Intervista a Orizzonte Scuola:
1 In
un suo intervento di qualche giorno fa comparso sul quotidiano Il Mattino ha scritto di essere rimasto
a bocca aperta di fronte all’affermazione, fatta da una collaboratrice
dell’istituto Invalsi, secondo cui i loro strumenti di misurazione sarebbero
simili a quelli delle scienze sperimentali.
Quali sono, invece, i limiti più evidenti?
Chiunque abbia un minimo di cultura
storico-scientifica sa che il problema del trasferimento dei metodi usati dalle
scienze sperimentali e fisico-matematiche nel contesto dei fenomeni inanimati
ai fenomeni della vita o della sfera umana ha suscitato riflessioni di estrema
complessità che si protraggono da più di due secoli e sono tutt’altro che
concluse. Affermare con tanta leggerezza che l’Invalsi avrebbe apprestato
strumenti di misurazione di fattori immateriali quali le competenze o le
abilità, analoghi a quelli in uso in un laboratorio di fisica, è indice di
un’ignoranza tanto profonda quanto irresponsabile per la ridicola arroganza che
l’accompagna. Non posso certamente qui mettermi a fare un trattato sulla
tematica suddetta, di cui peraltro mi occupo e su cui ho scritto da più di
trent’anni. Dico soltanto che la misurazione nelle scienze sperimentali
riguarda grandezze che sono definibili almeno in termini operativi in modo
oggettivo e indipendente da variabili ausiliarie (altrimenti, neppure la
temperatura sarebbe una grandezza misurabile). Pertanto esiste una definizione
(ripeto, anche solo operativa) delle grandezze fondamentali della fisica, che è
il fondamento di procedure di misurazione esatte e di valore intersoggettivo
(entro i limiti della teoria degli errori). “Grandezze” come la competenza o
l’abilità non sono suscettibili di alcuna definizione condivisa e quindi
nessuno saprebbe indicarne l’unità di misura. Oltretutto, non è affatto detto
che siano rappresentabili mediante un solo numero, bensì (ammesso e non
concesso che siano di natura numerica) appare ovvio che abbiano un carattere
multidimensionale, senza che nessuno abbia la minima idea di come identificare
queste dimensioni. È una situazione del tutto analoga a quella che si ha in
economia matematica con il concetto di “utilità”: esso è suscettibile di
rappresentazioni numeriche, ma nessuno ha la chiave per eliminare le funzioni
ausiliarie che intervengono nella sua definizione per renderlo “oggettivo” e
comunque si badi bene – limitatamente all’utilità
di un singolo soggetto: possso dire che, per una data persona, l’utilità di una
banana è maggiore dell’utilità di un cetriolo, ma è impossibile confrontare le
utilità di due persone diverse. Allo stesso modo, non esiste alcun modo per
confrontare le competenze (rappresentate in numeri) di due soggetti diversi. So
bene come vengono “scavalcate” queste difficoltà: fornendo definizioni
puramente formali dell’“oggettività”, delle “variabili” in gioco e anche della
nozione di misurabilità e quindi facendo dipendere tutto da un modello
matematico-statistico di cui peraltro si dice esplicitamente che non è suscettibile
di verifica empirica… Questo è un gioco formale. Ognuno si diverte come può, ma
appendere le sorti della scuola italiana a questi giochetti nel vuoto – che ben
conosce chi abbia frequentato la modellistica matematica – non è responsabile,
tanto meno se ci si rifiuta categoricamente di mettere in discussione il
proprio operato e ci si limita a presentarlo come una verità rivelata.
2 Se
i test di cui si serve l’Invalsi non possono, per loro limiti oggettivi,
misurare la qualità degli apprendimenti, di conseguenza non sono efficaci
nemmeno per valutare la qualità dell’insegnamento?
Se i test Invalsi venissero apprestati con
ambizioni esattamente opposte a quelle sventolate in quella sfortunata
intervista, e cioè se avessero ambizioni minimali, di verifica di competenze o
conoscenze assolutamente imprescindibili a un certo livello di scolarità,
potrebbero essere assai utili. Un buon insegnante di matematica può stendere
facilmente un elenco di ciò che si richiede a uno studente di quinta elementare
o di terza media, e così un insegnante di italiano sa quali sono le competenze
grammaticali imprescindibili a un certo livello, ed entrambi saprebbero come
preparare dei semplici test per verificare l’esistenza di queste competenze. Se
ne potrebbero ricavare utili indicazioni. Il grottesco inizia quando si
pretende di costruire marchingegni che dovrebbero valutare aspetti complessi e
quando si mira a sostituirsi al giudizio articolato dell’insegnante o del
consiglio di classe (o di dipartimento). Qui non ci siamo proprio. Ammesso, e
non concesso, che dai test Invalsi esca una valutazione indiscutibilmente
oggettiva – il che potrebbe essere soltanto al livello minimale di cui dicevo
prima – questo non autorizza a esprimere un giudizio sull’insegnante. Se questi
opera in una realtà “facile” può risultare bravissimo pur non dovendo fare
molti sforzi per migliorare la qualità degli apprendimenti, mentre un ottimo
insegnante che opera in una realtà sociale disastrosa risulterà un incapace.
L’unico modo di valutare gli insegnanti è quello diretto: mi sono già
soffermato su questo tema in una precedente intervista. Vorrei aggiungere che
in uno dei rarissimi confronti avuto con i sapientoni dell’Invalsi mi è stato
significato che quando loro parlano di “oggettività” non si riferiscono affatto
al significato classico nell’epistemologia scientifica e filosofica (e che poi
è trapassato nel senso comune, o piuttosto è derivato da questo…) bensì al
fatto che gli esiti dei test sono valutati con procedure standardizzate che non
consentono l’intervento del correttore, che si limita ad applicarle, e quindi
in tal senso sono “oggettivi”. Non so se questa sia una via di fuga dettata
dall’imbarazzo, ma di certo se questo fosse il significato limitatissimo di
oggettività, il raffronto con le scienze sperimentali sarebbe senza senso. Si
ha la netta impressione di trovarsi di fronte a un gioco delle tre carte:
secondo le circostanze gli esperti dell’Invalsi si presentano come i Galileo
della valutazione delle qualità o come dei modesti artigiani di semplici
tecniche statistiche.
3 Molti
docenti condividono le sue critiche, così ‘subiscono’ le prove Invalsi come
un’amara medicina a cui non ci si può sottrarre. Altri, però, li utilizzano
come uno strumento di verifica del loro lavoro. Che cosa avrebbe da dire a
questi ultimi?
È semplice. Di recente, ho condotto, assieme
ad alcuni colleghi (universitari e insegnanti di scuola) un lavoro protrattosi
parecchi giorni con un paio di scuole, per l’aggiornamento, l’innovazione e la
ricerca didattica. È stata un’esperienza davvero utile ed entusiasmante da
entrambi i lati. Ci siamo trovati di fronte a insegnanti (e dirigenti) di alto
livello attivi e profondamente coinvolti. Il modo più sintetico per esprimere
la convinzione che quegli insegnanti e quelle scuole operano a un livello di
autentica eccellenza è che non avremmo esitazioni ad affidare loro i nostri
figli. Quale è stata la sorpresa nell’apprendere che si trattava di scuole e di
insegnanti che avevano avuto un pessimo esito nei test Invalsi... e che,
poveretti, stavano affrontando il tentativo di capire se qualcosa andava
cambiato nel loro modo di insegnare. Ora, se qualcuno mi venisse a dire che un
giudizio non solo mio, ma di parecchie persone, unanime e non incerto e a mezza
strada, ma deciso nel senso dell’eccellenza, è sbagliato perché lo dicono i
test dell’ente, sarebbe come pretendere di convincere che l’erba è rossa perché
risulterebbe da certi esperimenti dichiarati “oggettivi”. Se i collaboratori
dell’Invalsi avessero un minimo di spirito scientifico, la prima cosa che
dovrebbero fare è di verificare sul campo se certi esiti negativi risultanti
dai loro test non cozzino contro l’evidenza, e in tal caso dovrebbero mettere
in discussione i metodi usati. Se un esperimento fisico predice qualcosa che contraddice
fatti ovvi e acclarati, un ricercatore serio non nega o ignora i fatti, ma
mette in discussione l’esperimento e riesamina i metodi usati da cima a fondo.
E si badi bene: basta un solo esito clamorosamente non credibile (uno solo!) per
imporre di mettere tutto in discussione: questo è metodo scientifico. Brutalizzare
la realtà con test e modelli è un comportamento da moderno don Ferrante. Posso
anche citare il caso di una maestra che si è rivolta a me disperata, poiché la
sua classe aveva avuto un cattivo esito nei test Invalsi di matematica e mi ha
sottoposto i suoi metodi, i testi usati ecc. Dopo attento esame ho sentito il
dovere morale di rincuorarla in tutti i modi perché mi sono trovato di fronte a
una vera ingiustizia. Non basta: esistono molti casi opposti – e di cui ho
diretta conoscenza – e cioè di studenti con un rendimento scolastico pessimo, sempre
in matematica, nel corso di tutta la scuola media, che hanno avuto un esito
trionfale nei test Invalsi all’esame di licenza, e poi al liceo hanno
ricominciato a prendere gravissime insufficienze. Visto che si trattava di
insegnanti diversi non viene il dubbio di trovarsi di fronte a elementi di
valutazione assai più “oggettivi” del test di terza media? In conclusione,
consiglio gli insegnanti che mettono in discussione i loro metodi sulla base
degli esiti dei test Invalsi di andarci piano: non dico di non considerarli, ma
di inserirli in un contesto molto più ampio, con molta razionalità e molto spirito
critico, perché potrebbe darsi che quegli esiti dicano qualcosa, ma – anche in
casi negativi – potrebbero costituire una conferma della bontà dei metodi
seguiti e persino di suggerire l’opportunità di proseguire sulla via già
seguita, approfondendola e migliorandola. Soprattutto non debbono cascare nella
trappola gli insegnanti che continuano a fare didattica ordinaria evitando giustamente
di fare “teaching to the test” perché sono sistematicamente penalizzati
rispetto agli insegnanti che si comportano in modo opposto.
4 Perché
secondo lei l’Italia ha intrapreso la strada delle prove oggettive
standardizzate? Per le forti pressioni internazionali? Per l’incapacità di
elaborare un modello alternativo di monitoraggio sul sistema di istruzione più
adatto alla nostra storia culturale? Per un’insana tendenza all’ipertrofia
istituzionale?
Per lo stesso conformismo che, sotto lo
slogan falso “l’Europa lo vuole” (all’estero si fa così, ecc.) ha indotto a
introdurre all’università la disastrosa riforma universitaria del 3 + 2, e a
costruire due enti di valutazione, l’Anvur
e l’Invalsi, rispettivamente per l’università e la scuola. Si noti che
in Francia l’Anvur è stato praticamente soppresso e in numerosi paesi sono
state eliminate le valutazioni bibliometriche della ricerca (ovvero basate sul
calcolo delle citazioni). Mi diceva un collega di recente incluso nel gruppo di
valutazione del sistema di ricerca francese, che il gruppo ha ricevuto la
perentoria indicazione di astenersi da valutazioni bibliometriche. Invece da
noi queste metodologie impazzano indisturbate. Non solo: un ente come l’Anvur,
che doveva – secondo tutte le promesse – limitarsi a fare una valutazione
ex-post della qualità del sistema universitario e della ricerca, è riuscito a
prendere in mano tutto e di fatto è diventato il totale controllore del
sistema, tagliando fuori il Ministero e il Consiglio Universitario Nazionale, e
inondando l’università di un complesso di deliranti prescrizioni che la stanno
trasformando in un sistema in cui, come si è detto, tra poco due ricercatori
che verranno sorpresi a scambiarsi lavori scientifici verranno puniti per
essere “improduttivi”. L’Invalsi, al momento, è ancora ferma alla funzione di
valutazione del sistema, ma con il test che fa media all’esame della scuola
secondaria di primo grado, ha già messo un piede nel controllo diretto della
valutazione. Il passo successivo è l’introduzione del test Invalsi all’esame di
maturità, o addirittura (come qualcuno ha detto esplicitamente) la soppressione
di questo esame e la sua sostituzione con un test Invalsi. In tal modo, si
passerebbe alla progressiva eliminazione della valutazione da parte
dell’insegnante. Se poi – come è stato già prospettato, anche dall’attuale
ministro – si passasse alla valutazione degli insegnanti mediante i test
Invalsi, il controllo sarebbe totale e l’insegnante sarebbe ridotto a un
passacarte delle prescrizioni dell’Invalsi: potrebbe limitarsi a fare
addestramento a superare i test con i libercoli che già sono in giro, talora
confezionati dagli stessi collaboratori dell’Invalsi, e sperare che i propri
allievi superino bene i test in modo da essere ben valutato e ottenere aumenti
di stipendio. Una prospettiva squallida… Ho citato l’Anvur perché a livello
universitario l’“opera” distruttiva è più avanzata e indica chiaramente cosa
attende la scuola. Ipertrofia istituzionale? Direi piuttosto un’attrazione
fatale verso il predominio delle forme di controllo burocratico-amministrativo:
del resto, in questi tempi non si ripete continuamente che per salvare il paese
occorre liberarlo dalla stretta della burocrazia? È una triste eredità della
nostra storia: la sintesi tra dirigismo di tipo fascista (la scuola è stata
governata da personaggi del clan Bottai per lunghi anni dopo la fine della
guerra) e costruttivismo didattico-pedagogico sedicente “progressista”.
5 Nel
suo affondo ha scritto anche di non fidarsi della qualità del lavoro dell’ente
e che, come tutti del resto, resta in attesa di conoscere quale sarà
l’orientamento programmatico del nuovo Presidente. Quale sarebbe a suo avviso
la cosa più saggia da fare in questo momento? Posto che l’Invalsi c’è e che
difficilmente verrà smantellato, quali correttivi dovrebbe apportare per
rendere i suoi interventi in qualche modo più razionali e utili?
A parte tutte le critiche che ho avanzato
prima, insisto sul fatto che quel che è estremamente grave è che si sia creato
nell’ente un gruppo inamovibile di collaboratori che si rifiuta di accettare
qualsiasi confronto aperto. Proprio di recente sono stato coinvolto nel
tentativo di un siffatto confronto e alcuni di questi collaboratori hanno
enunciato un elenco di condizioni sotto le quali esso poteva verificarsi che
praticamente lo rendevano inutile e umiliante per chi vi avesse partecipato.
Voglio ancora ricordare un fatto scandaloso di qualche settimana fa: un
collaboratore ha inviato un articolo anonimo a un quotidiano in rete criticando
aspramente il presidente per aver osato dire che vanno evitati i test a
trabocchetto ed ha asserito, sulla base della sua parola anonima, che il presidente
aveva chiesto scusa ai collaboratori dell’ente… È un clima sano questo? È sano
il clima di un ente in cui un collaboratore rilascia un’intervista in cui
delinea le linee guida dell’ente (con asserzioni ridicole come quella di cui
abbiamo parlato all’inizio), invece di attendere la fine dell’attuale ciclo di
test e lasciare la parola al presidente? È sano il clima di un ente in cui non
esistono procedure chiare di reclutamento dei collaboratori, un termine al loro
contratto, ovvero una sana rotazione, verifiche di qualità del loro lavoro, in
cui non si sappia come vengono scelti i 250 professori che collaborano al
lavoro biennale di preparazione dei test? Vengono scelti con il criterio
dell’“amico” e dell’“amico dell’amico”, e perché un collaboratore anziano dice che
sono bravi? Un ente del genere può accampare la pretesa di valutare
“oggettivamente” l’intero sistema dell’istruzione? Quindi, intanto vanno
chiariti tutti questi aspetti, e poi occorre ragionare seriamente sul tipo di
test da proporre, se continuare con il sistema censuario piuttosto che con
quello campionario, e soprattutto aprire l’ente alla ricerca didattica. Aprire,
aprire le finestre… L’ente deve diventare una casa di vetro, e aiutare la
scuola a migliorarsi in modo discreto e senza dirigismi da paese totalitario.
Cambierebbe
qualcosa nel suo giudizio se l’Invalsi fosse veramente indipendente dal Miur e
se rispondesse soltanto al Parlamento?
Ma l’Invalsi è già indipendente da tutto per
le ragioni che ho elencato. Non c’è controllo sulle modalità di reclutamento
dei suoi collaboratori, sulla qualità del suo lavoro, sul suo operato. È
persino indipendente dal suo presidente… Il controllo del Parlamento è
insufficiente se si riduce a qualche seduta di commissione contrassegnata
dall’assenteismo, in cui il presidente svolge una relazione per respingere
tutte le critiche senza che vengano ascoltati gli argomenti tecnici dettagliati
di coloro che le hanno avanzate. È quel che si è visto di recente nel caso
dell’Anvur. Gli enti di valutazione possono essere dotati di autonomia a tre
condizioni: 1) di avere uno statuto assolutamente limpido che preveda rotazioni
dei consulenti ed escluda la possibilità che singoli o gruppi si aggrappino
all’ente come patelle a uno scoglio; 2) di non avere alcun potere di guida e di
controllo del sistema dell’istruzione, ma soltanto una funzione di valutazione
ex post dello stato generale del sistema; 3) di essere assoggettato a controlli
periodici del proprio operato da parte di altri organismi tecnici che forniscano
materia di valutazione al Parlamento. Sia ben chiaro: la caratteristica della
democrazia è di essere basata su un sistema di pesi e contrappesi, per cui
nessun organo può detenere un potere esente da qualsiasi forma di controllo
incrociato. Nel momento in cui un’istituzione assume una siffatta posizione
irresponsabile, è la fine della democrazia. Non a caso, il potere illimitato
dell’Anvur ha significato la morte dell’autonomia universitaria, a meno che non
si cambi radicalmente la situazione. Speriamo che non accada la stessa cosa per
la scuola e che l’autonomia (strombazzata a ogni pié sospinto) muoia assieme
alla libertà d’insegnamento: l’intrusione dei test Invalsi nella valutazione
degli studenti e il Tar che decide se uno studente deve essere promosso o no,
sono sintomi chiari in questa direzione. Il che non significa – ripetiamolo, a
scanso di equivoci – che un insegnante non debba essere valutato. È impensabile
che mentre si parla di responsabilità civile dei giudici non esista quella
dell’insegnante di operare bene. Ma la valutazione deve essere una cosa seria,
condotta sui contenuti e non mediante i test Invalsi.
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