mercoledì 13 febbraio 2008

Mettere la chiesa nell’asse del male antisemita è una follia

Dal 1967 dedico un impegno militante nella lotta contro l’antisemitismo ma non ho mai provato un malessere come quello provocato da certe posizioni recenti che, se dovessero prevalere, mi spingerebbero a dire: mi dimetto.
La vicenda della lista nera dei docenti è un modesto episodio tra tanti. Liste analoghe sono circolate, senza che succedesse nulla. Da anni certi docenti si occupano, nei loro blog, con ossessiva ostilità degli ebrei e di Israele. Non di rado sono comparse in rete minacce anche personali, con tanto di nome e cognome: è capitato anche a me e le solidarietà sono state avare. Invece, attorno a questo modesto episodio è scoppiata una tempesta mediatica senza precedenti che non si è vista per vicende ben più gravi come gli appelli al boicottaggio scientifico di Israele. Né si è vista tanta indignazione per le scandalose affermazioni circolate attorno alla campagna di boicottaggio della Fiera del libro di Torino. Tale è il caso dello slogan “Gaza come Auschwitz”, che è stato ripreso, come una giaculatoria, persino da taluni contrari al boicottaggio. Forse si vuol far credere che gli internati di Auschwitz fossero armati fino ai denti e sparassero centinaia di missili sulle cittadine circostanti.
Queste sono le tragiche infamie – propaganda goebbelsiana: ripeti mille volte una menzogna e diventerà una verità – che alimentano l’antisemitismo, messe in giro da piccoli gruppi capaci di captare l’attenzione, secondo un meccanismo ben descritto da Pierluigi Battista sul Corriere: «Pochi, prepotenti ma abili con i media». Ed è molto pericoloso il silenzio che circonda questi slogan e il modesto livello delle proteste attorno alle iniziative di boicottaggio, a fronte del clamore attorno alla “lista nera”.
Comunque, nulla autorizza a “temere un’altra notte dei cristalli”. Il Presidente del Congresso Ebraico Europeo Moshe Kantor deve avere scarse conoscenze di storia per fare raffronti simili. La vera notte dei cristalli è quella cui rischia di andare incontro l’Europa, ormai in fase di dissoluzione di fronte all’assalto dell’integralismo islamico, tra vescovi anglicani che propongono la legalizzazione della sharia e decisioni di conferire assegni familiari ai poligami. Di questo dramma l’antisemitismo è soltanto la misura della febbre.
Ancor più sconcertanti sono le dichiarazioni di Elan Steinberg, direttore del World Jewish Congress che indica come segnali di una drammatica situazione antisemita in Italia tre incidenti: il boicottaggio di Torino, la lista nera e la preghiera cattolica in latino per la salvezza degli ebrei. I primi due hanno con l’ultimo la stessa relazione che intercorre fra le nozze e l’equinozio. Steinberg è giunto a parlare di un asse del male operante in Italia formato da estrema destra, estrema sinistra e integralismo islamico con l’apporto della Chiesa. In più vi sarebbe la “sorpresa” dei comunisti, che egli confonde col vecchio PCI.
Circa la preghiera tridentina si può pensarla come si vuole ma è consigliabile la moderazione. L’autorevole rabbino David Rosen, presidente dell’International Jewish Committee per il dialogo interreligioso, pur esprimendo legittime perplessità, ha definito “rash decision” (decisione sconsiderata) l’interruzione del dialogo da parte del rabbinato italiano e ha invitato a non creare un casus belli. Anche un’assemblea di 400 rabbini americani ha invitato alla calma e alla ponderazione, e il suo presidente Alvin Berkun ha definito l’iniziativa del rabbino Di Segni «estrema e molto dannosa». Se è sconsiderato interrompere il dialogo, collocare la Chiesa nell’asse del male antisemita è un’autentica follia.
Ma, come se non bastasse, Steinberg presenta l’Italia come epicentro dell’antisemitismo e addirittura non esclude l’ipotesi di un boicottaggio nei suoi confronti. Egli è totalmente disinformato e qualcuno gli deve aver raccontato balle invece di spiegargli che l’Italia è uno dei paesi meno antisemiti d’Europa.
Giorni fa scrissi su questo giornale che “se” fossero state poste condizioni e richieste di bilanciamenti a Israele per confermargli l’invito come ospite d’onore al salone di Torino, sarebbe stato meglio non andare. Gli sviluppi successivi hanno mostrato che quelle condizioni non sono state poste e quindi che Israele può mandare dignitosamente la sua delegazione di scrittori a Torino. I boicottatori sono stati messi all’angolo, anche se tenteranno di organizzare qualche scandalo nello stile del boicottaggio della visita del Papa alla Sapienza. Per quel richiamo che avevo fatto a evitare situazioni umilianti, qualche buontempone alla Gad Lerner mi ha accusato di promuovere un boicottaggio simmetrico e addirittura di essere un “complice” dell’“opposta schiera” dei boicottatori. Ora, un minimo di coerenza richiederebbe un’energica presa di distanza da quello che è un vero appello al boicottaggio, e per giunta dissennato. È da augurarsi che posizioni come quella di Steinberg spariscano prontamente dalla scena. Perché, se dovessero prendere piede, avrebbero il problema di trovare soldatini abbastanza sciocchi da farsi arruolare in un simile guerra irresponsabile.
(pubblicato su Il Foglio, 13 febbraio 2008)
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3 commenti:

Nessie ha detto...

Ottimo articolo, come di consueto. Di questo passo, anche papa Ratzinger e Ruini saranno "antisemiti"? Credo che la ragionevolezza convenga a tutti. Poiché se tutto o tutti sono antisemiti, poi se ne svilisce, svillaneggia e declassa l'autentico significato. Bisognerebbe ricordare quell'Umanesimo europeo in cui filosofie ebraiche e cristiane si intrecciavano con mutuo beneficio. Spinoza fu fortemente influenzato dal cartesianesimo, per fare un illustre esempio.

Giorgio Israel ha detto...

Oremus et pro Iudaeis
di Gianfranco Ravasi

Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".
Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo Oremus et pro Iudaeis per la Liturgia del Venerdì Santo. Non c'è bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio papale Summorum Pontificum dello scorso luglio.
All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo textus rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.
Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4, 12).
A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria. È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (11, 25-27).
Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è un'interazione tra le cosiddette lex orandi e lex credendi). A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).
Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.
Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita.
È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".
(©L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2008)

Giorgio Israel ha detto...

UNA SINTESI DEL PUNTO DI VISTA DEL RABBINO DAVID BERGER CIRCA LE POSIZIONI DI RATZINGER
(al tempo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede)

Covenant, Mission, Witness: Cardinal Ratzinger
Let us now look at the thinking of Cardinal Ratzinger, Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith. The Cardinal’s writing assumes the same background information as Reflections but makes a different statement.
God and the World
Cardinal Ratzinger’s new book length interview, God and the World (Ignatius Press, 2002), was published about the same time as Reflections.
When asked if the “Jews will have to recognize the Messiah, or ought to do so?” the Cardinal replied:
“That is what we believe. That does not mean that we have to force Christ upon them but that we should share in the patience of God. We also have to try to live our life together in Christ in such a way that it no longer stands in opposition to them or would be unacceptable to them but so that it facilitates their own approach to it. It is in fact still our belief as Christians that Christ is the Messiah of Israel. It is in God’s hands, of course, just in what way, when, and how the reuniting of Jews and Gentiles, the reunification of God’s people, will be achieved.” (p. 150)
Thus, according to Cardinal Ratzinger, the Jews need to recognize the Messiah and we ought to live so as to facilitate that recognition
Many Religions ­ One Covenant
Here, I include a few passages from the Cardinal’s Many Religions ­ One Covenant (Ignatius Press, 1999) which directly relate to the conclusion offered by Reflections. But to fully appreciate what Cardinal Ratzinger is saying, I strongly urge you to read and re-read this book.
Early in the book, the question is posed:
Can Christian faith, retaining its inner power and dignity, not only tolerate Judaism but accept it in its historic mission? Or can it not? Can there be true reconciliation without abandoning the faith, or is reconciliation tied to such abandonment? (p. 24)
The book proceeds to explore the notions of covenant, testament, the Hebrew word b’rith and notes:
“... there is only one will of God for men, only one historical activity of God with and for men, though this activity employs interventions that are diverse and even in part contradictory ­yet in truth they belong together.” (p. 57)
Further on, in the light of one will of God for men, the Cardinal writes of the inner continuity of salvation history.
“First of all we must remember that the fundamentally ‘new’ covenant ­ the covenant with Abraham ­ has a universalist orientation and looks toward the many sons who will be given to Abraham.”
“... right from the beginning, the promise to Abraham guarantees salvation history’s inner continuity from the Patriarchs of Israel down to Christ and to the Church of Jews and Gentiles.
“With regard to the Sinai Covenant ... It is strictly limited to the people of Israel; it gives this nation a legal and cultic order (the two are inseparable) that as such cannot simply be extended to all nations.”
“To that extent it is conditional, that is, temporal; within God’s providential rule it is a stage that has its own allotted period of time. (p. 68)
Now, Israel’s Torah must become universal, so that the one will of God for men can reach beyond Israel.
“The Torah of the Messiah is the Messiah, Jesus himself. ... In this way the ‘Law’ becomes universal; it is grace constituting a people which becomes such by hearing the word and undergoing conversion. In this Torah, which is Jesus himself, the abiding essence of what was inscribed on the stone tablets at Sinai is now written in living flesh, namely, the twofold command of love. This is set forth in Philippians 2:5 as ‘the mind of Christ.’ To imitate him, to follow him in discipleship, is therefore to keep the Torah, which has been fulfilled in him once and for all.
“Thus the Sinai covenant is indeed superceded. But once what is provisional in it has been swept away, we see what is truly definitive in it. So the expectation of the New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds, does not conflict with the Sinai covenant; rather, it fulfills the dynamic expectation found in that very covenant.” (p. 70-71)
Although the Torah has become universal and the Sinai covenant is now superceded in Jesus, God remains faithful to Israel.
“’When Israel was young, I loved him’, God says, in the Prophet Hosea, of his manner of binding himself to his people. It follows that, even when the covenant is continually being broken, God, by his very nature cannot allow it to fall. ‘How could I abandon you, Ephraim; how could I give you up Israel? ... My heart turns against me, my compassion flames forth’ (Hos. 11:1,8)” (p.72)
And God’s faithfulness includes the irrevocable gift to Israel of their vocation.
“... even if Christians look for the day when Israel will recognize Christ as the Son of God and the rift that separates them will be healed, they should also acknowledge God’s providence, which has obviously given Israel a particular mission in this ‘time of the Gentiles.’ The Fathers say that the Jews, to whom Holy Scripture was first entrusted must remain alongside us as a witness to the world.” (p. 104)
Does God’s faithfulness and his gifts to Israel therefore imply that the Jewish people do not need Jesus?
“Does this mean that missionary activity should cease and be replaced by dialogue, where it is not a question of truth but of making one another better Christians, Jews, Moslems, Hindus or Buddhists? My answer is No. For this would be nothing other than total lack of conviction; under the pretext of affirming one another in our best points, we would in fact be failing to take ourselves (or others) seriously; we would be finally renouncing truth. Rather, the answer must be that mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate.
“Dialogue is not aimless conversation; it aims at conviction, at finding the truth; otherwise it is worthless. Conversely, missionary activity in the future cannot proceed as if it were simply a case of communicating to someone who has no knowledge at all of God what he has to believe.”
“There can be this kind of communication, of course, and perhaps it will become more widespread in certain places in a world that is becoming increasingly atheistic. But in the world of religions we meet people who have heard of God through their religion and try to live in relationship with him.
“In this way, proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process. We are not telling the other person something that is entirely unknown to him; rather, we are opening up the hidden depth of something with which, in his own religion, he is already in touch.” (pp. 111-112)


Rabbi David Berger on genuine "respect" for religious identity of the other

When Dominus Iesus was first released by the Congregation for the Doctrine of the Faith, there was a clamor among concerned liberal Catholics that the Vatican's insistence on the "unicity and salvific universality" of Jesus Christ and the Church constituted a severe impediment for ecumenical and interreligious dialogue. Among the Jewish responses to the document, I was intrigued and impressed by Rabbi David Berger, who distinguished himself by his acknowledgement of the right of Christians to be themselves ("On Dominus Iesus and the Jews"), going so far as to agree with a qualified "supercessionism" as found in Cardinal Ratzingers's Many Religions, One Covenant (Ignatius, 1999):
"The Sinai covenant," writes Cardinal Ratzinger, "is indeed superseded. But once what was provisional in it has been swept away we see what is truly definitive in it. The New Covenant, which becomes clearer and clearer as the history of Israel unfolds.., fulfills the dynamic expectation found in [the Sinai covenant]." (pp. 70-71) And in another formulation, "All cultic ordinances of the Old Testament are seen to be taken up into [Jesus'] death and brought to their deepest meaning .... The universalizing of the Torah by Jesus...preserves the unity of cult and ethos The entire cult is bound together in the Cross, indeed, for the first time has become fully real." Cardinal Ratzinger, then, who has also declared that despite Israel's special mission at this stage of history, "we wait for the instant in which Israel will say yes to Christ," (National Catholic Reporter, Oct. 6, 2000), is a supersessionist.
At this point, we need to confront the real question, to wit, is there anything objectionable about this position? In a dialogical environment in which the term "supersessionism" has been turned into an epithet by both Jews and Christians, this may appear to be a puzzling question. We need to distinguish, however, between two forms of supersessionism, and in my view Jews have absolutely no right to object to the form endorsed by Cardinal Ratzinger. There is nothing in the core beliefs of Christianity that requires the sort of supersessionism that sees Judaism as spiritually arid, as an expression of narrow, petty legalism pursued in the service of a vengeful God and eventually replaced by a vital religion of universal love. Such a depiction is anti-Jewish, even antisemitic. But Cardinal Ratzinger never describes Judaism in such a fashion. On the contrary, he sees believing Jews as witnesses through their observance of Torah to the commitment to God's will, to the establishment of his kingdom even in the pre-messianic world, and to faith in a wholly just world after the ultimate redemption. (pp. 104-105) This understanding of Jews as a witness people is very different from the original Augustinian version in which Jews testified to Christian truth through their validation of the Hebrew Bible and their interminable suffering in exile.
For Jews to denounce this sort of supersessionism as morally wrong and disqualifying in the context of dialogue is to turn dialogue into a novel form of religious intimidation. As Rabbi Joseph B. Soloveitchik understood very well, such a position is pragmatically dangerous for Jews, who become vulnerable to reciprocal demands for theological reform of Judaism, and it is even morally wrong. . . .
Berger goes on turn the argument of Jewish critics of Dominus Iesus on its head, pointing out that Jews must accord Christianity the same respect they wish to retain for their own religion:
Now, let us assume that I respect the Christian religion, as I do. Let us assume further that I respect believing Christians, as I do, for qualities that emerge precisely out of their Christian faith. But I believe that the worship of Jesus as God is a serious religious error displeasing to God even if the worshipper is a non-Jew, and that at the end of days Christians will come to recognize this. Is this belief immoral? Does it disqualify me as a participant in dialogue? Does it entitle a Christian to denounce me for adhering to a teaching of contempt? I hope the answer to these questions is "no." If it is "yes," then interfaith dialogue is destructive of traditional Judaism and must be abandoned forthwith. We would face a remarkable paradox. Precisely because of its striving for interfaith respect and understanding, dialogue would become an instrument of religious imperialism.
Once I take this position, I must extend it to Christians as well. As long as Christians do not vilify Judaism and Jews in the manner that I described earlier, they have every right to assert that Judaism errs about religious questions of the most central importance, that equality in dialogue does not mean the equal standing of the parties' religious doctrines, that at the end of days Jews will recognize the divinity of Jesus, even that salvation is much more difficult for one who stands outside the Catholic Church. If I were to criticize Cardinal Ratzinger for holding these views, I would be applying an egregious double standard. I am not unmindful of the fact that these doctrines, unlike comparable ones in Judaism, have served as a basis for persecution through the centuries. Nonetheless, once a Christian has explicitly severed the link between such beliefs and anti-Jewish attitudes and behavior, one cannot legitimately demand that he or she abandon them.
It wouldn't be fair to discuss Rabbi Berger's agreement with Ratzinger without acknowledging that he goes on to express his discomfort with his call in Many Religions that "mission and dialogue should no longer be opposites but should mutually interpenetrate" and that "proclamation of the gospel must be necessarily a dialogical process," and Dominus Iesus's reminder that the "primary commitment" of Catholics was to "[proclaim] to all people the truth definitively revealed to the Lord."
Rabbi Berger and Cardinal Ratzinger will probably "agree to disagree" until Moshiach comes (or, as Christians would say, returns) -- but in recognizing that Christianity's call to salvation in Christ is applicable to all, and that Christians are entitled to this belief without feeling compelled to water it down for the sake of "can't we all just get along" contemporary pluralism, I believe he demonstrates far greater respect for our faith than some of those currently participating in interreligious dialogue.