Intervento al Convegno «In classe ho un bambino che…»,
Firenze, 6 febbraio 2015
Dibattito a due voci sul tema: «Sono utili le prove Invalsi?»
Pro: Alessandro Antonietti
Contro: Giorgio Israel
http://youtu.be/7ZVmqGAAVC8
E questo è il testo dell'intervento:
Firenze, 6 febbraio 2015
Dibattito a due voci sul tema: «Sono utili le prove Invalsi?»
Pro: Alessandro Antonietti
Contro: Giorgio Israel
http://youtu.be/7ZVmqGAAVC8
E questo è il testo dell'intervento:
Debbo scusarmi per non essere fisicamente presente per colpa di
quel che viene comunemente chiamato un “colpo della strega”. Spero tuttavia,
inviandovi questo intervento registrato, di non “rovinare” del tutto il
confronto sull’Invalsi. A proposito del quale dirò subito di non essere a
priori contro le prove Invalsi, tantomeno contro l’ente Invalsi, a condizione
che si accetti una discussione aperta a critiche e modifiche circa i contenuti
delle prove, che le finalità dell’ente siano chiaramente definite e che esso
non sia una struttura chiusa, impermeabile a competenze esterne.
Allo stato non è così. La ragione principale per cui non ho
voluto preparare una presentazione Power Point per questo intervento è che essa
avrebbe dovuto servire soprattutto ad analizzare una serie di casi di test che
ritengo criticabili ed esemplificativi di ciò che non si deve fare. Ma confesso
di provare un senso di sfinimento dopo aver prodotto per anni critiche su
critiche di casi specifici, precise, di contenuto, in articoli sulla stampa, in
convegni, in rete e, due anni fa, con un’analisi dettagliata di tutti i test Invalsi
di matematica che può essere letta sul blog “pensareinmatematica.it”. Nel corso
di questi anni non ho ricevuto una sola risposta, anzi per essere precisi una
soltanto da parte di un dirigente ministeriale cui replicai senza ricevere controreplica.
Ero giunto alla conclusione trattarsi di una manifestazione di arroganza o
anche di debolezza – le due cose vanno spesso insieme – e forse è anche così.
Ma v’è un’altra spiegazione e cioè che l’ente e i suoi esperti agiscono sulla
base di una visione così autoreferenziale da essere chiusa a qualsiasi
confronto esterno propriamente detto, ovvero non addomesticato, scegliendo
interlocutori già solidali con quella visione. Di recente, ne ho trovato una
dimostrazione scientifica in un articolo di un matematico ed esperto di
modellistica statistica e della valutazione, il prof. Enrico Rogora, che
consiglio di leggere sul sito “roars.it”. Tralasciando l’argomentazione
tecnica, che non è banale e va letta con pazienza, il succo è che gli esperti
dell’ente lavorano su un modello formale di scuola e di alunno espresso nel
principale modello statistico su cui commisurano tutto, il modello di Rasch; e
lavorano su un’idea delle materie coinvolte che non può essere messa in
discussione senza far crollare tutto in un colpo solo. Tale è, ad esempio, l’idea
di matematica dell’Invalsi: può essere rifinita, ritoccata ma non messa in
discussione. Si capisce allora anche perché l’ente faccia ricorso alla stessa
compagnia di giro di esperti e debba evitare come la peste l’intrusione di
elementi alieni. Di conseguenza, episodi sconcertanti come il bando per
reclutamento di 10 esperti, a fine 2014, promulgato senza pubblicità e con
scadenza di soli 10 giorni, sono probabilmente dovuti all’intenzione di evitare
che possa infiltrarsi nell’ente qualcuno non omogeneo all’ideologia
precostituita.
L’inanità di entrare nel merito del contenuto delle prove
Invalsi – per assenza di interlocutore – mi induce a proporre un discorso
generale che però risulterà nelle sue conclusioni quanto mai concreto.
Dicevo che non ho nulla a priori contro le prove Invalsi e
contro l’Invalsi, e questa non è una giaculatoria. Mentre sarebbe una
giaculatoria umiliante quella di proclamare di essere a favore della
valutazione, per evitare la scomunica abituale che viene lanciata contro i
critici: «Se critichi le prove Invalsi sei contro la valutazione». Chi lancia
questa scomunica dovrebbe vergognarsi. Davvero si vuol far credere che la
valutazione (della ricerca, della didattica) sia una scoperta dei nostri giorni?
Sarebbe una manifestazione di ignoranza (o di malafede) davvero sconcertante.
Non mi riferisco al fatto generico conseguente in modo naturale a qualsiasi
attività intellettuale: l’esercizio di una critica della medesima da parte di
altri. No, mi riferisco a un fatto storico ben preciso, e cioè che da quando la
ricerca scientifica è divenuta un fatto organizzato e di dimensioni sempre più
imponenti – con la nascita delle moderne Accademie, delle moderne università e
delle società scientifiche – la valutazione degli articoli o delle memorie è
divenuta un’attività codificata entro regole precise e rigorose. E non
diversamente per quanto riguarda l’insegnamento, da quando si sono affermate le
forme universalistiche di insegnamento e di scuola aperta a tutti e poi
addirittura obbligatoria – sulla base del principio che la diffusione della
conoscenza è il fondamento di una società democratica formata da individui
liberi e capaci di scegliere – con un forte intervento di direzione statale in
cui sono prefissate le regole di valutazione degli studenti e anche le regole
di valutazione dei docenti, mediante funzioni ispettive. Le forme che abbiamo
ereditato possono essere essere criticate, è giusto che si evolvano e ci si
adegui alle esigenze della società contemporanea – come del resto è sempre
accaduto nel tempo – ma non ci si venga a raccontare che la valutazione è
scoperta odierna, come se fino ad ora tutto fosse stato legato all’arbitrio.
Eh già – si dice – però quelle forme di valutazione non erano
improntate alla visione contemporanea: una valutazione oggettiva e standardizzata
che esclude i fattori perturbativi dei soggetti
– in particolare degli insegnanti, i loro umori variabili e le loro
idiosincrasie – per offrire risultati al riparo da ogni contestazione. È
evidente qui il riferimento al modello delle scienze esatte, emblema di
risultati indiscutibili e oggettivi.
Ma proprio questa pretesa, o speranza, di rifarsi a quel modello è intrisa di
un’illusione puerile. È ovvio che la conoscenza umana è fondata su
un’aspirazione al conseguimento di risultati aventi un valore intersoggettivo
quanto più possibile elevato: pensare qualcosa di diverso sarebbe affondare nel
relativismo assoluto, persino nella negazione dell’utilità di una comunicazione
discorsiva, alla maniera di quel Cratilo che – raccontava Aristotele –
ritenendo che mai ci si può immergere nella stessa acqua di un fiume, si
limitava a comunicare con i suoi simili muovendo un dito.
Tuttavia, di oggettivo in senso pieno, esiste una sola forma di
conoscenza, quella della matematica astratta, che faceva dire al celebre
matematico italiano Vito Volterra che mentre gli imperi crollano i teoremi di
Euclide restano saldi. La matematica greca ha realizzato l’aspirazione a una
forma di conoscenza altamente intersoggettiva idealizzando una serie di forme,
figure e procedure pratiche come enti fondamentali di una scienza – la
matematica – su cui ha ragionato in forma puramente logica. La matematica
moderna è andata oltre, eliminando ogni “scoria” di concretezza – come certe
definizioni contenutistiche che ancora erano presenti nella matematica euclidea
– per realizzare con l’assiomatica una scienza assolutamente oggettiva, in
quanto fondata esclusivamente sui procedimenti della logica formale. Ma anche
qui, non appena si “ridiscende” dall’empireo dei concetti astratti per
riempirli dell’opacità e dello spessore dei fatti reali, iniziano i problemi.
La matematica applicata e la fisica non godono più del privilegio di resistere
al crollo degli imperi e spesso le loro “leggi” cadono come essi. E ancor più
questo è evidente in branche come le probabilità e la statistica intrise di
realtà concreta nei loro fondamenti stessi.
La difficoltà si fa ancor più evidente nelle scienze della vita,
nella biologia, dove è in discussione se si possa anche parlare di una
dimensione teorica (ovvero di leggi), anche perché – si pensi alle teorie
dell’evoluzione – spesso interviene una dimensione così complessa e difficile
da pensare in termini quantitativi come quella storica. Quando poi passiamo alle scienze in cui interviene il
fattore eminentemente soggettivo, il fattore umano, la pretesa di raggiungere risultati fortemente oggettivi è
senza senso. Potrei dire con il celebre matematico Henri Poincaré che
l’applicazione del calcolo ai problemi morali è lo scandalo della scienza. Mi
limiterò a dire che l’aspirazione a risultati aventi il massimo valore
intersoggettivo possibile, è inevitabile, corretta e giustificata, ma non può
giungere al punto di far credere che sia possibile espungere il soggetto e la
sua presenza, quali che siano le forme di valutazione che si decida di
scegliere. Penso che sia possibile aspirare a valutazioni quanto più possibile condivise, ispirate a equanimità, in una cornice di crescente
miglioramento quale può dare soltanto un confronto culturale intersoggettivo,
ma ogni pretesa di cancellare la presenza del soggetto è, questa sì,
scandalosa. In effetti, l’unica cosa che si può fare è di eliminare dalla scena
la presenza del fattore più smaccatamente soggettivo – l’insegnante e la sua
valutazione – sostituirla con valutazioni standardizzate mediante test, i quali
però sono preparati da esperti che hanno la loro visione soggettiva della
materia, delle modalità dell’insegnamento, ecc., i quali ci vogliono far
credere che la loro soggettività in realtà non esista perché si rifanno a un
modello quantitativo formale avente valore oggettivo. Il punto è che tentare di
far credere che nella valutazione si possa eliminare del tutto il fattore
soggettivo equivale a far finta che una stanza sia pulita perché si è nascosta
la polvere sotto il tappeto – fuor di metafora, sotto il tappeto dei modelli
formali e di costrutti formali dell’idea di bambino, di alunno o di insegnante.
Così si sostituisce all’ideale possibile del miglioramento concreto e
progressivo quello della costruzione di una realtà perfetta su schemi
preformati, che corrisponde a un tipico pensiero totalitario.
Non perderò tempo a rispondere a obiezioni che mi sono sentito
fare una volta, e cioè, che nel “modesto” caso in esame è inutile mettere in
gioco la tematica filosofica dell’oggettività, perché quel che si vuole è
soltanto escludere un fattore perturbativo della soggettività dell’insegnante,
instradandolo dentro una griglia di valutazione preformata. Ma allora bisognerebbe
avere la decenza di parlare di standardizzazione di alcuni aspetti della
valutazione e non di parlare pomposamente di “valutazione oggettiva”, tantomeno
di cercare di mettere a tacere i critici come nemici della valutazione tout court. No, quel che è in gioco è
proprio la pretesa (o vana speranza) di cui dicevo: e cioè di fare della
valutazione qualcosa di simile alla matematica assiomatica. Difatti, questo può
farsi in un modo solo: come la matematica sostituisce ai cerchi o ai segmenti
concreti, cerchi astratti e rette perfette e ragiona su di essi, occorre
sostituire alla scuola concreta, all’alunno concreto, alla materia scolastica
concreta, una scuola, un alunno e una materia idealizzata per i quali costruire
test standardizzati che si giustificano per la loro coerenza interna, ovvero
per la coerenza con il modello dato. Tuttavia, se in fisica l’uso delle
idealizzazioni della matematica ha funzionato (ed entro certi limiti!), con
ogni evidenza perché erano ricavate come aspetti invariabili di enti materiali,
qui la faccenda si fa molto più complessa e discutibile: i modelli quantitativi
idealizzano aspetti che non sono per nulla invariabili e che sono “perturbati”
dall’azione di “soggetti”, ovvero proprio di ciò che più complica il raggiungimento
di risultati oggettivi.
Permettetemi di leggere un brano del filosofo Maurice
Merleau-Ponty:
Egli critica una «scienza che manipola le cose e rinuncia ad
abitarle. Essa se ne dà dei modelli interni e operando su questi indici o
variabili le trasformazioni permesse dalla loro definizione, si confronta
soltanto da lontano col mondo attuale. Essa è quel pensiero ammirevolmente
attivo, ingegnoso, disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come
“oggetto in generale”, cioè al contempo come se non fosse nulla per noi e
tuttavia fosse predestinato ai nostri artifizi. Ma la scienza classica conservava
il sentimento dell’opacità del mondo, è esso che intendeva raggiungere con le
sue costruzioni, ecco perché si credeva obbligata a cercare per le sue operazioni
un fondamento trascendente o trascendentale. Vi è oggi il fatto nuovo che la
pratica costruttiva si prende e si da come autonoma, e che il pensiero si
riduce deliberatamente all’insieme delle tecniche di presa o di captazione che
inventa. Pensare è tentare, operare, trasformare, con la sola riserva di un
controllo sperimentale in cui intervengono solo fenomeni altamente “lavorati”
[…] Di qui ogni sorta di tentativi vagabondi. […] Quando un modello ha avuto
successo in un ordine di problemi, lo si prova dappertutto. La nostra
embriologia, la nostra biologia sono piene di gradienti di cui non si vede in che si distinguano da quel che i
classici chiamavano ordine o totalità, ma la questione non è posta, non deve
esserlo. Il gradiente è una rete che si getta in mare senza sapere cosa
raccoglierà. […] Questa libertà operativa può superare dei dilemmi vani, purché
ogni tanto si faccia il punto, ci si chieda perché lo strumento funziona qui e
fallisce altrove, in breve purché questa scienza fluida si comprenda e si veda
come costruzione fondata su un mondo bruto ed esistente e non attribuisca a
operazioni cieche un valore costitutivo. […] Se poi questo genere di pensiero
operativo si prende carico dell’uomo e della storia e se, fingendo di ignorare
quel che ne sappiamo per contatto e per posizione, intraprende a costruirli a
partire da alcuni indici astratti, come hanno fatto negli Stati Uniti una
psicanalisi e un culturalismo decadenti, poiché l’uomo diventa davvero il manipulandum che pensa di essere, si entra
in un regime culturale in cui non vi è più né vero né falso riguardo l’uomo e
la storia, in un sogno o un incubo da cui nulla potrebbe svegliarci».
In verità, i misfatti del formalismo sono andati e stanno
andando molto oltre il culturalismo decadente di cui parlava Merleau-Ponty. Basti
pensare alle teorie pedagogiche di Jean Piaget, che hanno avuto influssi
nefasti sull’insegnamento: la teoria sballata secondo cui un bambino non può
manipolare concetti matematici prima dei 7 anni ha devastato decenni di
insegnamento della matematica. Di essa può soltanto dirsi che il suo autore non
doveva aver visto un bambino reale una sola volta in vita sua. Più di recente
basti pensare alla traballante connessione tra apprendimento della matematica e
analisi neuroscientifiche mediante la risonanza magnetica, una connessione priva
di qualsiasi valore scientifico serio, ma tanto attraente perché “moderna”, non
importa se anch’essa basata su un modello di bambino inesistente nella realtà.
L’ideologia dell’Invalsi è in consonanza con questo tipo di approcci formali. È
forse un caso che i suoi esperti, per evitare la problematica che stiamo qui
sollevando procedano dando una definizione formale di “oggettività”, come si fa
con gli assiomi della matematica? Essi avvertono – vale davvero la pena di
leggere questo illuminante passaggio di un articolo del suo responsabile
scientifico – che «il modello di Rasch non può essere applicato secondo una
modalità meramente esplorativa, ovvero di verifica ex post se il modello si adatta ai dati empirici, ma è necessario
che il test sia costruito secondo modalità tali che i dati da esso forniti si
conformino con ragionevole approssimazione al modello stesso. Ciò significa che
il test deve essere costruito in modo tale che l’insieme delle domande che lo
compongono e la loro successione sia tale da rispecchiare anche sul piano
sostantivo dell’ambito disciplinare cognitivo indagato le assunzioni del
modello di Rasch».
Ogni commento è quasi superfluo. È difficile non vedere come
quanto ho detto prima sia fondato. La realtà è rappresentata dal modello di
Rasch – quello che un illustre psicometrico ha peraltro definito un feticcio
statistico – la nozione di oggettività è quella definita mediante assiomi
interni al modello, i test debbono rispecchiare le assunzioni del modello,
anche sul piano della sostanza della disciplina in oggetto – in altri termini
la matematica dell’Invalsi, o la letteratura italiana, è quella definita dall’ente.
Cosa volete che si possa discutere in queste condizioni? Ma, soprattutto,
come può il sistema dell’istruzione di un grande paese conformarsi tutto
all’ideologia formalista di un ristretto gruppetto di esperti che, al massimo,
accetta di confrontarsi con una fascia ristretta di persone che ruota attorno
alla sua visione come gli anelli di Saturno? L’unica richiesta può essere: si
spalanchino le finestre, l’Invalsi non è il detentore di cos’è la matematica o
la letteratura; è una pretesa più ancor che inaccettabile, ridicola, che un
simile modo di procedere abbia alcunché di oggettivo – nel senso autentico del
termine e non secondo una definizione formale di comodo. Questo modo di
procedere è il massimo dell’arbitrio e contraddice il concetto stesso di
cultura e di conoscenza che solo in paese totalitario può essere definita nelle
sue forme e delegata nella sua gestione a poche persone.
Qui veniamo all’altra questione cruciale. Qual è la funzione
dell’Invalsi? Tentare di fornire – attraverso una molteplicità di strumenti,
quantitativi e qualitativi – un quadro dello stato del sistema italiano
dell’istruzione che possa costituire un valido strumento a migliorarlo? Se
questa è la funzione dell’Invalsi, nulla da obbiettare, anzi, non si può che
salutare con favore un’attività del genere che può espletarsi in varie forme:
con sondaggi campionari (com’è tipico delle ricerche statistiche), con il
ricorso a test (da elaborare a finestre aperte e accettando di dare ascolto a
una discussione ampia sulle scelte fatte), mediante strumenti di ricerca sul
campo, didattica, ecc. Se invece l’intenzione è quella di sostituirsi pian
piano alla funzione valutativa dell’insegnante nei confronti degli studenti – a
mio avviso assolutamente ineliminabile –, sulle basi a dir poco discutibili che
abbiamo visto e con l’esclusivo ricorso ai test, e se si mira addirittura a
valutare con i test insegnanti e istituti, allora non ci siamo proprio. “Perché
non ci siamo” sta tutto nelle cose che ho detto e nei modi inaccettabili in cui
è venuta avanti questa intenzione. Penso alla prova Invalsi per l’esame di
terza media. Non c’è bisogno di essere un grande epistemologo per capire
l’assurdità di una simile scelta. Invece di limitarsi a tentare di valutare i
successi conseguiti dalla didattica ordinaria, si inserisce una prova
(oltretutto basata sull’ideologia che abbiamo visto) che ha due effetti. Il
primo è di perturbare l’esito dell’esame: sarebbe come se un chimico chiamato a
determinare i componenti di una miscela l’agitasse mediante non mediante una
bacchetta di vetro neutro, ma mediante una bacchetta intrisa di una sostanza
che reagisce con la miscela. Il secondo effetto è ancora peggiore: stimolare
insegnanti e studenti a insegnare e studiare una nuova materia, ovvero i test
Invalsi. Questo configura la disastrosa tendenza – tanto criticata nei paesi come
gli USA dove è stata sperimentata – al “teaching to the test”, all’insegnamento
in funzione del superamento dei test, che assai di recente è stata indicata
come un rischio molto grave dal precedente presidente dell’Invalsi. Ma ormai
trattasi di un andazzo dilagante. Pullulano manualetti per prepararsi al
superamento dei test, talora persino redatti da esperti dell’Invalsi, il che
oltre a essere grave sul piano deontologico, finisce col trasmettere un’idea
standardizzata, per esempio della matematica, in alcuni casi veramente di
infimo livello, comunque discutibile e che poco ha a che fare con una visione
aperta, intelligente, culturalmente ampia della materia, e anzi tale da
alimentarne la visione più tristemente nozionistica, proprio quella che viene continuamente
deplorata. Tanto che sono sempre più numerosi i docenti di matematica
intristiti dal dover trattare la loro materia come un insieme di tecniche
operative meccaniche, con un completo oscuramento degli aspetti concettuali che
potrebbero vincere la tradizionale ritrosia nei confronti di questa materia.
Cos’altro potrei aggiungere? Come ho detto nessuna obiezione di
principio all’Invalsi e ai suoi test, purché l’ente spalanchi le finestre,
abbandoni il feticismo nei confronti dei modelli statistici, dismetta le
visioni infantili di oggettività, accetti che la valutazione è un processo di
crescita culturale intersoggettiva e non l’applicazione di modelli formalizzati
scelti da un’elite autoreferenziale, che non pretenda di standardizzare
insegnanti e alunni, che apra la discussione sulla qualità dei test proposti a
un autentico confronto culturale. Speriamo che l’attuale presidenza
dell’Invalsi voglia orientare l’ente in questa direzione.
5 commenti:
Nel mio piccolo vorrei sostenere le critiche del prof. Israel, con particolare riguardo del "teaching to the test". Ricordo di aver preparato l'esame teorico per la guida studiando centinaia di test di cui alcuni sarebbero poi stati proposti nella prova. Trattandosi di imparare segnaletica stradale e comportamenti standard di guida, il metodo era adeguato.
Ma i test Invalsi si propongono di valutare oggettivamente la capacità di ragionamento autonomo del singolo allievo: ora, quale legame può stabilirsi fra questa capacità e il fatto di essersi invece addestrato su centinaia di test SIMILI a quelli che verranno proposti? Non vi è in questo modo d'operare proprio la negazione di quanto si vuol misurare? Il "teaching to the test" insomma non va a inquinare ulteriormente la pretesa oggettività della prova?
Se i test devono essere una valutazione di quanto l'insegnamento ha migliorato le capacità logiche e applicative dei ragazzi, a me pare addirittura che il "teaching to the test" andrebbe eliminato anzichè incoraggiato.
A riprova cito (purtroppo a memoria) quanto sostenuto da un'esperta dell'Invalsi che vantava come un successo il fatto che da un anno all'altro le valutazioni di matematica "oggettive" riferite a una regione (mi pare la Puglia) fossero nettamente migliorate quando si era insegnato a superare i test. Cioè, non era nettamente migliorato l'insegnamento e la comprensione della materia, cosa del resto impossibile da ottenere in un solo anno, ma la comprensione dei test.
Sai che risultato...Quando si dice l'autoreferenzialità.
Andrebbe verificato, ma ho letto che i 5000 ammessi dal TAR a frequentare medicina, hanno risultati del tutto identici a quelli che erano stati ammessi con i test.
La ringrazio per il suo intervento che condivido pienamente.
Quello che non capisco è che l'uso dei test (e meglio dei soli test) è una pratica che oramai anche gli psicologi e gli psichiatri hanno abbandonato.
I test (cognitivi, di personalità, ecc.) sono ovviamente ancora usati. Ma il loro loro uso ai fini diagnostistici è considerato insufficiente, sebbene utile.
Stessa cosa io credo che valga per i test a scuola. Tutti i test, anche i migliori test, non possono essere utilizzati da soli. Possono dare un'indicazione importante, ma non possono esaurire il processo di valutazione.
Vorrei dire però una cosa. La valutazione scolastica, con qualunque mezzo si utilizzi, non può mai essere oggettiva. Qualunque sia il mezzo utilizzato, si possono fare errore e prendere cantonate. Ricordo quando andavo alle scuole medie, quante cantonate abbiano preso i professori nel valutare i ragazzi. Alcuni che i professori consideravano un po' cretini hanno poi fatto passi avanti, altri che i professori portavano a esempio di "rettitudine" hanno poi fatto una fine discutibile.
Certamente, bisogna esigere una buona scuola e dei buoni insegnanti. E bisogna cercare di poter individuare le lacune e le incapacità. Ma la valutazione perfetta non esiste e, qualunque sia lo strumento che si adotti, gli errori, anche gravi, sono sempre dietro l'angolo.
Buongiorno, vorrei sottoporvi queste riflessioni.
Lo Stato italiano aveva un sistema di esami nei vari ordini e gradi. Li ha completamente smantellati, lasciandone due (medie e superiori), con percentuali di promozione stratosferiche. Ci sono motivi economici (risparmi), sociale (tutti dentro e non in mezzo alla strada) e l'interesse a colmare i vuoti con affarucci privati verniciati dalla salsa angloamericana (test e manuali per test). Alle elementari la classe di mio figlio lavorava senza obiettivi chiari: le lezioni saltate per lasciare spazio a Amnesty e agli spettacoli teatrali sono state almeno quindici nell'ultimo anno. I bambini non erano stimolati ad impegnarsi per un obiettivo finale, come poteva essere l'esame di quinta con maestra esterne, e a gestirne lo stress. Il preside (impegnato con altre scuole) non s'è visto mai.
Passa continuamente il messaggio che se si lavora va bene, ma se non si lavora va bene lo stesso. In qualche modo, negli ultimi quarant'anni, la scuola ha subito una mutazione genetica: da luogo di formazione e selezione oculata a luogo di permanenza, contenitore multiplo e vario e, non da ultimo, rivendita di CD e teleschermi. Mi sembra un quadro squallido, nel quale la componente formativa e culturale è solo uno e non il principale ingrediente. Testimonia una profonda ritrazione dello stato e dei suoi compiti educativi.
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