Ricominciamo con la superiorità antropologica. Era da augurarsi, per il bene della sinistra, che la maledizione di Umberto Eco fosse stata accantonata per sempre: di là ci sono i disonesti, gli analfabeti, i mascalzoni; di qua le persone perbene, intelligenti e colte; e poi arriva la tranvata elettorale. E invece la maledizione non è stata accantonata, bensì riesumata nella versione di Massimo D’Alema: è vero che siamo in minoranza, ma siamo in maggioranza nella «parte più acculturata del paese», siamo «il primo partito nelle aree urbane tra gli italiani che leggono libri, che leggono i giornali». Siamo «una minoranza che rappresenta la classe dirigente del paese in tutti i campi» e quindi «è molto difficile che chi governa possa cambiare le cose senza il consenso attivo dell’elettorato di centrosinistra».
Se un concetto del genere fosse stato espresso a destra, si sarebbe parlato di razzismo, c’è da scommetterci. A noi del politicamente corretto non importa nulla e consideriamo tutto ciò soltanto pensieri squallidi, roba da chiacchiere al mercato – «lo sapete come sono loro, signora mia, mica come la gente che frequentiamo noi» – residuati di teorizzazioni paleomarxiste circa la superiorità della città sulla campagna, propinati con la prosopopea delle statistiche “scientifiche”. Ma lasciamo pure da parte queste supponenze autolesioniste – chi vota il centrodestra è un troglodita e chi vota centrosinistra è un “acculturato” – e assumiamone la versione più blanda, e cioè che la classe dirigente del centro sinistra è più acculturata e preparata. Ebbene, è vero che la classe dirigente di sinistra conserva un’egemonia evidente nel campo della cultura e possiede una tradizione più forte di cultura politica, ed è vero che il centrodestra vive un complesso di inferiorità che lo porta a inchinarsi come se dovesse sempre apprendere qualcosa e a cercare di convincere la sinistra a farsi carico dei suoi valori come se non fosse capace di farli avanzare da solo.
Sarà pur vero. Ma chi ha senso critico e non vive di narcisismo dovrebbe chiedersi, con preoccupazione, se le batoste elettorali non manifestino il fatto che la propria egemonia culturale ormai non sa interpretare le esigenze della società ed è sempre più una concrezione che comprime le spinte di rinnovamento. Il centrodestra è confuso e goffo nel costruire la propria cultura politica e soffre di un vecchio complesso di inferiorità culturale. Ma su quale terreno la sinistra mostra la capacità di rinnovarsi e di offrire risposte non conformiste? Non basta leggere. Bisogna capire quel che si legge e saperlo mettere in rapporto con la realtà in cui si vive. In economia la sinistra è sempre impelagata in visioni stataliste che non corrispondono più a un interesse pubblico o nazionale ma solo alla difesa di interessi di categoria. La sanità e l’istruzione sono esempi caratteristici di una sinistra statalista che ha fatto a pezzi il sistema sanitario e la scuola pubblica riducendoli a un cumulo di macerie. Il vuoto lasciato dal marxismo è stato occupato da un’adesione mitologica a uno scientismo laicista che non è capace di proporre alcun valore etico. E la tanto vantata egemonia culturale che cosa produce di valido al di là della riproposizione del proprio potere materiale nella miriade di manifestazioni culturali in cui sembra che abbia diritto a parlare una sola parte? Perché il potere materiale esiste ancora, questo è certo. Ma se ciò produce una situazione soffocante nel presente, in prospettiva non vuol dir molto. La storia è piena di casi di egemonie che impiegano tempi lunghissimi a consumare la propria decadenza.
(Tempi, 31 luglio 2008)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
giovedì 31 luglio 2008
domenica 27 luglio 2008
Bioetica e politica
Secondo Pierluigi Battista il silenzio della politica è calato sulle questioni etiche e il caso di Eluana Englaro, nonostante la drammaticità delle sue implicazioni, non è bastato a romperlo. Secondo Ignazio Marino questo silenzio «ha una spiegazione semplice: al centro-destra i temi etici non interessano». In certo senso, siamo d’accordo con Marino, in un senso che va bene chiarito. Il centro-destra ospita posizioni molto diverse, talora diametralmente opposte, e inclina a non accentuare le divergenze, preferendo enfatizzare i temi su cui è più unito: economia, sicurezza, politica estera e, entro certi limiti, anche l’istruzione. In ciò asseconda la tendenza del suo elettorato a collocare questi temi ai primi posti nella graduatoria delle emergenze. Questo spiega l’insuccesso della lista pro-life di Giuliano Ferrara alle recenti elezioni, mentre è profondamente sbagliato dedurre da quell’insuccesso conclusioni circa una scarsa sensibilità per le questioni bioetiche nel nostro paese. Di certo, per la maggioranza degli italiani – e per coloro che ne hanno interpretato le tendenze – la questione della sicurezza viene prima, ma questo non significa che vi sia sordità sulle questioni etiche. Al contrario, l’Italia è certamente il paese europeo più sensibile in merito e che ha espresso ripetutamente – in particolare nel referendum sulla legge 40, ma non soltanto – una visione diametralmente opposta a quella della Spagna di Zapatero. Qui le posizioni di tendenza zapaterista si annidano tutte nello schieramento di centro-sinistra e in tal senso Marino ha ragione: non si sente niente a sinistra perché vi regna un totale unanimismo, a parte qualche borbottio indistinto che non raggiunge neppure il livello di un timido dissenso. Il centro sinistra si è appiattito su una linea che attribuisce alle “conquiste” della tecnoscienza un significato intrinsecamente progressivo e liberatorio. In fondo, si tratta dell’ennesima manifestazione della crisi di uno schieramento il cui nucleo duro – attorno a cui si dispongono appendici sempre più marginali – ha una derivazione fortemente ideologica che lo predispone a cercarsi ideologie sostitutive: tale è la funzione assunta dal mito del carattere buono e progressivo della tecnoscienza.
Eugenia Roccella è forse ottimista quando sostiene che il centro-destra sta elaborando una nuova cultura politica che superi certi aspetti del liberismo etico. È però indubbio che l’affermazione di Marino è vera soltanto in relazione alla reticenza della politica ufficiale: chi ha un atteggiamento critico nei confronti degli eccessi della tecnoscienza ha trovato e trova soltanto nel centro-destra un luogo dove elaborare un confronto su questi temi.
L’imperio della tecnoscienza nelle manipolazioni biologiche è dovuto a corposi interessi che è difficilissimo scalfire. È più facile accodarsi in silenzio a questi sviluppi che non criticarli. Abbiamo attraversato una pausa, ma non dimentichiamo che in pochi paesi come in Italia si è sviluppato un importante movimento culturale di critica a quello che chiamerei, riprendendo un’espressione di Pasternak (riservata ai totalitarismi), la «notte materialistica». Questo movimento ha avuto un centro di importanza primaria nel Foglio di Giuliano Ferrara e nell’attività di tante personalità del mondo cattolico e non cattolico che hanno trovato un terreno di dialogo sia sui temi sollevati ripetutamente da Benedetto XVI che nel ripensamento di testi di pensatori razionalisti e di scienziati estranei al riduzionismo. È di qui che bisogna ripartire con energia per rompere il silenzio della politica sulle questioni bioetiche.
/Tempi, 24 luglio 2008)
Eugenia Roccella è forse ottimista quando sostiene che il centro-destra sta elaborando una nuova cultura politica che superi certi aspetti del liberismo etico. È però indubbio che l’affermazione di Marino è vera soltanto in relazione alla reticenza della politica ufficiale: chi ha un atteggiamento critico nei confronti degli eccessi della tecnoscienza ha trovato e trova soltanto nel centro-destra un luogo dove elaborare un confronto su questi temi.
L’imperio della tecnoscienza nelle manipolazioni biologiche è dovuto a corposi interessi che è difficilissimo scalfire. È più facile accodarsi in silenzio a questi sviluppi che non criticarli. Abbiamo attraversato una pausa, ma non dimentichiamo che in pochi paesi come in Italia si è sviluppato un importante movimento culturale di critica a quello che chiamerei, riprendendo un’espressione di Pasternak (riservata ai totalitarismi), la «notte materialistica». Questo movimento ha avuto un centro di importanza primaria nel Foglio di Giuliano Ferrara e nell’attività di tante personalità del mondo cattolico e non cattolico che hanno trovato un terreno di dialogo sia sui temi sollevati ripetutamente da Benedetto XVI che nel ripensamento di testi di pensatori razionalisti e di scienziati estranei al riduzionismo. È di qui che bisogna ripartire con energia per rompere il silenzio della politica sulle questioni bioetiche.
/Tempi, 24 luglio 2008)
lunedì 21 luglio 2008
Israele e i drammatici fatti libanesi
Dice Amos Oz che riportare a casa i morti è un obbligo morale che fa parte dell’etica ebraica. Così detta è una colossale sciocchezza. La religione e l’etica ebraica pongono la vita al di sopra di tutto e non ammettono che la morte trascini nel suo gorgo la vita. L’ebraismo non ha il culto della conservazione dei cadaveri, e difatti prescrive il seppellimento in terra, perché la polvere torni alla polvere e nella terra trovi il riposo. È quindi essenziale riportare i corpi al riposo della terra e al rispetto ma il problema è il prezzo e questo prezzo non può essere quello della vita. I poveri resti dei due soldati Eldad Regev e Ehud Goldwasser non sono stati scambiati soltanto con un criminale efferato che ha ucciso una bimba di 4 anni fracassandole la testa ma con la vita dei cittadini israeliani, che ora vale molto meno di prima. Difatti ora i terroristi sanno che il governo israeliano è disposto a dare quello che essi vogliono – colleghi terroristi vivi – in cambio di un’altra cosa che vogliono – brandelli di israeliani uccisi. Tanto per cominciare essi sanno che Gilad Shalit vale morto quanto vale (o valeva) vivo e quindi la sua ipotetica vita non vale più niente.
Si lasci quindi in pace la religione e l’etica ebraica. Come ha bene spiegato Benny Morris i padri fondatori di Israele – che non erano meno ebrei degli attuali governanti – non si sarebbero mai sognati di praticare uno scambio simile. Pertanto, le motivazioni religiose e morali sono prive di fondamento e casomai potrebbero essere il paravento di motivazioni diplomatiche, tattico-strategiche o propagandistiche. Ma quali? Lo scambio accettato da Israele ha condotto soltanto a un tragico indebolimento della sua immagine che assomiglia a quella di una tigre di carta, sia pure in un’ottica alimentata dalla paranoia che tuttavia può avere effetti disastrosi. Difatti, a cosa può condurre la convinzione (sia pure l’illusione) di una profonda debolezza di Israele se non ad alimentare nuove tragedie e nuovi devastanti conflitti? Il minacciare interventi di Israele contro un Iran lontano non migliora le cose se è congiunto all’immagine di un governo incapace di affrontare il nodo di un assedio vicino, da parte di milizie che ormai tengono sotto il tiro di migliaia di missili l’intero suolo israeliano (in barba alla missione Unifil, derisorio “successo” del nostro precedente governo). Una condizione del genere evoca l’immagine di un paese-portaerei, anzi di una portaerei sotterranea, capace di possenti interventi dal sottosuolo su in aria e incapace di preservare la vita e la sicurezza dei suoi abitanti. È un’immagine pericolosa perché alimenta, al di là della realtà, sentimenti non di pace ma di guerra, attraverso la convinzione crescente che Israele sia una pianta fradicia che basta scuotere con forza per far cadere a terra. Tra le tante manifestazioni in questo senso la più significativa è data dal comportamento del “moderato” presidente di Fatah, Abu Mazen, che ha avuto l’impudenza di congratularsi con l’assassino truculento e la sua famiglia. Questo è l’uomo su cui più conta Israele per fare la pace…
Cosa resta allora? L’argomento propagandistico? Di fronte allo spettacolo indecente delle manifestazioni di giubilo in Libano, di fronte al presidente Suleiman, al premier Siniora, al presidente del Parlamento Nabih Berri, ad autorità e vescovi tutti ad assistere al discorso dello sceicco Nasrallah, leader di Hezbollah, e poi cerimonie, bandiere, archi di trionfo, il portavoce militare israeliano ha dichiarato «povero quel popolo che si vanta di eroi del genere», alludendo al pluriassassino e riecheggiando analoghe parole di Olmert. E il Presidente Peres ha chiesto: «Dov’è la vittoria morale suprema? Qui, fra le candele del ricordo e non laggiù. Vergogna al Libano».
Parole sacrosante. Ma chi le condividerà? Diciamo le cose come stanno. Sulla stampa internazionale leggiamo molte notizie, presentate in modo anodino, ma finora abbiamo letto ben pochi editoriali di denuncia di questa aberrazione morale, di questa discesa negli abissi del disumano e che riconoscano dove sta il rispetto della vita. Anzi, siamo pronti a sentire – appena le acque si calmeranno e forse anche prima – nuove accuse contro Israele, stato “razzista” e “nazista”, nuovi appelli di intellettuali contro l’“occupazione”, nuove raffiche di condanne da parte di quell’inqualificabile congrega che è la commissione per i diritti umani dell’Onu. Peres può dire quel che vuole, ma fa male a illudersi che la sagra dell’immoralità non sia anche in occidente.
Qui sta la grande e fondamentale differenza tra i gli attuali esangui dirigenti di Israele e i padri fondatori dello stato. Questi ultimi si basavano sul solido principio che la morale e la vita non si barattano per ottenere la condiscendenza degli assassini, di coloro che tengono loro bordone o di chi si volta dall’altra parte. Non è giusto e non serve a niente, se non ad alimentare la pianta del male.
Si lasci quindi in pace la religione e l’etica ebraica. Come ha bene spiegato Benny Morris i padri fondatori di Israele – che non erano meno ebrei degli attuali governanti – non si sarebbero mai sognati di praticare uno scambio simile. Pertanto, le motivazioni religiose e morali sono prive di fondamento e casomai potrebbero essere il paravento di motivazioni diplomatiche, tattico-strategiche o propagandistiche. Ma quali? Lo scambio accettato da Israele ha condotto soltanto a un tragico indebolimento della sua immagine che assomiglia a quella di una tigre di carta, sia pure in un’ottica alimentata dalla paranoia che tuttavia può avere effetti disastrosi. Difatti, a cosa può condurre la convinzione (sia pure l’illusione) di una profonda debolezza di Israele se non ad alimentare nuove tragedie e nuovi devastanti conflitti? Il minacciare interventi di Israele contro un Iran lontano non migliora le cose se è congiunto all’immagine di un governo incapace di affrontare il nodo di un assedio vicino, da parte di milizie che ormai tengono sotto il tiro di migliaia di missili l’intero suolo israeliano (in barba alla missione Unifil, derisorio “successo” del nostro precedente governo). Una condizione del genere evoca l’immagine di un paese-portaerei, anzi di una portaerei sotterranea, capace di possenti interventi dal sottosuolo su in aria e incapace di preservare la vita e la sicurezza dei suoi abitanti. È un’immagine pericolosa perché alimenta, al di là della realtà, sentimenti non di pace ma di guerra, attraverso la convinzione crescente che Israele sia una pianta fradicia che basta scuotere con forza per far cadere a terra. Tra le tante manifestazioni in questo senso la più significativa è data dal comportamento del “moderato” presidente di Fatah, Abu Mazen, che ha avuto l’impudenza di congratularsi con l’assassino truculento e la sua famiglia. Questo è l’uomo su cui più conta Israele per fare la pace…
Cosa resta allora? L’argomento propagandistico? Di fronte allo spettacolo indecente delle manifestazioni di giubilo in Libano, di fronte al presidente Suleiman, al premier Siniora, al presidente del Parlamento Nabih Berri, ad autorità e vescovi tutti ad assistere al discorso dello sceicco Nasrallah, leader di Hezbollah, e poi cerimonie, bandiere, archi di trionfo, il portavoce militare israeliano ha dichiarato «povero quel popolo che si vanta di eroi del genere», alludendo al pluriassassino e riecheggiando analoghe parole di Olmert. E il Presidente Peres ha chiesto: «Dov’è la vittoria morale suprema? Qui, fra le candele del ricordo e non laggiù. Vergogna al Libano».
Parole sacrosante. Ma chi le condividerà? Diciamo le cose come stanno. Sulla stampa internazionale leggiamo molte notizie, presentate in modo anodino, ma finora abbiamo letto ben pochi editoriali di denuncia di questa aberrazione morale, di questa discesa negli abissi del disumano e che riconoscano dove sta il rispetto della vita. Anzi, siamo pronti a sentire – appena le acque si calmeranno e forse anche prima – nuove accuse contro Israele, stato “razzista” e “nazista”, nuovi appelli di intellettuali contro l’“occupazione”, nuove raffiche di condanne da parte di quell’inqualificabile congrega che è la commissione per i diritti umani dell’Onu. Peres può dire quel che vuole, ma fa male a illudersi che la sagra dell’immoralità non sia anche in occidente.
Qui sta la grande e fondamentale differenza tra i gli attuali esangui dirigenti di Israele e i padri fondatori dello stato. Questi ultimi si basavano sul solido principio che la morale e la vita non si barattano per ottenere la condiscendenza degli assassini, di coloro che tengono loro bordone o di chi si volta dall’altra parte. Non è giusto e non serve a niente, se non ad alimentare la pianta del male.
sabato 19 luglio 2008
Le 16 juillet 2008, le stade de Beyrouth ressemblait à celui de Nuremberg en 1936
Par Olivier Rafowicz
Mercredi, l’Etat d’Israël a échangé contre ses deux soldats Edad Regev et Ehoud Goldwasser des terroristes libanais vivants. Il a également restitué 199 corps de membres du Hezbollah, tués lors d’affrontements avec l’armée israélienne depuis 1982.
De façon assez générale, les Israéliens ont accepté avec beaucoup d’amertume le fait de libérer des assassins extrêmement dangereux en échange de deux soldats morts. Mais l’échange était fondé sur le principe qu’il faut tout faire et si nécessaire payer le prix le plus lourd pour ramener vivant ou mort nos soldats à la maison.
Le choc a été et reste extrêmement violent surtout lorsqu’on voit avec quelle haine, avec quelle violence, s’est exprimé celui qui a assassiné une petite fille de quatre ans en 1979, à Naharya, dans le nord d’Israël.
Samir Kuntar, membre à l’époque d’un groupe terroriste communiste libanais, a fracassé le crâne de la petite fille de quatre ans contre un rocher. Puis la voyant gémir, il a continué encore de plus bel à lui cogner la tête, sa toute petite tête contre un rocher. Cet homme là, qui a aussi tué le père de la petite fille et deux policiers, est aussi responsable de la mort de la sœur de la petite fille, étouffée par la main de sa mère qui voulait la protéger en lui évitant de pousser des cris de frayeur.
Cet assassin condamné à perpétuité, a passé prés de trente ans dans les prisons israéliennes et en sortant à l’âge de 45 ans, s’est exprimé dès sa sortie dans un grand stade au sud de Beyrouth. Il a dit vouloir revenir en Palestine, voir les Israéliens se languir du terroriste Imad Moughanieh. Il a dit enfin qu’il veut continuer à tuer les juifs.
Samir Kuntar, avec ses alliés chiites du Hezbollah, est devenu l’un des symboles du climat anti-israélien, antisémite et anti-occidental qui règne au Moyen-Orient et bien au-delà.
A Beyrouth, il a reçu un accueil royal du Premier ministre Fouad Siniora et du Président libanais Michel Suleimane. J’ai eu la nausée devant le défoulement de tant de haine exprimé par un seul homme mais surtout devant le respect, la joie, les accolades, les embrassades, que les responsables politiques libanais ont accordé à Samir Kuntar.
Comment est-il possible, même au nom de la fraternité ou de l’union entre les différentes communautés, de voir en Samir Kuntar le symbole du Liban ? Comment est-il possible que des hommes perçus comme modérés et intelligents comme Fouad Seniora puissent accorder à l’assassin d’une petite fille tant de respect ? Comment est-il possible que le président Michel Suleimane, qui a été applaudi par toute la communauté internationale lors de sa nomination, a été capable d’offrir son armée et son hélicoptère pour escorter officiellement un assassin. Ceci, dans l’indifférence la plus totale de la communauté internationale?
Je reste perplexe et profondément inquiet de la route que veut emprunter le Liban.
Je suis profondément attristé que la mort, la haine, la violence, le crime et l’extrémisme soient les valeurs que choisi le Liban aujourd’hui pour regarder vers l’avenir.
Ces deux leaders libanais qui ont hier accordé tout leur amour à Samir Kuntar, demain rencontreront des hommes d’Etat du monde entier. J’espère mais je ne suis pas naïf malheureusement que l’un d’entre eux leur dira peut-être à l’oreille qu’il ne faut pas confondre fraternité nationale et alliance avec le diable.
Hier soir, Beyrouth ressemblait à Nuremberg en 1936. Samir Kuntar et Nasrallah ressemblaient à Goebbels et à Hitler lorsque des milliers et des milliers de sympathisants criaient mort à Israël, portaient des uniformes noirs et levaient le bras en signe de salut. Ceci ne peut qu’apporter la violence, la guerre et le chaos.
Fouad Siniora et Michel Sleimane ont choisi mercredi soir, non pas un Liban libanais mais un Liban iranien et fasciste.
Les yeux de la petite fille de quatre ans ont vu le regard de Samir Kuntar avant qu’ils l’achèvent. Les yeux de la petite fille ont vu, mercredi soir, les acclamations et la joie du peuple de Beyrouth.
Nous et j’espère vous, nous n’oublierons jamais non plus les yeux de la petite fille de quatre ans froidement assassinée par Samir Kuntar.
En libérant Samir Kuntar parce que nous n’avions pas le choix, nous avons libéré le mauvais génie de la bouteille. Espérons que quelqu’un dans ce monde, nous peut-être, le remettra dans la bouteille à tout jamais.
venerdì 18 luglio 2008
Non togliete i bambini rom dalle strade o i buoni non avranno più chi compatire
A costo di irritare qualcuno sarò sincero: ho sempre detestato e detesto l’elemosina, perché ritengo che sia l’esatto opposto della carità. È un atto di narcisismo. Osservate quel signore che passa davanti a un mendicante disteso per terra, intirizzito dal freddo della notte invernale passata tra i cartoni o intriso di sudore estivo: rallenta, mette la mano in tasca e lascia cadere con gesto rapido una monetina e poi si allontana veloce. Crede di aver salito un gradino verso il paradiso, lui che ha saputo sopportare la puzza e privarsi del soldo, e invece ne ha sceso uno verso l’inferno, perché ha coccolato soltanto il suo amor proprio di persona “buona” non facendo nulla di realmente buono. In definitiva, si è infischiato altamente delle condizioni che determinano la vita infelice di quel disgraziato. Per non dire di chi dà la monetina a un bambino di pochi anni, dimenticando o facendo finta di dimenticare che, in tal modo, ha soltanto stretto le catene attorno a un minorenne sfruttato da adulti criminali. Un vero atto di carità sarebbe stato perdere un po’ del proprio tempo per chiamare la polizia.
Per questo trovo nauseanti le polemiche contro il progetto del ministro Maroni di fare un censimento – e lo si chiami pure “schedatura” – non dei “rom” ma degli abitanti dei campi nomadi e in particolare dei bambini, per combattere le forme di sfruttamento cui sono sottoposti e scolarizzarli, in breve per farne cittadini a tutto tondo. Si è parlato di razzismo e si è scomodato persino il nazismo, come se in un censimento non fosse decisiva l’intenzione. Se l’intenzione è buona – protezione dei minori, regolarizzazione, scolarizzazione – si prendano impronte digitali, Dna e quanto serve. In tal caso, che ciò riguardi gli abitanti di certi luoghi non significa assolutamente nulla, se non che tali persone vivono una condizione drammatica, come è sotto gli occhi di chi non si tappi occhi e coscienza con la monetina.
Ma la manifestazione più indecente è il parallelismo con le stelle gialle e con la persecuzione degli ebrei, e l’abuso banalizzante di termini come “lager” che ha raggiunto livelli insopportabili se persino un prefetto si abbandona a questa moda; la quale è offensiva per chi ha avuto mezza famiglia sterminata e che si sarebbe salvata se fosse stata oggetto di un censimento Maroni anziché di quello della Gestapo. Non capisco quegli ebrei e quei cattolici che si accodano alla propaganda strumentale di circoli politici ridotti alla mendicità mentale. Sbaglia, e di grosso, chi da credito ai deliri dell’editorialista che blatera di «esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall’infanzia perché appartenente a altre etnie o razze»; e non si rende conto che il vero razzismo è quello di chi preferisce che questa “parte di popolazione” viva nel ghetto – sì, qui il termine è appropriato – di un’illegalità cui li condanna un’idea fasulla della tolleranza. Una tolleranza che è, appunto, soltanto il razzismo di chi se ne infischia delle condizioni altrui pur di non perdere il privilegio di compatire. Come quell’intellettuale che racconta di incontrare ogni mattina, con il gelo o il solleone, un barbone che dorme per terra accanto alle sue povere cose: si salutano cordialmente, il barbone parla in modo colto (pensate, non è una bestia come credereste) e il cane anziché morderlo gli fa le feste. E ci manca solo che qualche vigile urbano nazista lo metta in lista per un’occupazione e un alloggio. Il nostro intellettuale perderebbe un modo di alimentare il suo ego “buono” e “democratico”.
(Tempi, 17 luglio 2008)
Per questo trovo nauseanti le polemiche contro il progetto del ministro Maroni di fare un censimento – e lo si chiami pure “schedatura” – non dei “rom” ma degli abitanti dei campi nomadi e in particolare dei bambini, per combattere le forme di sfruttamento cui sono sottoposti e scolarizzarli, in breve per farne cittadini a tutto tondo. Si è parlato di razzismo e si è scomodato persino il nazismo, come se in un censimento non fosse decisiva l’intenzione. Se l’intenzione è buona – protezione dei minori, regolarizzazione, scolarizzazione – si prendano impronte digitali, Dna e quanto serve. In tal caso, che ciò riguardi gli abitanti di certi luoghi non significa assolutamente nulla, se non che tali persone vivono una condizione drammatica, come è sotto gli occhi di chi non si tappi occhi e coscienza con la monetina.
Ma la manifestazione più indecente è il parallelismo con le stelle gialle e con la persecuzione degli ebrei, e l’abuso banalizzante di termini come “lager” che ha raggiunto livelli insopportabili se persino un prefetto si abbandona a questa moda; la quale è offensiva per chi ha avuto mezza famiglia sterminata e che si sarebbe salvata se fosse stata oggetto di un censimento Maroni anziché di quello della Gestapo. Non capisco quegli ebrei e quei cattolici che si accodano alla propaganda strumentale di circoli politici ridotti alla mendicità mentale. Sbaglia, e di grosso, chi da credito ai deliri dell’editorialista che blatera di «esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall’infanzia perché appartenente a altre etnie o razze»; e non si rende conto che il vero razzismo è quello di chi preferisce che questa “parte di popolazione” viva nel ghetto – sì, qui il termine è appropriato – di un’illegalità cui li condanna un’idea fasulla della tolleranza. Una tolleranza che è, appunto, soltanto il razzismo di chi se ne infischia delle condizioni altrui pur di non perdere il privilegio di compatire. Come quell’intellettuale che racconta di incontrare ogni mattina, con il gelo o il solleone, un barbone che dorme per terra accanto alle sue povere cose: si salutano cordialmente, il barbone parla in modo colto (pensate, non è una bestia come credereste) e il cane anziché morderlo gli fa le feste. E ci manca solo che qualche vigile urbano nazista lo metta in lista per un’occupazione e un alloggio. Il nostro intellettuale perderebbe un modo di alimentare il suo ego “buono” e “democratico”.
(Tempi, 17 luglio 2008)
mercoledì 16 luglio 2008
lunedì 14 luglio 2008
LA FOLLIA DI MISURARE TUTTO
Un tema ricorrente in questo blog è la mania quantitativa che sta distruggendo la cultura. Che si tratti di scuola, di educazione, di valutazione l'ossessione di misurare tutto è ormai uno degli aspetti più cupi dei nostri tempi. La "misura delle qualità"...
Stiamo esagerando? E allora leggete questo appello dei direttori delle riviste di storia e cultura scientifica inglesi. Credo che non abbia bisogno di commenti. È un documento che non trovo esagerato definire drammatico. E che descrive molto bene gli effetti disastrosi della dittatura degli incompetenti docimologi e valutatori.
Journals under Threat: A Joint Response from HSTM Editors
We live in an age of metrics. All around us, things are being standardized, quantified, measured. Scholars concerned with the work of science and technology must regard this as a fascinating and crucial practical, cultural and intellectual phenomenon. Analysis of the roots and meaning of metrics and metrology has been a preoccupation of much of the best work in our field for the past quarter century at least. As practitioners of the interconnected disciplines that make up the field of science studies we understand how significant, contingent and uncertain can be the process of rendering nature and society in grades, classes and numbers. We now confront a situation in which our own research work is being subjected to putatively precise accountancy by arbitrary and unaccountable agencies. Some may already be aware of the proposed European Reference Index for the Humanities (ERIH), an initiative originating with the European Science Foundation. The ERIH is an attempt to grade journals in the humanities – including “history and philosophy of science”. The initiative proposes a league table of academic journals, with premier, second and third divisions. According to the European Science Foundation, ERIH “aims initially to identify, and gain more visibility for, top-quality European Humanities research published in academic journals in, potentially, all European languages”. It is hoped “that ERIH will form the backbone of a fully-fledged research information system for the Humanities”. What is meant, however, is that ERIH will provide funding bodies and other agencies in Europe and elsewhere with an allegedly exact measure of research quality. In short, if research is published in a premier league journal it will be recognized as first rate; if it appears somewhere in the lower divisions, it will be rated (and not funded) accordingly.
This initiative is entirely defective in conception and execution. Consider the major issues of accountability and transparency. The process of producing the graded list of journals in science studies was overseen by a committee of four (the membership is currently listed at http://www.esf.org/research-areas/humanities/research-infrastructures-including-erih/erih-governance-and-panels/erih-expert-panels.html). This committee cannot be considered representative. It was not selected in consultation with any of the various disciplinary organizations that currently represent our field such as BSHS, HSS, PSA, SHoT or SSSS. Only in June 2008 were journal editors belatedly informed of the process and its relevant criteria or asked to provide any information regarding their publications. No indication has been given of the means through which the list was compiled; nor how it might be maintained in the future.
The ERIH depends on a fundamental misunderstanding of conduct and publication of research in our field, and in the humanities in general. Journals’ quality cannot be separated from their contents and their review processes. Great research may be published anywhere and in any language. Truly ground-breaking work may be more likely to appear from marginal, dissident or unexpected sources, rather than from a well-established and entrenched mainstream. Our journals are various, heterogeneous and distinct. Some are aimed at a broad, general and international readership, others are more specialized in their content and implied audience. Their scope and readership say nothing about the quality of their intellectual content. The ERIH, on the other hand, confuses internationality with quality in a way that is particularly prejudicial to specialist and non-English language journals. In a recent report, the British Academy, with judicious understatement, concludes that “the European Reference Index for the Humanities as presently conceived does not represent a reliable way in which metrics of peer-reviewed publications can be constructed.” Such exercises as ERIH can become self-fulfilling prophecies. If such measures as ERIH are adopted as metrics by funding and other agencies, then many in our field will conclude that they have little choice other than to limit their publications to journals in the premier division. We will sustain fewer journals, much less diversity and impoverish our discipline.
Along with many others in our field, this Journal has concluded that we want no part of this illegitimate and misguided exercise. This joint Editorial is being published in journals across the fields of history of science and science studies as an expression of our collective dissent and our refusal to allow our field to be managed and appraised in this fashion. We have asked the compilers of the ERIH to remove our journals’ titles from their lists.
Neil Barton (Transactions of the Newcomen Society)
Robert Fox (Notes & Records of the Royal Society)
Michael Hoskin (Journal for the History of Astronomy)
Nick Jardine (Studies in History and Philosophy of Science)
Trevor Levere (Annals of Science)
Bernie Lightman (Isis)
Michael Lynch (Social Studies of Science)
Peter Morris (Ambix)
Iwan Rhys Morus (History of Science)
Simon Schaffer (British Journal for the History of Science)
Stiamo esagerando? E allora leggete questo appello dei direttori delle riviste di storia e cultura scientifica inglesi. Credo che non abbia bisogno di commenti. È un documento che non trovo esagerato definire drammatico. E che descrive molto bene gli effetti disastrosi della dittatura degli incompetenti docimologi e valutatori.
Journals under Threat: A Joint Response from HSTM Editors
We live in an age of metrics. All around us, things are being standardized, quantified, measured. Scholars concerned with the work of science and technology must regard this as a fascinating and crucial practical, cultural and intellectual phenomenon. Analysis of the roots and meaning of metrics and metrology has been a preoccupation of much of the best work in our field for the past quarter century at least. As practitioners of the interconnected disciplines that make up the field of science studies we understand how significant, contingent and uncertain can be the process of rendering nature and society in grades, classes and numbers. We now confront a situation in which our own research work is being subjected to putatively precise accountancy by arbitrary and unaccountable agencies. Some may already be aware of the proposed European Reference Index for the Humanities (ERIH), an initiative originating with the European Science Foundation. The ERIH is an attempt to grade journals in the humanities – including “history and philosophy of science”. The initiative proposes a league table of academic journals, with premier, second and third divisions. According to the European Science Foundation, ERIH “aims initially to identify, and gain more visibility for, top-quality European Humanities research published in academic journals in, potentially, all European languages”. It is hoped “that ERIH will form the backbone of a fully-fledged research information system for the Humanities”. What is meant, however, is that ERIH will provide funding bodies and other agencies in Europe and elsewhere with an allegedly exact measure of research quality. In short, if research is published in a premier league journal it will be recognized as first rate; if it appears somewhere in the lower divisions, it will be rated (and not funded) accordingly.
This initiative is entirely defective in conception and execution. Consider the major issues of accountability and transparency. The process of producing the graded list of journals in science studies was overseen by a committee of four (the membership is currently listed at http://www.esf.org/research-areas/humanities/research-infrastructures-including-erih/erih-governance-and-panels/erih-expert-panels.html). This committee cannot be considered representative. It was not selected in consultation with any of the various disciplinary organizations that currently represent our field such as BSHS, HSS, PSA, SHoT or SSSS. Only in June 2008 were journal editors belatedly informed of the process and its relevant criteria or asked to provide any information regarding their publications. No indication has been given of the means through which the list was compiled; nor how it might be maintained in the future.
The ERIH depends on a fundamental misunderstanding of conduct and publication of research in our field, and in the humanities in general. Journals’ quality cannot be separated from their contents and their review processes. Great research may be published anywhere and in any language. Truly ground-breaking work may be more likely to appear from marginal, dissident or unexpected sources, rather than from a well-established and entrenched mainstream. Our journals are various, heterogeneous and distinct. Some are aimed at a broad, general and international readership, others are more specialized in their content and implied audience. Their scope and readership say nothing about the quality of their intellectual content. The ERIH, on the other hand, confuses internationality with quality in a way that is particularly prejudicial to specialist and non-English language journals. In a recent report, the British Academy, with judicious understatement, concludes that “the European Reference Index for the Humanities as presently conceived does not represent a reliable way in which metrics of peer-reviewed publications can be constructed.” Such exercises as ERIH can become self-fulfilling prophecies. If such measures as ERIH are adopted as metrics by funding and other agencies, then many in our field will conclude that they have little choice other than to limit their publications to journals in the premier division. We will sustain fewer journals, much less diversity and impoverish our discipline.
Along with many others in our field, this Journal has concluded that we want no part of this illegitimate and misguided exercise. This joint Editorial is being published in journals across the fields of history of science and science studies as an expression of our collective dissent and our refusal to allow our field to be managed and appraised in this fashion. We have asked the compilers of the ERIH to remove our journals’ titles from their lists.
Neil Barton (Transactions of the Newcomen Society)
Robert Fox (Notes & Records of the Royal Society)
Michael Hoskin (Journal for the History of Astronomy)
Nick Jardine (Studies in History and Philosophy of Science)
Trevor Levere (Annals of Science)
Bernie Lightman (Isis)
Michael Lynch (Social Studies of Science)
Peter Morris (Ambix)
Iwan Rhys Morus (History of Science)
Simon Schaffer (British Journal for the History of Science)
giovedì 3 luglio 2008
Nelle tracce della maturità c’erano errori peggiori di quelli noti. E non erano sviste
Si è sollevato un gran baccano attorno agli errori contenuti nelle formulazioni dei “temi” e delle “tracce” degli esami di maturità ma nessuno si è interessato a esaminarne i contenuti. Certo, è un’impresa leggere una pappardella di quasi 40.000 battute: tale è la lunghezza complessiva dei testi proposti e già questo – anche se è un dato soltanto quantitativo – è un segnale degli approdi grotteschi cui siamo giunti.
Diamo piuttosto un’occhiata ai documenti proposti con il tema di ambito tecnico-scientifico: «Quale idea di scienza nello sviluppo tecnologico della società umana». Il primo documento è un brano tratto dal “De Rerum Natura” di Lucrezio. Leggiamolo:
«Quando la nostra vita umana giaceva per terra/turpemente schiacciata da una pesante religione/che mostrava dal cielo l’orribile faccia/sopra i mortali, per la prima volta un uomo mortale,/un Greco, osò contro di quella alzare lo sguardo/e per primo resisterle contro; né la fama dei Numi/né il fulmine lo distrusse né la minaccia del cielo/strepitoso lo spaventò; ché anzi il desiderio/gli crebbe più forte e più acre lo strinse,/di rompere egli per primo/le porte serrate della natura. E vinse/la forza dell’animo; e andò lontano, solo,/di là dalle fiammanti barriere dell’universo/e tutto l’immenso attraversò con la mente/illesa, e a noi vittorioso ritorna e ci svela/il segreto dei corpi che nascono e come alle cose/è fisso un termine e limitato il potere./Così la religione fu calpestata/sotto i piedi mortali/e quella vittoria ci solleva alle stelle».
È ovvio che questo brano va contestualizzato. Col mito di Prometeo, esso allude alla contrapposizione tra conoscenza e la religione del mondo pagano. Qui la “tecnologia” è un anacronismo e l’uso di una simile “traccia” suggerisce tendenziosamente di dire che scienza/tecnologia e religione sono incompatibili. Esagero? Leggete allora il “documento” seguente. È di Jeremy Rifkin, il guru ambientalista le cui “competenze” come storico della scienza sono nulle:
«Nel corso della storia è sempre accaduto che l’uomo si sia trovato in una situazione di incertezza di fronte a due modi profondamente diversi di interpretare la realtà. Fu senza dubbio questo il caso che si verificò alla fine del Seicento, quando gli scienziati e i filosofi razionalisti – Isaac Newton, John Locke, René Descartes e altri – misero in discussione alcuni dogmi della Chiesa, fra i quali anche una dottrina fondamentale: quella che considerava la terra come una creazione di Dio e, quindi, dotata di valore intrinseco. I nuovi pensatori propendevano per una visione più materialistica dell’esistenza, fondata sulla matematica e sulla “ragione”».
La congiunzione del brano di Lucrezio con il ridicolo asserto di Rifkin – che Newton o Descartes fossero materialisti e non credessero al mondo come creazione divina – denota che chi ha proposto il tema aveva un intento: indurre lo studente a comporre una requisitoria antireligiosa in nome della ragione scientifica. Lo scandalo è che, anziché limitarsi a proporre il tema, lo studente sia stato indirizzato – accoppiando un brano che viene da un mondo lontanissimo dal nostro con un altro che propina una castroneria – a comporre un elaborato in stile sovietico.
Va altresì detto che questa prova gestita in modo ignorante e fazioso non si guarisce con la soluzione proposta da certi sprovveduti: sostituire il tema con un test a risposte multiple “somministrato” da docimologi. Del tipo: «Chi era Isaac Newton? A) Un fotografo, B) uno scienziato inglese, C) un centravanti del Manchester. Segnare con una croce la risposta esatta». Ovvero: come sostituire l’ateismo di stato con l’ebefrenia da valutazione.
(Tempi, 3 luglio 2008)
Diamo piuttosto un’occhiata ai documenti proposti con il tema di ambito tecnico-scientifico: «Quale idea di scienza nello sviluppo tecnologico della società umana». Il primo documento è un brano tratto dal “De Rerum Natura” di Lucrezio. Leggiamolo:
«Quando la nostra vita umana giaceva per terra/turpemente schiacciata da una pesante religione/che mostrava dal cielo l’orribile faccia/sopra i mortali, per la prima volta un uomo mortale,/un Greco, osò contro di quella alzare lo sguardo/e per primo resisterle contro; né la fama dei Numi/né il fulmine lo distrusse né la minaccia del cielo/strepitoso lo spaventò; ché anzi il desiderio/gli crebbe più forte e più acre lo strinse,/di rompere egli per primo/le porte serrate della natura. E vinse/la forza dell’animo; e andò lontano, solo,/di là dalle fiammanti barriere dell’universo/e tutto l’immenso attraversò con la mente/illesa, e a noi vittorioso ritorna e ci svela/il segreto dei corpi che nascono e come alle cose/è fisso un termine e limitato il potere./Così la religione fu calpestata/sotto i piedi mortali/e quella vittoria ci solleva alle stelle».
È ovvio che questo brano va contestualizzato. Col mito di Prometeo, esso allude alla contrapposizione tra conoscenza e la religione del mondo pagano. Qui la “tecnologia” è un anacronismo e l’uso di una simile “traccia” suggerisce tendenziosamente di dire che scienza/tecnologia e religione sono incompatibili. Esagero? Leggete allora il “documento” seguente. È di Jeremy Rifkin, il guru ambientalista le cui “competenze” come storico della scienza sono nulle:
«Nel corso della storia è sempre accaduto che l’uomo si sia trovato in una situazione di incertezza di fronte a due modi profondamente diversi di interpretare la realtà. Fu senza dubbio questo il caso che si verificò alla fine del Seicento, quando gli scienziati e i filosofi razionalisti – Isaac Newton, John Locke, René Descartes e altri – misero in discussione alcuni dogmi della Chiesa, fra i quali anche una dottrina fondamentale: quella che considerava la terra come una creazione di Dio e, quindi, dotata di valore intrinseco. I nuovi pensatori propendevano per una visione più materialistica dell’esistenza, fondata sulla matematica e sulla “ragione”».
La congiunzione del brano di Lucrezio con il ridicolo asserto di Rifkin – che Newton o Descartes fossero materialisti e non credessero al mondo come creazione divina – denota che chi ha proposto il tema aveva un intento: indurre lo studente a comporre una requisitoria antireligiosa in nome della ragione scientifica. Lo scandalo è che, anziché limitarsi a proporre il tema, lo studente sia stato indirizzato – accoppiando un brano che viene da un mondo lontanissimo dal nostro con un altro che propina una castroneria – a comporre un elaborato in stile sovietico.
Va altresì detto che questa prova gestita in modo ignorante e fazioso non si guarisce con la soluzione proposta da certi sprovveduti: sostituire il tema con un test a risposte multiple “somministrato” da docimologi. Del tipo: «Chi era Isaac Newton? A) Un fotografo, B) uno scienziato inglese, C) un centravanti del Manchester. Segnare con una croce la risposta esatta». Ovvero: come sostituire l’ateismo di stato con l’ebefrenia da valutazione.
(Tempi, 3 luglio 2008)
martedì 1 luglio 2008
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