La
politica degli annunci non è una cosa buona, ma se c’è un contesto nel quale
occorrerebbe rigorosamente astenersene è quello dell’istruzione. La scuola è
stata trafitta per decenni da politiche di annunci che si sono tradotti in nocive
sperimentazioni o sono finiti nel nulla, come il progetto di riforma dei cicli
di Luigi Berlinguer. Il caso più clamoroso è quello di un’intera riforma – la
Moratti – che, in assenza di decreti attuativi, è rimasta sulla carta. Molti di
questi “annunci” erano espressione delle teorie di pedagogisti di stato
organici alla classe politica al governo. Ora, a giudicare da quel che venuto
fuori dalla presentazione promossa dal premier Renzi siamo passati all’annuncio
di un bricolage di pezzi mal congegnati tra loro e provenienti da strani
pensatoi. Sta di fatto che la scuola, a forza di annunci, di riforme mai fatte
e di sperimentazioni avventate è diventata un terreno melmoso su cui anche il
governo più determinato rischia di lasciare le penne, soprattutto se si
avventura a indicarlo come decisivo per il futuro del paese. Certo, bisognerà
attendere il testo dei decreti o disegni di legge per un giudizio definitivo,
ma gli annunci non indicano un pensiero progettuale chiaro. Proviamo a elencare
una decina di punti che destano più perplessità.
Edilizia. È il tema su cui Renzi si è
speso fin dalla sua nomina, un anno fa e su cui, puntualmente, non è successo
nulla. Non solo perché non è chiaro da dove verrà fuori il miliardo necessario,
ma perché non si è affrontata di petto la questione delle modalità degli
appalti, delle procedure, ecc. Troppi sono i casi di scuole che hanno iniziato
ristrutturazioni finite nel nulla – come i tronconi di autostrada finiti per
aria – per non considerare questa questione come prioritaria. Quando si sente
di discussioni bizantine circa le modalità di gestione delle ristrutturazioni,
se da affidare ai singoli istituti o a gruppi territoriali di istituti di cui
uno avrebbe la funzione direttiva, viene da tremare.
Concorsi e precari. Questa è la madre di
tutti gli annunci: non si accederà al ruolo di insegnante se non per concorso.
Peccato che questo accadrà dopo una colossale infornata ope legis di precari,
non è chiaro se dell’ordine di 120.000 o più. Un paradosso degno delle filosofie
antiche. Oltretutto, questa assunzione ope legis sarà un gigantesco tappo che
renderà virtuale il bando di nuovi concorsi: un infimo rivoletto contrabbandato
per rivoluzione epocale. Di fatto, per molti anni, non vi sarà spazio per
l’ingresso di nuovi insegnanti, altro che “largo ai giovani”. Certo, qualcosa
si doveva fare, a fronte di graduatorie immense di aventi diritto, ma una via
era stata indicata a fine 2008 con l’introduzione del TFA (Tirocinio Formativo
Attivo), il ritorno ai concorsi, e la prospettiva di ripartire a metà
l’assunzione dei nuovi docenti tra giovani e iscritti alle graduatorie. Il TFA
è stato strangolato e, dopo sette anni si ripropone problema di assumere i
precari d’un colpo solo. Non è colpa di questo governo, d’accordo, ma non si venga
a gabellare questa scelta come il trionfo della meritocrazia solo perché in un
lontano futuro si tornerà a qualche sparuto concorso.
Assunzione degli insegnanti per merito. Il
merito è il tema cruciale. Nulla si può obiettare contro il principio che un
insegnante deve essere scelto per il suo merito. In linea di principio, neppure
si può obiettare contro l’idea di attribuirne il potere al dirigente
scolastico. A una serie di condizioni, che sono anni luce lontane dai propositi
circolanti. La prima condizione è che il dirigente scolastico sia un solido competente,
il primo degli insegnanti della scuola per cultura e autorevolezza: un vero e
proprio preside e non un manager stile “dirigente Asl”. Insomma, un personaggio
ben diverso da quello disegnato dall’ultimo scandaloso concorso per dirigenti
scolastici: un mix di capacità da quiz televisivo e di competenze
tecno-didattiche-pedagogiche stabilite nei pensatoi ministeriali con stile da
regime sovietico. In secondo luogo, vi è qualcosa che occorre dire senza
insopportabili ipocrisie: il nostro sistema, come in gran parte d’Europa, non è
privatistico, ma è un sistema pubblico a prevalenza statale. Blaterare di
“autonomia” come se le scuole fossero enti privati che si autofinanziano è una
indecente presa in giro. Uno stato che paga un istituto non può non controllarne
in qualche modo la gestione: vi saranno certamente istituti in cui il preside
agirà secondo criteri ineccepibili, altri in cui – pur essendo di indiscussa
probità personale – si troverà sottoposto a pressioni insostenibili. Vogliamo
offrire un altro terreno di affari alla criminalità organizzata? Il minimo che andrebbe
previsto – senza tornare a centralismi ministeriali – è una commissione di
assunzione composta dal preside e da altri due provenienti da altre città. È
costoso? Le nozze non si fanno con i fichi secchi.
Carriera degli insegnanti per merito.
Anche qui nascono obiezioni analoghe a quelle sollevate al punto precedente,
con due aggravanti. Su che basi saranno valutati gli insegnanti per la
progressione della carriera? Sulla base delle loro competenze nelle discipline
d’insegnamento e della qualità della loro didattica, o sulla capacità di
organizzare attività collaterali o di sostegno, come è stato adombrato? Nel
secondo caso, sarà premiato chi organizza ricerche sulla sostenibilità
ambientale o sulla teoria del gender e penalizzato il poveretto che ha “perso” tempo
a seguire un corso universitario su argomenti di matematica o di letteratura. E
chi valuterà? Il profilarsi delle figure dei docenti “tutor” e “mentor” fa
rabbrividire, in un paese in cui ogni incarico diventa subito un privilegio
castale. È facile prevedere il formarsi di camarillas formate dal dirigente
scolastico e dai suoi mentor che mettono all’angolo chi non si adegui alle loro
direttive didattiche pur se discutibili. Ci si dovrebbe mettere in mente che la
valutazione dei docenti non può prescindere da un giudizio “peer to peer” (tra
pari) derivante da commissioni composte oltre che dal preside, da docenti di
altre scuole e città, in modo da favorire, nel confronto, l’unico obbiettivo
che da senso alla valutazione: la crescita culturale. È costoso? Valga quanto
detto al punto precedente.
Dicevamo
di sperimentazioni nefaste, annunci di leggi abortite e ora di un bricolage di
annunci fumosi. In verità, in mezzo a questa nebbia, l’unico nucleo che emerge
come una conquista politicamente condivisa a destra e sinistra, l’unico solido
trionfo (purtroppo) delle politiche berlusconiane è la scuola delle tre “i”,
che ormai tutti accettano. Vediamo come si configura la scuola delle tre “i”
nella politica renziana degli annunci.
Internet. Neanche il più incallito dei
conservatori può negare la necessità di informatizzare la scuola. Ma c’è modo e
modo. Pare che ora si prenda atto del fallimento dell’introduzione delle LIM
(Lavagne Interattive Multimediali) e si proponga in cambio l’autonomia
completa. Ogni istituto si digitalizza come gli pare. Così avremo l’istituto
dove si usa solo carta e penna, quello dove si preferiscono i computer, quello
dove si opta per una miscela di libri e tablet, e quello dove si adotta il
tablet puro. Bisognerebbe poi vedere che tipo di tablet, perché se ogni
studente fosse libero di scegliersi il suo modello, si perderebbe metà
dell’anno a stabilire un linguaggio comune, per non dire dei dramma di chi
passi da un istituto a un altro… Immaginiamo anche quale proliferazione
demenziale di “libri” e supporti didattici seguirebbe da una simile
liberalizzazione. Non siamo fautori del modello cinese, in cui esiste un solo
manuale di matematica per le primarie in tutto il paese, ma esistono vie di
mezzo ragionevoli.
Coding. V’è un’altra dimensione
dell’informatica che si parla di introdurre nelle scuole: lo studio dell’“informatica”
come materia, attraverso l’addestramento ai procedimenti logici che presiedono
alla formazione dei programmi (“coding”). A parte che questa, se fatta seriamente,
è roba di livello universitario, si potrebbe accettare che i principi di base
della programmazione vengano spiegati ai ragazzi, a condizione di non
pretendere che ne diventino soggetti attivi. Di fatto, sembra che si tratti di
un ristretto modulo di insegnamento di logica che, in assenza di risorse,
dovrebbe essere svolto dall’insegnante di filosofia. Così il minimalismo si
associa allo scempio culturale, simile all’introduzione della materia
“geostoria” nella riforma Gelmini. E qui è ancor peggio, perché si finisce col
contrabbandare l’idea che la filosofia sia nient’altro che filosofia analitica
– una visione che oltre ad essere obsoleta è comunque talmente discutibile da
non poter essere introdotta di straforo per via burocratica.
Inglese. La situazione è analoga a
quella dell’informatica e del coding. Un conto è promuovere l’insegnamento
dell’inglese a tutti i livelli, a condizione di farlo seriamente con insegnanti
adeguati. Ma qui si vuol fare molto di più, e cioè – seguendo sconsiderate
scelte che hanno adottato paesi a scarso spessore culturale e che mai
adotterebbero paesi con una più consistente tradizione letteraria e culturale –
insegnare intere materie in inglese. È il cosiddetto Clil (Content and Language
Integrated Learning). Qualsiasi cosa se ne pensi, anche una cosa del genere non
si realizza con i fichi secchi. Quando si apprende che l’insegnamento Clil di
una materia dell’ultimo biennio delle scuole superiori è per ora sospeso per
carenza di insegnanti preparati, mentre il governo prospetta di introdurre una
materia in inglese per il 3° e 4° anno delle scuole elementari, non si sa se
ridere o piangere. Dove trovare i maestri destinati a insegnare matematica o
storia a bambini di 8-9 anni che non sanno ancora parlare in italiano, mentre,
d’altro lato, si straparla di dare una coscienza nazionale agli immigrati
attraverso l’insegnamento dell’italiano a scuola? Sembra di vivere in un film
di Alberto Sordi.
Impresa. Ci inchiniamo al valore
dell’impresa, ma non siamo propensi ad accettare le teorie secondo cui la
scuola si salva considerandola un’impresa, perché la conoscenza non è un
prodotto, gli insegnanti non sono produttori e alunni e famiglie non sono
utenti. Non insistiamo su questo punto toccato molte volte perché tanto non c’è
peggior sordo di chi non vuol sentire. Ciò non toglie che l’idea di creare una
connessione tra scuola e lavoro, attraverso un’alternanza tra didattica ed esperienze
in azienda, è buona. Ma anche qui occorre essere chiari e di chiarezza non se
ne vede punto, perché non sono precisate le modalità e i contesti in cui
dovrebbero realizzarsi queste esperienze, e la loro differenziazione secondo i
vari tipi d’istruzione. Oppure si vuole soltanto far passare la sciagurata idea
secondo cui il ragazzo deve decidere cosa fare entro i 14 anni e usare la
scuola come piattaforma di creazione di addetti per le imprese, a costo zero,
secondo un tipico stile italico?
Nuove materie. La sensazione che si
voglia sgretolare l’assetto disciplinare, colpendo le materie fondamentali,
come matematica, storia, letteratura, scienze, si fa forte quando si prospetta
un affollamento di altre materie, come storia dell’arte, economia, materie
giuridiche – e fin qui passi, a condizione che si dica chi “paga”
nell’invariato monte ore – e altre da cui sarebbe meglio tenersi alla larga,
come educazione alla cittadinanza ed ecologia: l’educazione civica nasce dalla
coscienza storica e non dalle prediche politicamente corrette. Più in generale,
in questo confuso panorama, non si spende una parola per l’educazione al pensiero critico. Qualche buontempone continua a
voler far credere che questa educazione si riduce alla capacità di risolvere
problemi, il “problem solving”. Peccato che, anche nella matematica, la scienza
che dà più certezze, esistono molti problemi che non si possono risolvere ed è
proprio riflettendo attorno a questi problemi che si acquisisce un pensiero
critico e competenze scientifiche (oltre a cogliere il profondo legame tra la cultura
scientifica e umanistica). Ma di queste “chiacchiere” sembra che non importi a
nessuno.
(Il Foglio 23 febbraio 2015)