Con Luciano Tas l’ebraismo italiano perde una delle sue
menti più vivaci e libere; una mente capace di muoversi nelle sempre nuove
sfide della realtà con illimitata curiosità e senza pregiudizi. Sono proprio
quelle qualità di cui v’è assoluto bisogno in un momento tanto difficile per
l’ebraismo europeo.
La mia amicizia di quasi trentacinque anni con Luciano nacque
proprio dalla sua curiosità: nel caso specifico, di conoscere chi fosse quel
giovane ebreo che si era permesso di scrivere una lettera aperta di sette
cartelle a Luciano Lama per contestare il famoso episodio della bara deposta
davanti al Tempio Maggiore durante un corteo sindacale e le sue ambigue
dichiarazioni in proposito. Ricordo come oggi la sua telefonata, il primo
incontro, l’assidua frequentazione che ne nacque, la collaborazione intensa con
Shalom, di cui Luciano era una delle
colonne portanti quando il mensile era diretto da Lia Levi. Come chiunque lo
abbia conosciuto, fui colpito dallo spessore della sua vita sorprendente e
avventurosa: da quando sedicenne sfuggì alle persecuzioni razziali traversando
le montagne per la Svizzera, alle tante attività al suo ritorno in Italia (tra
cui, per cinque anni, l’intagliatore di diamanti), all’impegno ventennale per i
diritti degli ebrei sovietici, ai tanti brillanti contributi giornalistici,
alla “Storia degli ebrei italiani”. Ma non è una sintesi biografica che
desidero tentare, e che neppure sono il più titolato a fare. Voglio piuttosto
dire che l’incontro con la vita di Luciano non poteva che essere l’incontro con
una vitalità prorompente. Se ripenso alla sua persona, il ricordo più intenso
che mi viene alla mente è il sorriso con cui egli ti accoglieva sulla porta
della sua casa, un sorriso con cui offriva interamente tutta la sua anima
generosa e affettuosa e che esprimeva il desiderio, quasi l’ansia, di
comunicare. Era un sorriso che ha aperto tante serate di interminabili
conversazioni con lui e Lia, tante cene – perché Luciano era un gran cuoco,
originale e creativo – e le giornate di sole passate a Castel di Tora. Ma forse
per me e mia moglie il legame più profondo è dovuto al fatto che Luciano è
stato il padrino di entrambi i nostri figli, Alberto e Giacomo, che ha tenuto
in grembo durante la milà. Proprio il ricordo dell’intensità con cui egli volle
proporsi in questo ruolo, mi spinge a mettere in luce l’aspetto più profondo
dell’ebraicità di Luciano Tas. Egli era legato alle tradizioni dell’ebraismo,
al senso profondo dei riti e di ciò che rappresentano come filo di continuità
storica del popolo. Ma se questo attaccamento comportava un grande rispetto per
la dimensione religiosa, Luciano era anche intimamente laico, non nel senso comune
e spesso abusato della parola: egli aveva un’idea dell’identità ebraica molto
larga e inclusiva che andava assai al di là dell’osservanza dei precetti. Di
qui la posizione critica che assunse in modo sempre più marcato nel corso degli
anni – e sulla quale ci siamo trovati in piena sintonia – nei confronti di un
eccesso di ortodossia tendente a restringere pericolosamente il perimetro
dell’ebraicità, e quindi anche a indebolire la presenza ebraica nel contesto
culturale. Sono convinto che questo atteggiamento riflettesse l’importanza
primaria attribuita ai valori spirituali rispetto a vuoti formalismi. Anche se
Luciano talvolta si schermiva dai “paroloni” (come i “valori”), non ho mai
visto una persona che in ogni istante fosse più animata dal desiderio di
affermare la verità, i valori morali, la giustizia. In una parola, non ho mai
visto una persona la cui vita fosse più piena di “senso”.
Il modo in cui, nei suoi pensieri e nella sua azione, riusciva
a tenere assieme il legame con le tradizioni, la storia e il presente del
popolo ebraico e una visione profondamente inclusiva e aperta dell’ebraicità, è
una lezione che è di particolare importanza nel momento drammatico che sta
vivendo l’ebraismo europeo. L’antisemitismo di nuovo dilagante, fino a forme
sempre più frequenti di aggressione violenta, trova alimento nel tentativo di
far credere che la presenza ebraica in Europa sia un corpo estraneo, come
un’inclusione cistica da eliminare. Non potrebbe esservi errore più drammatico
che fornire argomenti a questa menzogna, chiudendosi a riccio, riducendo la
presenza ebraica a una semplice campagna difensiva contro l’antisemitismo. Né
si può sopravvivere della memoria del passato: le vestigia dell’antica Grecia e
dell’antica Roma non hanno bisogno come custodi degli abitanti di un tempo. Ed
è ancor peggio se tale memoria si riduce alla mera testimonianza delle
ingiustizie e persecuzioni subite. Tanto meno si può resistere restringendo
sempre di più il perimetro di cosa significhi essere ebreo, al punto da ridurre
l’ebraicità a qualcosa che ha valore soltanto per sé stessi. Su questa via,
l’ebraismo rischia di frantumarsi in tanti rivoli e di non essere più grado di
presentarsi come un fattore vitale capace di confutare nei fatti, il tentativo
di espellerlo definitivamente come un corpo estraneo.
Questa è una delle tante
cose che ho appreso dalla lunga amicizia con Luciano Tas. L’ebraismo
contemporaneo, di fronte alle drammatiche sfide che lo investono, avrebbe
bisogno di tante persone come lui, capaci di sentire la necessità primaria
dell’unità dell’ebraismo, pur nella inevitabile varietà delle opinioni, da
praticare con razionalità e tolleranza reciproca.
(Shalom, giugno 2014)
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