparare dei semplici test per verificare l’esistenza di queste competenze. Se ne potrebbero ricavare utili indicazioni. Il grottesco inizia quando si pretende di costruire marchingegni che dovrebbero valutare aspetti complessi e quando si mira a sostituirsi al giudizio articolato dell’insegnante o del consiglio di classe (o di dipartimento). Qui non ci siamo proprio. Ammesso, e non concesso, che dai test Invalsi esca una valutazione indiscutibilmente oggettiva – il che potrebbe essere soltanto al livello minimale di cui dicevo prima – questo non autorizza a esprimere un giudizio sull’insegnante. Se questi opera in una realtà “facile” può risultare bravissimo pur non dovendo fare molti sforzi per migliorare la qualità degli apprendimenti, mentre un ottimo insegnante che opera in una realtà sociale disastrosa risulterà un incapace. L’unico modo di valutare gli insegnanti è quello diretto: mi sono già soffermato su questo tema in una precedente intervista. Vorrei aggiungere che in uno dei rarissimi confronti avuto con i sapientoni dell’Invalsi mi è stato significato che quando loro parlano di “oggettività” non si riferiscono affatto al significato classico nell’epistemologia scientifica e filosofica (e che poi è trapassato nel senso comune, o piuttosto è derivato da questo…) bensì al fatto che gli esiti dei test sono valutati con procedure standardizzate che non consentono l’intervento del correttore, che si limita ad applicarle, e quindi in tal senso sono “oggettivi”. Non so se questa sia una via di fuga dettata dall’imbarazzo, ma di certo se questo fosse il significato limitatissimo di oggettività, il raffronto con le scienze sperimentali sarebbe senza senso. Si ha la netta impressione di trovarsi di fronte a un gioco delle tre carte: secondo le circostanze gli esperti dell’Invalsi si presentano come i Galileo della valutazione delle qualità o come dei modesti artigiani di semplici tecniche statistiche.

3    Molti docenti condividono le sue critiche, così ‘subiscono’ le prove Invalsi come un’amara medicina a cui non ci si può sottrarre. Altri, però, li utilizzano come uno strumento di verifica del loro lavoro. Che cosa avrebbe da dire a questi ultimi?

È semplice. Di recente, ho condotto, assieme ad alcuni colleghi (universitari e insegnanti di scuola) un lavoro protrattosi parecchi giorni con un paio di scuole, per l’aggiornamento, l’innovazione e la ricerca didattica. È stata un’esperienza davvero utile ed entusiasmante da entrambi i lati. Ci siamo trovati di fronte a insegnanti (e dirigenti) di alto livello attivi e profondamente coinvolti. Il modo più sintetico per esprimere la convinzione che quegli insegnanti e quelle scuole operano a un livello di autentica eccellenza è che non avremmo esitazioni ad affidare loro i nostri figli. Quale è stata la sorpresa nell’apprendere che si trattava di scuole e di insegnanti che avevano avuto un pessimo esito nei test Invalsi... e che, poveretti, stavano affrontando il tentativo di capire se qualcosa andava cambiato nel loro modo di insegnare. Ora, se qualcuno mi venisse a dire che un giudizio non solo mio, ma di parecchie persone, unanime e non incerto e a mezza strada, ma deciso nel senso dell’eccellenza, è sbagliato perché lo dicono i test dell’ente, sarebbe come pretendere di convincere che l’erba è rossa perché risulterebbe da certi esperimenti dichiarati “oggettivi”. Se i collaboratori dell’Invalsi avessero un minimo di spirito scientifico, la prima cosa che dovrebbero fare è di verificare sul campo se certi esiti negativi risultanti dai loro test non cozzino contro l’evidenza, e in tal caso dovrebbero mettere in discussione i metodi usati. Se un esperimento fisico predice qualcosa che contraddice fatti ovvi e acclarati, un ricercatore serio non nega o ignora i fatti, ma mette in discussione l’esperimento e riesamina i metodi usati da cima a fondo. E si badi bene: basta un solo esito clamorosamente non credibile (uno solo!) per imporre di mettere tutto in discussione: questo è metodo scientifico. Brutalizzare la realtà con test e modelli è un comportamento da moderno don Ferrante. Posso anche citare il caso di una maestra che si è rivolta a me disperata, poiché la sua classe aveva avuto un cattivo esito nei test Invalsi di matematica e mi ha sottoposto i suoi metodi, i testi usati ecc. Dopo attento esame ho sentito il dovere morale di rincuorarla in tutti i modi perché mi sono trovato di fronte a una vera ingiustizia. Non basta: esistono molti casi opposti – e di cui ho diretta conoscenza – e cioè di studenti con un rendimento scolastico pessimo, sempre in matematica, nel corso di tutta la scuola media, che hanno avuto un esito trionfale nei test Invalsi all’esame di licenza, e poi al liceo hanno ricominciato a prendere gravissime insufficienze. Visto che si trattava di insegnanti diversi non viene il dubbio di trovarsi di fronte a elementi di valutazione assai più “oggettivi” del test di terza media? In conclusione, consiglio gli insegnanti che mettono in discussione i loro metodi sulla base degli esiti dei test Invalsi di andarci piano: non dico di non considerarli, ma di inserirli in un contesto molto più ampio, con molta razionalità e molto spirito critico, perché potrebbe darsi che quegli esiti dicano qualcosa, ma – anche in casi negativi – potrebbero costituire una conferma della bontà dei metodi seguiti e persino di suggerire l’opportunità di proseguire sulla via già seguita, approfondendola e migliorandola. Soprattutto non debbono cascare nella trappola gli insegnanti che continuano a fare didattica ordinaria evitando giustamente di fare “teaching to the test” perché sono sistematicamente penalizzati rispetto agli insegnanti che si comportano in modo opposto.

4    Perché secondo lei l’Italia ha intrapreso la strada delle prove oggettive standardizzate? Per le forti pressioni internazionali? Per l’incapacità di elaborare un modello alternativo di monitoraggio sul sistema di istruzione più adatto alla nostra storia culturale? Per un’insana tendenza all’ipertrofia istituzionale?

Per lo stesso conformismo che, sotto lo slogan falso “l’Europa lo vuole” (all’estero si fa così, ecc.) ha indotto a introdurre all’università la disastrosa riforma universitaria del 3 + 2, e a costruire due enti di valutazione, l’Anvur  e l’Invalsi, rispettivamente per l’università e la scuola. Si noti che in Francia l’Anvur è stato praticamente soppresso e in numerosi paesi sono state eliminate le valutazioni bibliometriche della ricerca (ovvero basate sul calcolo delle citazioni). Mi diceva un collega di recente incluso nel gruppo di valutazione del sistema di ricerca francese, che il gruppo ha ricevuto la perentoria indicazione di astenersi da valutazioni bibliometriche. Invece da noi queste metodologie impazzano indisturbate. Non solo: un ente come l’Anvur, che doveva – secondo tutte le promesse – limitarsi a fare una valutazione ex-post della qualità del sistema universitario e della ricerca, è riuscito a prendere in mano tutto e di fatto è diventato il totale controllore del sistema, tagliando fuori il Ministero e il Consiglio Universitario Nazionale, e inondando l’università di un complesso di deliranti prescrizioni che la stanno trasformando in un sistema in cui, come si è detto, tra poco due ricercatori che verranno sorpresi a scambiarsi lavori scientifici verranno puniti per essere “improduttivi”. L’Invalsi, al momento, è ancora ferma alla funzione di valutazione del sistema, ma con il test che fa media all’esame della scuola secondaria di primo grado, ha già messo un piede nel controllo diretto della valutazione. Il passo successivo è l’introduzione del test Invalsi all’esame di maturità, o addirittura (come qualcuno ha detto esplicitamente) la soppressione di questo esame e la sua sostituzione con un test Invalsi. In tal modo, si passerebbe alla progressiva eliminazione della valutazione da parte dell’insegnante. Se poi – come è stato già prospettato, anche dall’attuale ministro – si passasse alla valutazione degli insegnanti mediante i test Invalsi, il controllo sarebbe totale e l’insegnante sarebbe ridotto a un passacarte delle prescrizioni dell’Invalsi: potrebbe limitarsi a fare addestramento a superare i test con i libercoli che già sono in giro, talora confezionati dagli stessi collaboratori dell’Invalsi, e sperare che i propri allievi superino bene i test in modo da essere ben valutato e ottenere aumenti di stipendio. Una prospettiva squallida… Ho citato l’Anvur perché a livello universitario l’“opera” distruttiva è più avanzata e indica chiaramente cosa attende la scuola. Ipertrofia istituzionale? Direi piuttosto un’attrazione fatale verso il predominio delle forme di controllo burocratico-amministrativo: del resto, in questi tempi non si ripete continuamente che per salvare il paese occorre liberarlo dalla stretta della burocrazia? È una triste eredità della nostra storia: la sintesi tra dirigismo di tipo fascista (la scuola è stata governata da personaggi del clan Bottai per lunghi anni dopo la fine della guerra) e costruttivismo didattico-pedagogico sedicente “progressista”.

5    Nel suo affondo ha scritto anche di non fidarsi della qualità del lavoro dell’ente e che, come tutti del resto, resta in attesa di conoscere quale sarà l’orientamento programmatico del nuovo Presidente. Quale sarebbe a suo avviso la cosa più saggia da fare in questo momento? Posto che l’Invalsi c’è e che difficilmente verrà smantellato, quali correttivi dovrebbe apportare per rendere i suoi interventi in qualche modo più razionali e utili?

A parte tutte le critiche che ho avanzato prima, insisto sul fatto che quel che è estremamente grave è che si sia creato nell’ente un gruppo inamovibile di collaboratori che si rifiuta di accettare qualsiasi confronto aperto. Proprio di recente sono stato coinvolto nel tentativo di un siffatto confronto e alcuni di questi collaboratori hanno enunciato un elenco di condizioni sotto le quali esso poteva verificarsi che praticamente lo rendevano inutile e umiliante per chi vi avesse partecipato. Voglio ancora ricordare un fatto scandaloso di qualche settimana fa: un collaboratore ha inviato un articolo anonimo a un quotidiano in rete criticando aspramente il presidente per aver osato dire che vanno evitati i test a trabocchetto ed ha asserito, sulla base della sua parola anonima, che il presidente aveva chiesto scusa ai collaboratori dell’ente… È un clima sano questo? È sano il clima di un ente in cui un collaboratore rilascia un’intervista in cui delinea le linee guida dell’ente (con asserzioni ridicole come quella di cui abbiamo parlato all’inizio), invece di attendere la fine dell’attuale ciclo di test e lasciare la parola al presidente? È sano il clima di un ente in cui non esistono procedure chiare di reclutamento dei collaboratori, un termine al loro contratto, ovvero una sana rotazione, verifiche di qualità del loro lavoro, in cui non si sappia come vengono scelti i 250 professori che collaborano al lavoro biennale di preparazione dei test? Vengono scelti con il criterio dell’“amico” e dell’“amico dell’amico”, e perché un collaboratore anziano dice che sono bravi? Un ente del genere può accampare la pretesa di valutare “oggettivamente” l’intero sistema dell’istruzione? Quindi, intanto vanno chiariti tutti questi aspetti, e poi occorre ragionare seriamente sul tipo di test da proporre, se continuare con il sistema censuario piuttosto che con quello campionario, e soprattutto aprire l’ente alla ricerca didattica. Aprire, aprire le finestre… L’ente deve diventare una casa di vetro, e aiutare la scuola a migliorarsi in modo discreto e senza dirigismi da paese totalitario.

     Cambierebbe qualcosa nel suo giudizio se l’Invalsi fosse veramente indipendente dal Miur e se rispondesse soltanto al Parlamento?


Ma l’Invalsi è già indipendente da tutto per le ragioni che ho elencato. Non c’è controllo sulle modalità di reclutamento dei suoi collaboratori, sulla qualità del suo lavoro, sul suo operato. È persino indipendente dal suo presidente… Il controllo del Parlamento è insufficiente se si riduce a qualche seduta di commissione contrassegnata dall’assenteismo, in cui il presidente svolge una relazione per respingere tutte le critiche senza che vengano ascoltati gli argomenti tecnici dettagliati di coloro che le hanno avanzate. È quel che si è visto di recente nel caso dell’Anvur. Gli enti di valutazione possono essere dotati di autonomia a tre condizioni: 1) di avere uno statuto assolutamente limpido che preveda rotazioni dei consulenti ed escluda la possibilità che singoli o gruppi si aggrappino all’ente come patelle a uno scoglio; 2) di non avere alcun potere di guida e di controllo del sistema dell’istruzione, ma soltanto una funzione di valutazione ex post dello stato generale del sistema; 3) di essere assoggettato a controlli periodici del proprio operato da parte di altri organismi tecnici che forniscano materia di valutazione al Parlamento. Sia ben chiaro: la caratteristica della democrazia è di essere basata su un sistema di pesi e contrappesi, per cui nessun organo può detenere un potere esente da qualsiasi forma di controllo incrociato. Nel momento in cui un’istituzione assume una siffatta posizione irresponsabile, è la fine della democrazia. Non a caso, il potere illimitato dell’Anvur ha significato la morte dell’autonomia universitaria, a meno che non si cambi radicalmente la situazione. Speriamo che non accada la stessa cosa per la scuola e che l’autonomia (strombazzata a ogni pié sospinto) muoia assieme alla libertà d’insegnamento: l’intrusione dei test Invalsi nella valutazione degli studenti e il Tar che decide se uno studente deve essere promosso o no, sono sintomi chiari in questa direzione. Il che non significa – ripetiamolo, a scanso di equivoci – che un insegnante non debba essere valutato. È impensabile che mentre si parla di responsabilità civile dei giudici non esista quella dell’insegnante di operare bene. Ma la valutazione deve essere una cosa seria, condotta sui contenuti e non mediante i test Invalsi.

giovedì 19 giugno 2014

COMMENTI SULL'ESAME DI MATURITA'

Domani avranno inizio gli esami di maturità e già sta per partire il rito consueto: la pubblicazione delle “tracce” dei temi di italiano, con i commenti di noti letterati, intellettuali ed editorialisti; poi sarà la volta delle versioni di latino e di greco, del problema di matematica, anche qui con i consueti commenti degli specialisti. È un rito che ha un senso, perché corrisponde a un’idea dell’esame di maturità consolidata negli anni, e che appartiene alla memoria non solo degli anziani, ma anche di tanti giovani: un passaggio cruciale nella vita, una sorta di rendiconto, di bilancio finale di tanti anni di scuola, che è preceduto da un impegno finale che è l’acme del periodo della prima giovinezza. Questo è stato l’esame di maturità per quasi tutti, anche per i più giovani, anche se negli ultimi anni si è attenuata la durezza di questo passaggio che faceva sì che i meno giovani se lo ricordassero (e persino lo sognassero) per anni, ma anche in termini positivi, come una tappa e una conquista memorabile nella propria vita.
In realtà, continuiamo a ripetere il rito, ma del passaggio memorabile è rimasto poco o niente. Difatti, la portata dell’esame di maturità è stata depotenziata, svuotata: conta poco o niente ai fini dell’accesso alle università e, nel caso specifico della facoltà di medicina, il sistema della selezione test d’ingresso ne ha definitivamente annullato il valore. Pertanto, possiamo continuare a sviluppare le nostre elucubrazioni sui testi di esame, ma i giovani esaminandi hanno tutte le ragioni di assegnare un’importanza assai modesta a questo passaggio. Quel che è davvero triste è che il cambiamento è avvenuto in modo surrettizio, diciamo pure ipocrita; e verrebbe voglia di aggiungere, “all’italiana”. Noi ce ne asteniamo perché siamo contrari alla cattiva abitudine dell’autofustigazione nazionale. Ma certo, come ignorare il fatto che da noi le “riforme” si fanno sempre così, mai a viso aperto, mai in una volta sola, sempre a pezzi e a bocconi per non attirare l’attenzione e mettere di fronte al fatto compiuto? La tecnica è collaudata. Si cominciano a lanciare “ballon d’essai” quanto più possibile radicali: nella fattispecie, si parla di abolire seccamente l’esame di maturità, o di sostituirlo con un “portfolio” che attesti il percorso scolastico seguito, o addirittura con una prova Invalsi. I “lanci” vengono amplificati, tanto per abituare alla prospettiva di un cambiamento radicale, all’abbandono del vecchio arnese dell’esame di stato. E poi, senza discussione e senza motivazioni esplicite, si comincia a sbocconcellare il vecchio arnese, riducendolo a una vuota formalità. È una prassi che è in atto sul tema della riduzione del liceo a quattro anni. Prima si “sperimenta” la novità in alcuni licei, poi se ne aggiungono alcuni altri, poi si continua a martellare sulla opportunità della “riforma”, che intanto va in porto dietro le quinte. Allo stesso modo è passata la sperimentazione dell’alternanza scuola-lavoro nei due ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado, con un decreto di pochi giorni fa che è un trionfo dello stile dei burosauri, e che lascia aperta ai limiti del comico la questione di cosa mai potrà dare in termini di formazione a uno studente dei licei scientifici o classici una delle (quasi tutte) piccole o medie aziende italiane.
 La “sperimentazione” è la parola magica con cui da noi si fanno le riforme, a pezzi e a bocconi, per accontentare questa o quella corporazione, nell’assoluta assenza di un disegno organico e con l’esito (collaudato da un trentennio) di scassare il sistema senza costruire nulla di sensato.
Sia ben chiaro. Non siamo nostalgici dei tempi che furono. Ci è perfettamente chiaro che è improponibile un esame di stato in cui in un colpo solo ci si gioca tutta la carriera scolastica. Si rifletta – esplicitamente e meditatamente – sui cambiamenti opportuni, tra cui un maggiore peso per la carriera scolastica. Ma è inammissibile che, in un sistema d’istruzione in stragrande prevalenza pubblico, non esista una prova finale, un giudizio di valore riconosciuto, senza cui la carriera scolastica si riduce a una inutile sceneggiata: perché impegnarsi a studiare seriamente per un titolo che non vale niente? E in cambio di cosa? Della riduzione dell’accesso alle facoltà universitarie mediante quiz sulla cui qualità ormai è maramaldesco insistere? Eppure il modo in cui si evita di discutere i problemi autentici dell’accesso alla facoltà di medicina sembra indicare che dai quiz non ci sarà verso di liberarsi.
Sarà inutile, ma tanto vale chiederlo: ci si fermi. Si restituisca alla scuola un serio esame di maturità in cui il tema d’italiano sia l’occasione per gli studenti di esibire la capacità di scrivere in una bella lingua su un argomento mentalmente aperto e non dettato dalle coercizioni del burocratese e del politicamente corretto e che, assieme alle altre prove, costituisca il traguardo finale del lungo percorso scolastico che, come tutti i traguardi, dia luogo a una valutazione avente un valore per il futuro. Altrimenti, meglio smettere il rito ipocrita di parlare di merito e di rigore.

(Il Mattino, 17 giugno 2014)
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Dopo tanti anni di ripetute delusioni i temi di italiano per la prova di maturità del 2014 costituiscono una piacevole e positiva sorpresa, un ritorno alla qualità e al buon senso. Ciò fa sperare che, commentandoli, non stiamo ripetendo uno stanco rito attorno a una realtà agonizzante ma stiamo salutando l’inizio della riqualificazione di un esame che, per dirla col ministro Giannini, è tutt’altro che invecchiato e rappresenta lo spartiacque tra la fine della scuola e l’inizio di una nuova vita proiettata verso il lavoro.
Poco vi è da dire sul brano proposto per l’analisi del testo, che non è il temuto brano pseudo-letterario ma una bellissima poesia di Salvatore Quasimodo,  uno dei nostri migliori poeti contemporanei; così come sono quasi tutti indovinati i brani che offrono materia per il saggio breve sul tema “il dono”. Non siamo d’accordo con chi ha trovato generici i temi di ordine generale ispirati rispettivamente alla frase di Renzo Piano sul “rammendo delle periferie” di un paese “straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile”, e alle differenze tra l’Europa del 1914 e l’Europa del 2014. Si è temuto che la loro indubbia difficoltà potesse aver aperto la strada alla chiacchiera generica. Ma il tema “libero” – non dispiaccia a chi lo proscrive a priori – ha proprio questa virtù quando è ben formulato, e cioè di mostrare se il candidato possiede un retroterra di conoscenze e una capacità riflessiva atte a riempire pagine piene di contenuti e non di logorrea evasiva. Va apprezzato il fatto che è stata evitata la caduta banale sull’attualità per trasferire la riflessione sullo stato attuale della costruzione europea entro un rigoroso confronto storiografico basato su temi precisi: forme istituzionali, stratificazione sociale, rapporti tra cittadini e istituzioni e tra stati, ecc. È altresì chiaro che sviluppare una riflessione su cosa può concretamente significare un “rammendo delle periferie” è tutt’altro che facile ma chiama allo sforzo di dire qualcosa di concreto e soprattutto di costruttivo e positivo: è facile immaginare quale diluvio di chiacchiere puramente negative avrebbe prodotto un tema sul “degrado delle periferie” (ecco l’esempio di un cattivo tema libero). Troviamo apprezzabile anche la scelta degli argomenti dei saggi brevi in ambito tecnico scientifico (“Tecnologia pervasiva”), socio economico (“Le nuove responsabilità”), storico-politico (“Violenza e non violenza: due volti del Novecento”); e tuttavia con due riserve. Soprattutto gli ultimi due erano effettivamente un po’ troppo generici e si prestavano alla divagazione inconcludente. Tuttavia, mentre la buona scelta dei testi relativi al tema sulla violenza e non violenza (Mosse, Benjamin, Arendt, Ghandi, King) era tale da contenere tale possibile deriva, i testi scelti per gli altri due temi erano francamente molto al di sotto di quel che può offrire la saggistica in materia. Su un argomento complesso e controverso come la portata sociale e culturale delle nuove tecnologie sono disponibili riflessioni ben più profonde e atte a sviluppare lo spirito critico dei brani modesti che sono stati proposti ai candidati.
 (Il Messaggero, 19 giugno 2014)