Le riforme da fare non passano attraverso tecnologie spinte e soliti quiz
Si ripete che dopo le elezioni nulla è uguale a prima. Non si vede perché questo non valga per l’istruzione che il presidente del Consiglio considera un settore strategico. Si ripete anche che è necessario restituire il primato alla politica, contro il prepotere della burocrazia e della tecnocrazia, accantonando vecchi riti concertativi. Questa necessità più che altrove è impellente nell’istruzione e nel suo ministero, dove quei vizi si dispiegano in un infernale intreccio di “tavoli” di contrattazione tra buro-tecnocrazia e corporazioni, capace di mettere fuori gioco persino il ministro; e che sono più forti che mai: un tempo era “solo” l’intreccio tra dirigenza, sindacati, associazioni professionali ed esperti didattico-pedagogici, ora sono scesi in campo anche imprenditori (e loro associazioni), econometrici, statistici, psicometrici. Accanto a ciò, le agenzie di valutazione – l’Anvur per l’università e l’Invalsi per la scuola – sono riuscite a trasformare una necessaria autonomia operativa in potere autonomo e incontrollato. Al punto che l’università è ormai gestita interamente dall’Anvur e neppure il potere politico riesce a opporsi alla valanga di vacui adempimenti burocratici che sta conducendo alla disperazione chi vi opera.
In
questa situazione, non è una buona idea invocare (come ha fatto Paolo Giordano)
un’assemblea costituente dell’istruzione: sarebbe l’istituzionalizzazione dei “tavoli”
e di un processo infinito di mediazioni. Chi ha proposte sensate e competenti
da fare le faccia, la politica rifletta e compia scelte (ovviamente
contestabili), imponendo alla macchina amministrativa di realizzarle al
servizio del sistema e non al suo comando.
Dopo
le elezioni europee si ripete fino alla noia che per salvare la costruzione europea
occorre uscire da una gestione buro-tecnocratica che guarda solo ai parametri e
ignora i problemi reali. Questo è ancor più vero per l’istruzione (e per la
cultura), perché non sono in gioco solo aspetti gestionali, ma il senso stesso
della funzione dell’istruzione, che svanisce se i contenuti disciplinari e
culturali sono dissolti in mere questioni di tecniche di apprendimento e di
obbiettivi quantitativi. Da questo punto di vista, bisogna combattere contro
vecchi vizi duri a morire. Si è aperto un dibattito sul possibile anticipo
dell’ingresso alle primarie a 5 anni, in alternativa al liceo corto di 4 anni.
Su queste pagine abbiamo cautamente aperto a tale prospettiva sotto la
condizione che non sia un pretesto per spolpare ulteriormente i già magri contenuti
dell’insegnamento. Ed ecco che si avanza la proposta di interpretare tale
anticipo come un’occasione per rivoluzionare l’insegnamento con la “tecnologia
spinta”, il che sarebbe “richiesto” da bambini immersi nella rete fin dalla
tenera età; cui si accompagnerebbe la trasformazione del biennio finale dei
licei in un periodo “professionalizzante” gestito con le imprese e la formazione
regionale. Viene da dire: se è così, meglio non farne nulla, perché è chiaro l’intento
di smantellare l’istruzione superiore. Quanto alla “tecnologia spinta”, se non
si vuol pensare che dietro vi siano solo interessi brutali, è evidente che chi
fa queste proposte non ha la più pallida idea dei veri problemi dei nostri
piccoli. Strano gioco degli specchi! I piccoli non “chiedono” nulla se non
quello che offre il menu da noi confezionato: la massa di oggetti informatici
che li sommerge come un diluvio orchestrato dalla collusione tra chi (famiglie
o cattivi insegnanti) non vuole affaticarsi attorno ai problemi difficili dell’educazione,
e chi vuol solo far quattrini. Dovremmo piuttosto cospargerci il capo di cenere
– e cambiare rotta – per star creando generazioni di bambini che a dieci anni
non sanno allacciarsi le scarpe, non sanno tenere una penna in mano, e hanno
ritardi oltre che nel controllo del corpo, nell’autonomia e nella solidità
psicologica ed emotiva; ma sono istruiti ad avere come desiderio primario uno
smartphone per scambiare gratis decine di messaggi al giorno. Eppure, c’è chi
vaneggia di ridurli alla sola capacità di usare l’indice su un tablet.
Riteniamo,
invece, che l’obbiettivo primario, sia formare “persone bene educate”, nel
senso espresso dalla nota esperta statunitense Diane Ravitch: «una persona che
ha una mente ben fornita, plasmata dalla lettura e dalla riflessione sulla
storia, la scienza, la letteratura, le arti e la politica, che ha appreso come
spiegare le idee e come ascoltare rispettosamente quelle altrui». Altro che
cavarsela affidando il miracolo ai tablet: servono giovani con una buona formazione
di base nella matematica e nelle scienze naturali, che scrivano in buon
italiano, che conoscano la cultura nazionale, che conoscano oltre l’inglese
almeno un’altra lingua, per essere il modello del nuovo cittadino europeo,
capace di contribuire alla crescita di un tessuto culturale continentale che
sfrutti fino in fondo la ricchezza delle culture nazionali.
Abbiamo
bisogno di un sistema dell’istruzione di qualità, con insegnanti qualificati e
sempre stimolati a migliorarsi, e qui si pone il famoso problema della
valutazione; che continua ad essere affrontato da molti con sconfortante
ottusità. Giornalisti disinformati ma imbottiti di informazioni fuorvianti e
altri consapevolmente interessati a tenere in piedi certe tecnostrutture
ripetono che valutare è sinonimo di “somministrare” test standardizzati e che chi
non vuole questo – ormai un esercito crescente – è un fannullone che non vuole
farsi valutare. Così, è bastato che si adombrasse la possibilità di abbandonare
il sistema dei test d’ingresso a medicina – per fare poi cos’altro se non
dirigersi verso un modello serio e collaudato come quello francese? – perché
molti si stracciassero le vesti dicendo che non si vuol più valutare e che
vengono frustrati i sacrifici di ragazzi che si preparano ai test da tanto
tempo. È stupefacente che non si denunci piuttosto lo scandalo di costringere
un giovane ad addestrarsi a superare test in cui gli si chiede se Chomsky è un
senatore o a risolvere insulsi quiz logici, e tutto questo per… diventare
medico. Chi si straccia le vesti dimentica i disastri compiuti in nome dei
test: il concorso per dirigenti scolastici in cui gran parte delle domande che
non fossero una verifica di conformità all’ideologia pedagogica ministeriale,
erano sbagliate; il disastro dei test di accesso al Tirocinio Formativo Attivo;
i test di medicina; e ci fermiamo qui per carità di patria. Chi si straccia le
vesti dimentica che spesso questi test sono preparati da ditte private su cui
non esiste controllo e “valutazione”. Il mondo della medicina ha sollevato il
vero problema: per passare a un sistema serio alla francese occorrono risorse,
strutture e organici. Un’università sfiancata non è in grado di farlo. Il nodo
da affrontare è che in questi anni abbiamo strangolato il sistema dell’istruzione
come nessun altro paese europeo. Se non vogliamo o possiamo riqualificare il
sistema, tanto vale ammettere che siamo costretti al peggio, e cioè a una
valutazione cialtronesca. Ma non si faccia di vizio virtù. Né si faccia passare
il tentativo di trasformare l’istruzione in un mero canale di formazione e reclutamento
per le imprese nel sol dell’avvenir delle “nuove tecnologie”.
L’ultimo
dei trucchi da abbandonare è contrabbandare scelte vecchie e cattive dietro lo
slogan “l’Europa ce lo chiede”. Non esistono normative europee cogenti in
materia. Siamo noi, davanti alla nostra dissestata istruzione, a dover fare
scelte responsabili e adeguate alla formazione di generazioni solide e culturalmente
preparate, capaci di mantenere questo paese in una posizione avanzata.
(Il Mattino e Il Messaggero (in versione leggermente ridotta), 2 giugno 2014)
3 commenti:
Gentile Professore, mi sembra che si sia perso il contatto con la realtà. Un tizio scrive un libro contro l'ignoranza e lo sfascio della scuola. Molto bene! - penso io - Poi sfoglio le pagine e leggo che gli studenti italiani sarebbero ignoranti perché non c'è abbastanza wi-fi! Ma come è possibile scrivere una cosa simile? Abbiamo smarrito completamente il senso della cultura, dello studio, della scienza. E queste idee vengono propagandate a tutti i livelli! Sembra incredibile che siano esistiti Leonardo, Bruno, Galilei,Dante e Manzoni senza il wi-fi! A tal punto penetra nelle anime la corruzione del conformismo ...
E chi è il fesso che ha scritto questo libro?
Un certo Giovanni Solimine, ed ecco la perla:
Serve la literacy, ovvero un saper fare, un armamentario di strumenti che la scuola, prima di tutto dovrebbe fornire, per navigarla consapevolmente. Ma senza banda larga, con insegnanti vecchi e un sistema bibliotecario debole questa formazione è perlomeno carente.
Posta un commento