giovedì 19 giugno 2014

Ricordo di Luciano Tas: nel suo sorriso un'anima generosa

Con Luciano Tas l’ebraismo italiano perde una delle sue menti più vivaci e libere; una mente capace di muoversi nelle sempre nuove sfide della realtà con illimitata curiosità e senza pregiudizi. Sono proprio quelle qualità di cui v’è assoluto bisogno in un momento tanto difficile per l’ebraismo europeo.
La mia amicizia di quasi trentacinque anni con Luciano nacque proprio dalla sua curiosità: nel caso specifico, di conoscere chi fosse quel giovane ebreo che si era permesso di scrivere una lettera aperta di sette cartelle a Luciano Lama per contestare il famoso episodio della bara deposta davanti al Tempio Maggiore durante un corteo sindacale e le sue ambigue dichiarazioni in proposito. Ricordo come oggi la sua telefonata, il primo incontro, l’assidua frequentazione che ne nacque, la collaborazione intensa con Shalom, di cui Luciano era una delle colonne portanti quando il mensile era diretto da Lia Levi. Come chiunque lo abbia conosciuto, fui colpito dallo spessore della sua vita sorprendente e avventurosa: da quando sedicenne sfuggì alle persecuzioni razziali traversando le montagne per la Svizzera, alle tante attività al suo ritorno in Italia (tra cui, per cinque anni, l’intagliatore di diamanti), all’impegno ventennale per i diritti degli ebrei sovietici, ai tanti brillanti contributi giornalistici, alla “Storia degli ebrei italiani”. Ma non è una sintesi biografica che desidero tentare, e che neppure sono il più titolato a fare. Voglio piuttosto dire che l’incontro con la vita di Luciano non poteva che essere l’incontro con una vitalità prorompente. Se ripenso alla sua persona, il ricordo più intenso che mi viene alla mente è il sorriso con cui egli ti accoglieva sulla porta della sua casa, un sorriso con cui offriva interamente tutta la sua anima generosa e affettuosa e che esprimeva il desiderio, quasi l’ansia, di comunicare. Era un sorriso che ha aperto tante serate di interminabili conversazioni con lui e Lia, tante cene – perché Luciano era un gran cuoco, originale e creativo – e le giornate di sole passate a Castel di Tora. Ma forse per me e mia moglie il legame più profondo è dovuto al fatto che Luciano è stato il padrino di entrambi i nostri figli, Alberto e Giacomo, che ha tenuto in grembo durante la milà. Proprio il ricordo dell’intensità con cui egli volle proporsi in questo ruolo, mi spinge a mettere in luce l’aspetto più profondo dell’ebraicità di Luciano Tas. Egli era legato alle tradizioni dell’ebraismo, al senso profondo dei riti e di ciò che rappresentano come filo di continuità storica del popolo. Ma se questo attaccamento comportava un grande rispetto per la dimensione religiosa, Luciano era anche intimamente laico, non nel senso comune e spesso abusato della parola: egli aveva un’idea dell’identità ebraica molto larga e inclusiva che andava assai al di là dell’osservanza dei precetti. Di qui la posizione critica che assunse in modo sempre più marcato nel corso degli anni – e sulla quale ci siamo trovati in piena sintonia – nei confronti di un eccesso di ortodossia tendente a restringere pericolosamente il perimetro dell’ebraicità, e quindi anche a indebolire la presenza ebraica nel contesto culturale. Sono convinto che questo atteggiamento riflettesse l’importanza primaria attribuita ai valori spirituali rispetto a vuoti formalismi. Anche se Luciano talvolta si schermiva dai “paroloni” (come i “valori”), non ho mai visto una persona che in ogni istante fosse più animata dal desiderio di affermare la verità, i valori morali, la giustizia. In una parola, non ho mai visto una persona la cui vita fosse più piena di “senso”.
Il modo in cui, nei suoi pensieri e nella sua azione, riusciva a tenere assieme il legame con le tradizioni, la storia e il presente del popolo ebraico e una visione profondamente inclusiva e aperta dell’ebraicità, è una lezione che è di particolare importanza nel momento drammatico che sta vivendo l’ebraismo europeo. L’antisemitismo di nuovo dilagante, fino a forme sempre più frequenti di aggressione violenta, trova alimento nel tentativo di far credere che la presenza ebraica in Europa sia un corpo estraneo, come un’inclusione cistica da eliminare. Non potrebbe esservi errore più drammatico che fornire argomenti a questa menzogna, chiudendosi a riccio, riducendo la presenza ebraica a una semplice campagna difensiva contro l’antisemitismo. Né si può sopravvivere della memoria del passato: le vestigia dell’antica Grecia e dell’antica Roma non hanno bisogno come custodi degli abitanti di un tempo. Ed è ancor peggio se tale memoria si riduce alla mera testimonianza delle ingiustizie e persecuzioni subite. Tanto meno si può resistere restringendo sempre di più il perimetro di cosa significhi essere ebreo, al punto da ridurre l’ebraicità a qualcosa che ha valore soltanto per sé stessi. Su questa via, l’ebraismo rischia di frantumarsi in tanti rivoli e di non essere più grado di presentarsi come un fattore vitale capace di confutare nei fatti, il tentativo di espellerlo definitivamente come un corpo estraneo.
Questa è una delle tante cose che ho appreso dalla lunga amicizia con Luciano Tas. L’ebraismo contemporaneo, di fronte alle drammatiche sfide che lo investono, avrebbe bisogno di tante persone come lui, capaci di sentire la necessità primaria dell’unità dell’ebraismo, pur nella inevitabile varietà delle opinioni, da praticare con razionalità e tolleranza reciproca.
(Shalom, giugno 2014)

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