Giorgio Israel
Università di Roma “La Sapienza”
Intervento a “I grandi discorsi di Benedetto
XVI”
Palazzo Apostolico Lateranense
20 gennaio 2011
Sul discorso di Ratisbona
La questione di Dio oggi: il Dio della fede e il Dio dei
filosofi
Posto che, indubbiamente, il tema del discorso di Benedetto XVI
all’Università di Ratisbona aveva come centro il tema della convivenza - o
direi piuttosto della necessaria convivenza e coerenza - tra religione e
ragione nella società contemporanea, a me sembra che la tesi che esso
suggerisce sia declinata in due sensi strettamente legati tra di loro.
Il primo è che la diffusione della fede mediante la violenza,
ovvero in forme coercitive, sia contro la ragione e in contrasto con la natura
di Dio e dell’anima. O potremmo dire, per sottolineare la coerenza di cui si
diceva, contro la natura di Dio e dell’anima in quanto contro la ragione e
viceversa.
Il secondo è che l’uso della ragione non è antitetico alla fede
religiosa, non la contraddice o la confuta, in quanto per avere fede religiosa
non bisogna uscire dal pensiero razionale; e, viceversa, l’adesione dal
pensiero razionale non preclude la fede religiosa.
Ne derivano conseguenze teoriche e pratiche che sono
strettamente interconnesse.
Il discorso di Ratisbona ha al centro una una serie di
considerazioni generali sul problema della trascendenza divina e sui rischi
connessi all’estremizzazione di questa trascendenza che pure è una
caratteristica fondante della religiosità monoteista classica. Non c’è dubbio
che - come ha osservato il grande studioso della Kabbalah ebraica Gershom
Scholem - l’ingresso delle religioni monoteiste ha significato una rottura
dello scenario monista dell’età mitica in cui la natura era il teatro della
relazione tra l’uomo e gli dèi, creando un abisso tra Dio, Essere infinito e
trascendente e l’Uomo, creatura finita. È altresì indubbio che, in varie forme,
il pensiero religioso ha tentato di colmare questo abisso, non soltanto con la
voce della preghiera, ma anche cercando di ricostruire il legame tra il
pensiero umano e la volontà divina, non accontentandosi di uno scenario
dominato da una volontà divina assoluta e incomprensibile dalla ragione umana,
di cui l’uomo potrebbe soltanto contemplare passivamente il creato. Ove
prevalesse una simile visione - e cioè la separazione venisse dichiarata
assoluta, l’abisso insuperabile in qualsiasi modo e la volontà divina
assolutamente arbitraria e priva di qualsiasi contatto con la razionalità umana
- ne deriverebbero tre conseguenze:
1) La
prima, che ricordo con le parole stesse del discorso di Ratisbona, è che «Dio
non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e niente lo obbligherebbe a
rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche
l’idolatria». Sarebbe un «Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e
al bene». Persino la morale diverrebbe un mistero e di fatto ne verrebbe
distrutto qualsiasi valore normativo e pratico per l’uomo.
2) La
seconda conseguenza riguarda i testi rivelati. Essi non possono essere
concepiti come oggetto di studio esegetico, di comprensione umana, in quanto la
ragione umana non ha nulla da dire circa la parola divina. I testi sacri sono
scritti direttamente con il “dito di Dio”, sono una lettera testuale “conferita”
piuttosto che un messaggio “rivelato” da Dio agli uomini, e che essi hanno
scritto ed esposto con parole umane e pertanto contenenti una “mediazione”. Il
testo sacro è “la” parola divina. Esso va accolto nella sua assoluta
letteralità, senza alcuna possibilità di interpretazione, ovvero senza la
mediazione della ragione umana. L’esegesi
in questa ottica semplicemente non ha luogo di esistere, è impensabile, se non
addirittura dissacrante. Il testo sacro si legge e si apprende, non si commenta
e non si interpreta.
3) La
terza conseguenza è che una scienza come conoscenza
non è possibile. Come potremmo difatti pretendere di poter ricavare delle leggi
naturali - così come le ha concepite la scienza moderna, ovvero delle leggi che
governano l’ordine del cosmo - se Dio avesse riservato a sé l’arbitrio totale
di mutare questo ordine a suo piacimento, in qualsiasi modo e in qualsiasi
momento? La scienza moderna è basata sulla convinzione nella permanenza
dell’ordine naturale e su quella che un grande matematico, Henri Poincaré, ha
chiamato la convinzione nella “permanenza” delle leggi del pensiero. Se queste
convinzioni non avessero alcun fondamento una scienza sarebbe semplicemente
impossibile. Sarebbe possibile soltanto un sapere pratico, contingente, poggiato
sulla sabbia e che potrebbe crollare in qualsiasi momento. La scienza sarebbe
interessante soltanto in quanto portatrice di conseguenze utili, di
realizzazioni tecniche.
È ben noto come il discorso di Ratisbona abbia sollevato
un’ondata di violentissime polemiche. Esso è stato visto come una critica della
religione musulmana in quanto dominata da una visione di trascendentalismo
assoluto del tipo sopra descritto, con tutte le conseguenze appena illustrate.
In realtà, la critica era molto più ampia e riguardava anche tendenze
sviluppatesi nel mondo cristiano e tendenti a rompere il rapporto con lo
spirito greco, tendenze che portavano all’idea che di Dio possiamo conoscere
soltanto la “voluntas ordinata” e non possiamo esplorare l’imperscrutabile
ragione. Pertanto, il discorso di Ratisbona va visto piuttosto come
un’esortazione a valorizzare al massimo quella sintesi tra spirito greco e lo
spirito delle religioni monoteistiche, che è apparso e appare soprattutto oggi
offuscato, sia per responsabilità dell’integralismo religioso, sia del
positivismo.
Se la religione classica tutto sommato propendeva per una
visione contemplativa - è indubbio che l’ebraismo biblico ha un atteggiamento
tutto sommato passivo nei confronti del dispiegarsi della volontà divina di cui
si limita ad ammirare le straordinarie creazioni - l’ebraismo medioevale,
soprattutto con il suo massimo rappresentante, Mosé Maimonide, mostra fino a
qual punto è giunta la sintesi tra pensiero greco e religiosità monoteista. È
giunta al punto che Maimonide afferma che la chiave del racconto della Genesi -
il cosiddetto Ma’aseh Bereshit - è stata persa dalla tradizione, ma che questa
chiave ci viene restituita dalla Fisica di Aristotele. Logica e Fisica -
afferma con estrema audacia Maimonide - permettono di decrittare la Bibbia e di
scoprire che la Genesi e Aristotele dicono la stessa cosa. Allo stesso modo, il
Racconto del Carro - Ma’aseh Merkabà - ovvero la visione mistica del carro
divino da parte del profeta Ezechiele, è in perfetta armonia con la Metafisica
di Aristotele. Questo razionalismo è talmente forte che, anche nella reazione
antiaristotelica della mistica kabbalistica esso non viene abbandonato e
diventa una chiave essenziale dell’esegesi biblica. Anzi, la rinuncia
all’esegesi viene condannata. «Coloro che si occupano del senso ovvio della Torah dormono di un sonno profondo»,
ammonisce Moshe Hayim Luzzatto e lo Zohar
definisce questo senso ovvio la mera «paglia» della Torah.
Del resto è noto come Maimonide, San Tommaso d’Aquino e Averroé costituiscano
la triade razionalista della teologia delle tre grandi religioni monoteiste,
ispirata a uno stretto rapporto con il razionalismo greco. E proprio ad Averroé
dobbiamo un’affermazione relativa al nostro terzo punto, e cioè che «niente
prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo. L’ordine del cosmo può
essere provato dalla ragione. Negare la causalità è negare la saggezza divina
[…] e colui che nega la causalità nega e disconosce la scienza e la
conoscenza». Sono parole scritte in risposta all’Autodistruzione dei filosofi di Al Ghazali che, al contrario,
sosteneva che «il cosmo è volontario. È creazione permanente di Dio e non
obbedisce ad alcuna norma. […] la natura è al servizio dell’Onnipotente: essa
non agisce in modo autonomo, ma è utilizzata al servizio del suo creatore. […]
le scienze matematiche sono alla base delle altre scienze, dai cui vizi lo
studioso rischia di rimanere contagiato. Sono pochi coloro che se ne occupano
senza sottrarsi al pericolo di perdere la fede».
È innegabile che il mondo islamico non abbia scelto Averroé
contro Ghazali, bensì abbia scelto Ghazali contro Averroé, la cui figura non è
mai stata rivalutata. È proprio nella condanna mai revocata di Averroé che
risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza
moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam
aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della
cultura greca. Questo è un fatto indiscutibile e ben noto agli storici, e non
può essere fonte di offesa rilevarlo. Al contrario, rilevarlo, anche indicando
in modo pacifico e amichevole i rischi che comportano determinate scelte, è un
contributo alla crescita di tutti, nell’ottica di una concezione del dialogo
che mi pare caratteristica del pensiero di Benedetto XVI, ovvero tanto aperto
quanto non sincretistico. È una concezione che richiama una bella frase del
filosofo Emmanuel Levinas: «Non si tratta di pensare insieme, io e l’altro, ma
di essere in faccia».
La chiarezza e l’onestà intellettuale induce altresì a non
nascondere che la crescita della rivoluzione scientifica è stata contrassegnata
da grandi conflitti con le autorità religiose, che spesso ebbero risvolti anche
drammatici. Non vi fu soltanto il caso Galileo, ma anche le minacce che
indussero Descartes a non pubblicare Le
Monde, la persecuzione subita in ambito protestante da Copernico, le
difficoltà che indussero Newton a nascondere il suo monoteismo antitrinitario,
la condanna di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam, e molte
altre analoghe vicende. Tuttavia, non è certamente sminuirne la gravità
affermare che quasi tutte queste vicende sono state drammatiche in quanto hanno
rappresentato una manifestazione di intolleranza, ma non hanno mai messo in discussione
l’idea della coerenza tra fede e ragione, né hanno arrestato in cammino della
scienza e della filosofia. Si confrontavano tra di loro modi differenti di
vedere il rapporto tra religione e ragione, anche diverse metodolologie
scientifiche o di uso della ragione. Non fu deplorevole che a Galileo fosse
stato opposto un diverso punto di vista, quanto che la contesa fosse stata
risolta con la forza. D’altra parte, come ha osservato lo storico della
scienza, Amos Funkenstein, tutti i grandi protagonisti della rivoluzione
scientifica, da Galileo a Descartes, da Keplero a Newton, erano dei “teologi
laici”, per cui le questioni in gioco gravitavano sempre attorno al rapporto
tra scienza e teologia.
Che la rivoluzione scientifica e gli sviluppi filosofici ad essa
connessi siano stati un grande e ulteriore passo sulla via della sintesi tra
pensiero religioso monoteista e pensiero greco si vede dal fatto che il primo
ha iniettato nel secondo l’idea dell’infinito che era rimasta preclusa o
quantomeno confinata al pensiero greco, il quale era molto diffidente nei suoi
confronti. Questo è stato visto molto bene da un grande filosofo contemporaneo,
Edmund Husserl, che definisce la grande impresa della conoscenza europea che
prende forma dal Cinquecento, come una scienza
onnicomprensiva, una «scienza della totalità dell’essere» che «persegue
nientemeno che lo scopo di riunire scientificamente, nell’unità di un sistema teoretico tutte le questioni ragionevoli
attraverso una metodica apoditticamente evidente e attraverso un progresso
infinito ma razionale di ricerca». Husserl aggiunge significativamente che tra
i tanti problemi che si pone questa filosofia razionale v’è quello di Dio «che
contiene evidentemente il problema della ragione “assoluta” in quanto fonte
teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del “senso” del mondo.». Così come
sono problemi razionali - egli aggiunge - «il problema dell’immortalità” e il
«problema della libertà». E non è certamente un caso che sia stato Husserl a
criticare con tanta forza analitica la “decapitazione” della ragione compiuta
dal positivismo, la razionalità “ridotta” da esso proposta, con un linguaggio
che contiene molte assonanze con quello di Ratisbona e di altri discorsi di
Benedetto XVI. Non è un caso, anche perché pochi filosofi come lui hanno
percepito il valore del concetto di ragione che si è espresso nella civiltà
europea e pochi come lui hanno amaramente ammonito contro il rischio che ne
venisse smarrito il senso, un rischio che oggi è di fronte a noi come un fatto
reale.
Ma qui è necessario sviluppare alcune considerazioni sul terzo
punto, quello che riguarda il rapporto tra ragione scientifica e religione.
L’affermazione teologica più forte della coerenza tra religione e scienza sta
nella tesi di Galileo che il mondo è matematico,
anzi che il mondo è stato strutturato da Dio in forma matematica, per cui la
scoperta della leggi, espresse in forma matematica, che governano la natura,
comporrebbe l’armonia tra razionalità oggettiva posta da Dio a base della
creazione e la nostra ragione soggettiva. Questa formula galileiana è
affascinante ma ritengo che sia elusiva e anzi che da essa derivino molte delle
difficoltà che hanno condotto all’attuale riduzione positivistica della
ragione. Difatti, come dimostra lo stesso sviluppo storico della scienza,
l’ipotesi che il mondo è matematico è
soltanto un’ipotesi di un genere molto particolare, in quanto assolutamente
inverificabile. Essa è in realtà un’ipotesi metafisica che per sorreggersi ha
bisogno di verifiche continue, ma mai definitive: per dirla in modo semplice,
essa può nutrirsi soltanto del suo successo, mai può aspirare a una verifica
definitiva. Il corso degli eventi ha piuttosto dimostrato che in tanti ambiti
essa appare smentita o quantomeno appare molto dubbia.
La conseguenza più pericolosa di tale ipotesi è di aver generato
l’idea che non soltanto il mondo fisico, ma ogni aspetto del mondo sia
matematico. Come si dice nel discorso di Ratisbona, è ormai comune ritenere che
«soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità», per cui «ciò che pretende di essere
scienza deve confrontarsi con questo criterio, e così anche le scienze che
riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la
filosofia, cercano di avvicinarsi al canone della scientificità». Ma questo
sviluppo è profondamente negativo non soltanto per la scienza, in quanto
l’efficacia del matematismo nelle scienze umane è lungi dall’essere evidente.
Esso è anche fonte di riduzione del razionalismo al riduzionismo positivistico
e quindi è la fonte diretta della «limitazione autodecretata della
ragione». In realtà qui il matematismo è
soltanto rappresentativo di una tendenza alla dittatura del riduzionismo.
Quando si tende - come accade oggi - a cancellare ogni forma di conoscenza che
non sia segnata dal prefisso “neuro” - e si parla di neuro-economia, di
neuro-etica, di neuro-filosofia e persino di neuro-teologia - è facile
intendere le conseguenze. Chi ingenuamente vede una conferma della religione
nella pretesa scoperta di strutture neuronali che spiegherebbero l’emergere nel
cervello del sentimento di trascendenza e quindi - come si dice - mostrerebbero
“l’esistenza di Dio nel cervello”, non si avvede che mettere Dio alla mercé di
una conformazione cerebrale - che esiste in alcuni individui e in altri no, che
può degenerare nel processo evolutivo o essere soppressa con interventi umani -
significa semplicemente distruggerlo.
Non ci difenderemo validamente dal relativismo se non affermando
che la razionalità che si esprime nella soggettività umana è irriducibile ai
canoni ristretti dell’oggettivismo scientifico di tipo fisico-matematico o
dello scientismo riduzionista e materialista. “Razionalità ampia” significa
ricercare un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei
canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio.
Queste sono alcune delle riflessioni che mi ha suggerito la
rilettura del discorso di Ratisbona.
2 commenti:
Il passo del discorso di Ratisbona cui lei fa riferimento fu anche l'unico che mi colpì della lunga perorazione di Ratzinger. Dove lei scrive:"E' ormai comune ritenere che: "soltanto il tipo di certezza derivante da matematica ed empiria..ecc"" è proprio il papa che fa questa'affermazione, è egli stesso che esprime fiducia in questa certezza. E infatti continua associandovi "le scienze che riguardano le cose umane".
E qui secondo me (e se capisco bene anche lei) allora Ratzinger sbagliava. Infatti poi conclude "In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze."
Nel difendere la tesi principale, che fede e ragione devono coesistere e non essere separate o addirittura alternative, mi pare arrivi a definire la teologia come vera e propria scienza (visto che tali prima ha definito pure psicologia, sociologia e filosofia). Probabilmente gli era rimasta molesta la facezia da lui stesso raccontata di: "uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio."
Da qui una certa confusione fra scienze esatte e scienze umane in modo da includervi anche la teologia, non contentandosi forse del fatto che la religione dovrebbe rispondere a quelle domande cui la scienza non potrà mai arrivare: entrambe rispondono a domande ed esigenze diverse e per questo non sono antitetiche, ma nemmeno necessariamente unite.
Egregio Professore, grazie d’aver posto di nuovo in evidenza il Discorso di Ratisbona e le sue considerazioni in proposito.
Gli ultimi avvenimenti mi hanno riportato alla mente il notissimo romanzo di Eco “Il nome della rosa”, precisamente allorchè il frate cieco Jorge - che perpetra mostruosi delitti in odio al riso, trattato nella Poetica di Aristotele - illustra il suo punto di vista al “ragionevole” frate Guglielmo (“Il riso libera il villano dalla paura del diavolo…Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio…”). Ci stiamo preparando ad un ritorno a codesti concetti? Magari un ritorno a censura a leggi ed a sanzioni che potremo applicare preventivamente - da rispettose persone - noi stessi in modo da evitare offesa a chicchessìa.
Che le “vere” vittime dei maomettani siano i maomettani è per mille versi vero; sostengo da sempre - anche sul suo blog - che i Palestinesi siano vittime dei loro correligionari capi. Del resto in un recente passato attraverso contabilità atroci abbiamo appreso che le più numerose vittime del comunismo sono stati i comunisti stessi.
Ma ciò deve vieppiù farci ricordare che conta chi spara e chi arma braccia e menti. Vogliamo pensare che una pistola fumante in mano a un bimbo o una bomba nelle sue tasche sia un rimedio contro l’enuresi?
Avrei mille cose da dire; mi limiterò con fatica alla considerazione che temo si stiano confermando ancora (e nuovamente) i maomettani nei loro convincimenti. Finchè non ci sarà nitidamente e saldamente senso di ripugnanza e disprezzo di fronte al misfatto e ad ogni sorta di suo discarico, non ci sarà alcuna possibilità di impostare “dialoghi” di qualche significato ed esito ragionevoli. Basta con strabismi miopie connivenze (non oso pensare a convenienze di brevissimo respiro).
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