Dal mio punto di vista di ebreo leggo gli scritti di don Giussani e vi trovo più di un motivo di comunanza di idee, in particolare nell’accento posto sulla centralità della persona e dell’incontro tra persone nell’esperienza di vita. Nell’ultimo libro pubblicato (“Si può vivere così?”) mi colpisce l’insistenza sul ruolo di mediazione dell’altro nel rapporto con la realtà: «Io non vedo la cosa: vedo soltanto l’amico che mi dice quella cosa, e quell’amico è una persona affidabile, perciò quello che lui ha visto è come se l’avessi visto io». Trovo particolarmente significative le implicazioni sul processo della conoscenza: «Togliete questa conoscenza per mediazione, dovete togliere tutta la cultura umana, tutta, perché tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti». E ancora: «Se non ci fosse questo metodo non si saprebbe più come muoversi; sì, ci si saprebbe muovere in un metro quadrato. La cultura, la storia e la convivenza umana, si fondano su questo tipo di conoscenza indiretta, conoscenza di una realtà attraverso la mediazione di un testimone».
Nella scuola il testimone è l’insegnante e tutto il processo dell’insegnamento è fondato su questo rapporto tra persone, un rapporto che deve essere di fiducia e di comprensione. È un modo di vedere in consonanza con quanto dice Hannah Arendt: l’insegnante è un rappresentante del mondo in cui il giovane è venuto ad essere e che gli presenta i fondamenti della tradizione, le basi su cui andare avanti. Salendo sulle spalle dell’insegnante, di questo testimone che conquista la sua fiducia, il giovane può andare oltre, incominciando da quello che egli gli trasmette.
È esattamente l’opposto delle sgangherate teorie pedagogiche basate sul principio dell’autoapprendimento, e che dicono di no alla trasmissione delle conoscenze tramite l’insegnamento perché sarebbe impositivo e autoritario: bisogna ricominciare tutto daccapo riscoprendo tutto da sé, con il solo ausilio di un insegnante ridotto a “facilitatore”. Don Giussani avrebbe detto che, se si sceglie questo punto di vista, bisogna togliere tutta la cultura umana, non resta niente, tutt’al più un misero metro quadrato. La cultura e la conoscenza – egli ricorda – non sono mai dirette, bensì mediate da un testimone, sono frutto di un incontro.
La contraddizione è tanto più clamorosa perché quelle teorie – miscela di una forma di pragmatismo che risale a Dewey e dei cascami dell’antiautoritarismo sessantottino e contestatario – negano radicalmente il ruolo della persona. Ciò è clamorosamente evidente in due aspetti tanto cari ai fautori di quelle teorie: il primo è la sostituzione della valutazione basata sul rapporto interpersonale tra maestro e allievo (il voto) – che sarebbe troppo soggettivo – a favore di una valutazione impersonale svolta da enti esterni, che si pretende sia oggettiva, in quanto sarebbe fondata su (inesistenti) basi scientifiche; il secondo è la dissoluzione del ruolo della famiglia. Quest’ultima verrebbe investita della funzione di determinare i percorsi scolastici – per cui è totalmente impreparata – e, per converso, verrebbe espropriata del ruolo che gli compete primariamente, ovvero di formare la personalità etica e morale dei figli. È il punto di vista della “educación para la ciudadania” promosso in Spagna dal governo Zapatero e che ha trovato anche qui dei seguaci in coloro che hanno promosso gli sciagurati corsi di educazione alla Convivenza civile (con la C maiuscola!) e persino di “affettività”. La rilettura delle pagine di don Giussani dedicate all’educazione è un sano antidoto contro queste assurdità.
(Tempi, 3 aprile 2008)
7 commenti:
Proprio su Tempi del 20 marzo è uscita un' interessantissima intervista ad Alain Finkielkraut che parla della distruzione della tradizione europea nell'istruzione, oggi tutta tesa a sviluppare le cosiddette "abilità" (skills), a discapito di un'"educazione disinteressata". Così abbiamo mostruosità come quel rapporto Attali in Francia (ma noi in Italia non siamo certo da meno) dove i bambini dovranno fin dalla scuola primaria avere nozioni di economia , informatica, inglese e lavoro di gruppo.
Giustamente lei pone l'accento sul pragmatismo di Dewey inglobato nell'antiautoritarismo sessantottino marxista. Ma in fondo sia Marx che i filosofi dell'utilitarismo inglese (Adam Smith, Ricardo, Stuart Mill, Bentham)nonché del pragmatismo americano (Dewey, Whitehead, ecc. ) non sono forse comuni fautori dell'homo aeconomicus?
Credo che oggi la vera rivoluzione sia quella di conservare e preservare, quanto di buono le generazioni precedenti ci hanno tramandato in materia di antichi saperi ed antiche esperienze e valori. Per difenderci dalla temibile sfida dell'"uniformizzazione" veicolata dall'economia globalizzata. In questo la penso anch'io come Finkielkraut.
Forse un ulteriore sintomo di questa tendenza alla "spersonalizzazione" dell'insegnamento si può rilevare nei libri di testo.
Scorrevo proprio oggi le pagine del testo di storia di mio figlio (primo anno delle superiori) dove si tratta del Cristianesimo.
Non si può dire che sia incompleto o impreciso nell'elencare fatti, luoghi e personaggi. Ma quando prova a darne una interpretazione lascia parecchio perplessi.
Secondo il testo le persecuzioni avevano "una precisa motivazione giuridica" perchè i cristiani "si rifiutavano di compiere sacrifici di fronte alle statue dell'imperatore perchè non ne riconoscevano la natura divina".
La diffusione del Cristianesimo si è verificata "grazie alla promessa di Gesù: il Paradiso per coloro che fossero vissuti secondo il suo insegnamento" e perchè il Cristianesimo era la religione che "meglio soddisfaceva la grande esigenza dell'uomo: vincere il terrore della morte con la fede nella vita eterna".
Da una parte un burocratico riferimento giuridico, dall'altra una riduzione della fede cristiana ad un efficace rimedio contro l'angoscia.
Non credo che l'autrice non sia consapevole dell'impatto rivoluzionario del messaggio cristano, di cosa poteva allora significare riconoscere valore assoluto alla dignità della persona e quindi all'uguaglianza, all'amore verso il prossimo.
Sospetto invece che non si sia voluta prendere la responsabilità di trasmettere (che parola orribile!) questa sua conoscenza, ha avuto paura di dire troppo, di rischiare di lasciare una traccia troppo profonda nella testa dei suoi giovani lettori.
Come dice lei sono teste che rischiano di restare "vuote". Come affronteranno il futuro i poveri nostri ragazzi? Una bottiglia di vino, per quanto "ben fatta", se è vuota non serve a niente.
Egregio professor Israel,
Le sarei molto grato se potesse fornirmi l'indicazione bibliografica della citazione di Hannah Arendt sul ruolo dell'insegnante come testimone davanti all'allievo dei fondamenti della tradizione?
Cordialmente,
ff.
H. Arendt, “La crisi dell’istruzione”, in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001.
È citata nel mio libro.
Gentile Professore,
lungi da me voler aprire o provocare una polemica politica ma, se non sbaglio, i corsi di convivenza civile e soprattutto di affettività non sono stati promossi dai ministri dei governi Berlusconi, dalla Moratti in particolare, gli stessi ministri che hanno bollato la pedagogia, verso cui lei non risparmia critiche, come "scienza" bolscevica? Mi corregga se sbaglio.
Ha perfettamente ragione e, infatti, se avesse la bontà di leggere il mio libro "Chi sono i nemici della scienza?" nonché vari articoli, vedrebbe che non ho peli sulla lingua circa la riforma Moratti (nonché la follia originaria del ministro del primo governo Berlusconi di abolire gli esami di riparazione autunnali). Non ho paraocchi politico o appartenenze di scuderia che mi impediscano di ragionare con la mia testa, tantomeno di dire quello che penso. L'unica cosa su cui sbaglia è che quei ministri abbiano bollato la pedagogia come scienza bolscevica. Non so chi l'abbia fatto, non certamente io, perché sarebbe un'affermazione idiota: la pedagogia in quanto tale non ha nulla di riprovevole. È una certa pedagogia che non sto qui a descrivere che è responsabile dei disastri. Il principale consigliere della Moratti era una pedagogista. La riforma Moratti è intrisa di pedagogismo olistico, come le indicazioni di Fioroni sono intrise di pedagogismo alla Morin. Non ho mai sentito che la Moratti abbia stigmatizzato una pedagogia come "scienza bolscevica"... Al contrario. Casomai Fioroni era più scettico, ma ha finito anche lui per consegnarsi mani e piedi legati ai pedagogisti, come si vede dalle sue indicazioni. Piuttosto, se volesse esaminare chi sono stati i consiglieri influenti di tutti i ministeri da Berlinguer a due anni fa, constaterebbe che si trattava sempre delle stesse persone, con poche variazioni, pedagogisti costruttivisti di vario stampo, ma tutti invariabilmente orientati a sinistra. Il costruttivismo e l'ossessione di cambiare le teste della gente, invece che di fornire loro le conoscenze per usarle in piena libertà, è un'ideologia trasversale, anche se la sua matrice ideologica è evidente.
Per me la risposta è una sola: ricominciamo a ragionare liberamente, fuori da paradigmi ideologici. Le nuove indicazioni nazionali per i licei vanno in questa direzione e per questo suscitano in certi ambienti - il solito ceto di ottimati che ha gestito l'istruzione fino ad ora sulla base di un programma ideologico - un'ostilità quasi rabbiosa.
Vuole una conferma? Vada a vedere il sito:
http://www.adiscuola.it/adiw_brevi/?p=3334
Si parla di fine di una pedagogia progressista che celebra i suoi trionfi dal 1977!... E, vergognosamente, si parla degli insegnanti come bastione della conservazione.
Eh si, mi perdoni. Il suo libro l'ho letto quando è uscito. La memoria non mi assiste, non ricordo tutto quello che vi era scritto. L'ho trovato piuttosto interessante, anche perché sto cercando di formarmi (alla ricerca) proprio su temi pedagogici, da filosofo della scienza. Infatti ricordo con ancor più piacere le sue pagine su Volterra e i modelli matematici. A parte questo, non stavo insinuando una sua cecità ideologica, ma solamente cercando di capire meglio quanto siano diffuse e trasversali le cattive scelte in campo pedagogico.
Tanto per essere espliciti: il riferimento al carattere bolscevico della pedagogia è stato fatto da Frabboni in sede pubblica, riferito forse alla Gelmini, e credo sia verosimile. Del resto lo dice anche lei che "sono tutti di sinistra" e come sappiamo gran parte dei berlusconiani non usa delle categorie politiche troppo "affilate".
Penso che Frabboni sia uno dei bersagli delle sue critiche: se non sbaglio lui è inoltre tra i padri delle vecchie SISS e lei al lavoro per le nuove?
Ho riserve su entrambi i fronti: stupido screditare la pedagogia su basi politiche, vero che molta è di sinistra (ma questo vale anche per le dottrine politiche, la filosofia e altro ancora credo), problematica la controbattuta di Frabboni per cui la pedagogia è invece una scienza.
Per quel che so invece, la Moratti faceva riferimento a Bertagna, di Milano, che credo sia di un'altra scuola; non ne conosco gli studi ma immagino potrebbe (in linea di principio) essere incluso anche lui in certa pedagogia "parolaia". Penso infatti che - a parte il peso politico e accademico talvolta nefasto - il problema della pedagogia sia il suo essere imbevuta di pratiche retoriche e di certe convinzioni epistemologiche che andrebbero seriamente analizzate e "criticate" dal punto di vista teorico.
Continuerò a seguire con attenzione i suoi lavori e il suo blog perché, da una parte, condivido alcune sue convinzioni e perplessità sulla pedagogia, dall'altra, su certe cose sono più cauto. Ad es. il costruttivismo non mi sembra solo un'aberrazione ideologica. Frequento un gruppo di ricerca in didattica della fisica e, mi creda, fanno un lavoro piuttosto serio e scientificamente ragionato.
Ultima cosa: il suo contrapporre i contenuti alla pedagogia vuota e formale mi ricorda un dibattito degli anni '80, che sto ricostruendo, negli USA tra E.D.Hirsch (e la sua cultural literacy) e la pedagogia progressista americana, che lei individua all'origine del declino dell'insegnamento. Le dice niente?
Il fatto è che finora la dimensione dei contenuti è stata la più mortificante e statica nella scuola. Usciti da una buona scuola i contenuti se ne vanno comunque. Il latino e gli integrali si scordano se uno non li usa e studia anche dopo. Perciò, e qui la pedagogia ha ragione per me, quello che rimane è un'attitudine all'apprendimento, delle capacità, cose che non acquisite a scuola è duro imparare poi, a differenza dei contenuti.
Mi perdoni "il romanzo"...
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