Al riguardo segnalo questo commento di Fabrizio Foschi che condivido completamente:
«Le rilevazioni internazionali da tempo insistono sull’importanza della dimensione relazionale dell’apprendimento: peccano quando la riducono ad un problema di tecnica. Non esiste una qualche didattica operativa, per quanto aggiornata, che garantisca il meccanico trasferimento di conoscenze grammaticali, matematiche o scientifiche da una persona (l’insegnante) ad un’altra (l’alunno). La trasformazione delle conoscenze apprese in competenze (la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso) richiede un rapporto libero tra persone, dove l’adulto comunica anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, una ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo dei maestri. Traendo le somme di queste osservazioni, viene da dire che l’esperienza di chi la scuola la fa sul campo (nella classe e non nei progetti; attraverso le materie insegnate e non mediante astruse attività di socializzazione) mostra di essere un punto di riferimento indispensabile per coloro che dal punto di vista del governo del sistema scolastico si pongono l’obiettivo di colmare la distanza tra le condizioni dell’istruzione in Italia e quelle degli altri Paesi europei. »
Mi limito a rinviare: 1) al post precedente concernente il libro di don Giussani; 2) al post precedente riguardante la "misurazione delle competenze". Si vuol misurare "la forma che assume nella coscienza personale ciò che si è appreso"? Ma siamo seri...
5 commenti:
Preg.mo prof.,
non sono pratico di blog, e pertanto, non sapendo esattamente dove indirizzare la presente, Le scrivo qui, confidando lo stesso in una Sua cortese risposta.
Per ragioni che qui è irrilevante esporre, sarei interessato a conoscere la Sua opinione a proposito della portata della cosiddetta “ dimostrazione formale dell’esistenza di Dio” di Kurt Godel.
A me pare che Godel abbia fornito una dimostrazione formale di un ragionamento che, attraverso gli strumenti classici della filosofia, già altri avevano formulato. Salvo dati ed informazioni – o nuove prospettive - di cui non dispongo, non mi pare che abbia fatto nulla di più. Se è così, mi pare che per questa dimostrazione restino in piedi, cogenti con tutta la loro forza, le critiche, altrettanto classiche ( mi consenta di non appesantire la presente con la citazione di un elenco), che sono state nel corso della storia formulate ai principali argomenti proposti come dimostrazione dell’esistenza di Dio. Vorrei solo aggiungere per completezza, magari per altri eventuali lettori della presente, che, pur confutando la consistenza o la coerenza ( o entrambe) dei vari argomenti via via proposti nel corso della storia, tuttavia, nessuna di tali confutazioni ha mai fornito la prova contraria. Credo che Lei, Professore, concorderà senz’altro con me, che gli argomenti tesi a dimostrare, al contrario, l’impossibilità della esistenza di un Ente metafisico aventi le caratteristiche attribuite alla Divinità, sono ancora più inconsistenti ed incoerenti dei primi.
Mi consenta di chiudere la presente, dichiarando una profonda convinzione che è andata maturando in lunghissimi anni di ricerca personale, come minimo, tormentata: non potrà mai esistere una dimostrazione dell’esistenza o non esistenza della Divinità fondata sulla logica; sia che essa si applichi al mondo dei segni, sia che si applichi a quello delle parole. Il che vuol dire che, salvo la nostra specie non acquisisca in futuro capacità cognitive adesso impensabili, una tal dimostrazione resterà sempre oltre la nostra portata. Se la Divinità, sempre che esista, non può essere altro, nella sua essenza, che non-duale ( come giustamente - almeno per chi sa di che si parla - recitano i Veda, e con essi tutte le Metafisiche Tradizionali, qui le citazioni potrebbero essere innumerevoli ); e se il linguaggio – qualsiasi linguaggio – non può essere altro che formale, se questo è vero, come certissimamente è vero, allora come si può soltanto concepire che - a partire da questi mezzi – si possa dimostrare l’esistenza di un Ente che, appunto nella sua essenza - è NON-DUALE e NON-FORMALE??
Possibile che nessuno, prima di me, abbia mai pensato ad una cosa tanto ovvia??
Salvo che non ci sia qualcosa di importate che mi sfugga, mi pare che quanto da me affermato sia inconfutabile.
La ringrazio della Sua ospitalità, della Sua attenzione, e di una Sua eventuale risposta.
Francesco Sala
Che sia impossibile dare una dimostrazione logica dell'esistenza di Dio l'ha dimostrato Kant molto tempo fa. Poi c'è chi, come Odifreddi, ci scrive anche un libro sopra, scoprendo l'acqua calda.
Preg.mo prof.,
forse troverà eccessiva l’affermazione che tanto Kant, quanto Meno Odifreddi, hanno scarsi titoli per argomentare sull’esistenza di Dio. Per Odifreddi, i limiti invalicabili sono la sua maleducazione - sia sociale che culturale – che l’ottusità nella quale la sua intelligenza ripiega tutte le volte che vi sia da considerare realtà che eccedono la logica e la matematica. Aggiungo, tuttavia, che le critiche che questo pensatore muove nei confronti della prospettiva spirituale, la schiacciante maggioranza dei zelatori religiosi gliela serve su un piatto di platino. Per quanto il punto di vista di Odifreddi sia del tutto incompatibile con il mio, non posso non riconoscere che non poche delle cose che afferma siano inconfutabili.
Quanto a Kant, mi limito a dire quanto segue: quando chiesi al mio professore di filosofia quale fosse, nella più estrema delle sintesi, il cuore delle filosofia kantiana, quel grande maestro mi rispose: “ Si potrebbe dire che Kant non avrebbe potuto costruire la sua filosofia, se prima non avesse rivoluzionato copernicanamente il rapporto tra mondo ed intelletto. Prima di Kant, l’intelletto era secondario all’ordine del mondo, con Kant e dopo Kant, (ora) è l’ordine del mondo che è secondario all’intelletto”. In effetti, la vera “novità” kantiana è questa; tutto il resto da essa procede secondo le particolari linee di tendenza dell’individuo Kant.
Ebbene, cos’è che non va in questa pietra di paragone? Cos’è che fa dell’assunto di base - quello dal quale dipende tutta la coerenza della costruzione successiva – una pura e trasparente bolla di sapone ? Semplicemente quanto segue: l’abbagliante evidenza che il dualismo “ intelletto-ordine-del-mondo” esiste solo alla stregua di allucinazione cognitiva nella mente di chi non ne vede ( nel senso proprio di VEDERE ) l’intelletto che rappresenta il mondo, e quindi il mondo rappresentato dall’intelletto; oppure - al contrario - il mondo che rappresenta l’intelletto, e quindi l’intelletto rappresentato nel mondo, ( che non vede questo) alla stregua di un processo unificato, in cui non esiste e non può esistere un rapporto di subordinazione da parte di uno dei poli sull’altro. Per dirla in un altro modo, l’occhio, la rete del descrivente, fa parte dello STESSO mondo, è della STESSA sostanza del mondo che sta descrivendo. L’uno produce l’altro.
Non voglio rubare spazio al Suo blog, né perdermi in una dissertazione non richiesta; da quanto ho esposto, deriva che - essendo la costruzione sistematica di Kant tanto tetragona quanto tetra ed intransigente, tale, quindi, per la sua stessa architettura, da crollare alla minima incoerenza anche parziale - quale autorità può rimanerle una volta che, addirittura, la pietra di fondamento si rivela , per portare rispetto al vecchio Professor di Konigsberg, una semplice fabula scritta in filosofese ortodosso?
Il senso e la portata della domanda da me fattale nella posta precedente, non procedeva dal filosofese di Kant, né tanto meno dalla gelida ottusità di Odifreddi.
Grazie della Sua ospitalità
Sala
Mi permetto di segnalare un mio commento all'intervista di Berlinguer, o meglio a due fra le numerose affermazioni dell'ex-ministro:
http://gruppodifirenze.blogspot.com/
Giorgio Ragazzini
Anch'io condivido quanto afferma Fabrizio Foschi. Mi ricordo di una frase di Jean Jaurès: "Si può insegnare solo ciò che si è, non ciò che si sa o si crede di sapere". Il sapere che si può insegnare è solo quello autentico, quello che investe l'interezza di chi insegna. Non il sapere raccogliticcio e liofilizzato di chi s'illude che basti un buon laboratorio o una metodologia sufficientemente alla moda.
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