sabato 5 dicembre 2009

Sono passati due anni e c'è poco da aggiungere



Può essere imbarazzante rileggere quel che si è scritto tempo fa, quando contiene diagnosi o addirittura previsioni su una materia ostica e complessa come le relazioni politiche e strategiche. Sarebbe scioccamente narcisistico dire che ho avuto un sentimento di sollievo rileggendo l’articolo dal titolo “Come e perché è morta la questione palestinese” che ho firmato sul Foglio, assieme al direttore Giuliano Ferrara, il 22 maggio 2007. Sarebbe sciocco narcisismo rallegrarsi per il fatto che quel che vi era scritto potrebbe essere riproposto oggi parola per parola, quasi senza aggiornamenti: in realtà è una tragedia.
Tanto più è una tragedia perché l’articolo meriterebbe un aggiornamento su un solo punto: la prospettiva odierna non è più quella di “due popoli, due stati”, ma di tre stati. E quanto ai popoli, l’identità di uno dei due appare sempre più liquefatta o trasformata in quella di avamposto della rivoluzione permanente dell’islamismo iraniano. Scrivevamo allora che la formula “due popoli, due stati” era lontana come non mai, se mai aveva avuto prospettive reali e faceva risaltare la colossale ipocrisia del parlare di “processo di pace”. Erano i tempi della guerra civile con Hamas e non era chiaro come sarebbe andata a finire anche se quel dramma era bastato a Hanna Siniora per dire che il progetto nazionale palestinese era morto. Oggi abbiamo dietro di noi il consolidamento del potere di Hamas, malgrado l’operazione “Piombo fuso” di Israele, il declino del potere di Abu Mazen e l’indebolimento di Fatah, l’allontanarsi in una nebbia confusa delle più timide prospettive di conciliazione tra i due movimenti palestinesi attorno a un progetto di stato nazionale. E qualcuno è finito a parlare di tre stati… Insomma, l’ipocrisia di continuare a parlare di “processo di pace” è divenuta oggi un autentico scandalo, soltanto un modo per distogliere gli occhi dalla realtà e dalle vere poste in gioco.
Più di due anni fa esponevamo la ragione primaria per cui la questione palestinese era morta: l’assenza di tutte le caratteristiche che contrassegnano il processo di formazione di uno stato nazionale e, tra di esse, la più importante, ovvero la manifestazione della volontà di costruire. Gli ebrei giunti in Palestina in una serie di “aliyah” iniziate nel 1881 non attesero di ottenere uno stato per costruire qualcosa, né anteposero a questa costruzione una questione militare. Lo stato nazionale fu la logica conseguenza di un processo di lunghissima durata il cui centro era stato il dissodamento delle terre, l’agricoltura, la realizzazione di centri abitati, di scuole, la promozione della cultura e della scienza. Cosa vieterebbe ai palestinesi di Gaza di costruire un primo nucleo di stato nazionale, per giunta con il sostegno degli imponenti aiuti finanziari internazionali? Chi potrebbe imporre blocchi alle frontiere o restrizioni di fronte alla volontà concretamente espressa di perseguire questo obbiettivo civile tralasciando quello militare? Ma siamo ben lungi da ciò, oggi ancor più di ieri. Gaza è una portaerei islamica, imbottita di missili e armi di ogni tipo, che vive nell’attesa di un confronto vincente con Israele e che sostiene la sua economia sugli aiuti internazionali concessi, a loro volta, nella speranza di esorcizzare quel confronto. Il potere di Abu Abbas e del Fatah sul West Bank è ormai esangue, tenuto in piedi come simulacro di un’alternativa alla trasformazione dell’intera area “palestinese” in una base iraniana.
Quindi, oggi ancor più di ieri, non esiste alcuna volontà costruttiva, ma un solo obbiettivo: l’eliminazione di Israele. E che questo sia l’unico obbiettivo è testimoniato dal pervicace rifiuto di considerarne sia pur ipoteticamente il riconoscimento. Così, se si può parlare di questione e di stato palestinese è soltanto nel senso di uno stato islamico che dovrebbe prendere il posto di Israele al termine di un confronto vittorioso.
Un altro tema che veniva sollevato nell’articolo di due anni fa era quello del negazionismo: non soltanto quello della Shoah, ma quello della presenza storica degli ebrei in Palestina. Ebbene, anche questo tema lo ritroviamo oggi, e in termini di molto aggravati. L’idea di questa forma di negazionismo era stata lanciata Arafat durante il vertice di Camp David del 2002: affermò che un tempio ebraico a Gerusalemme non era mai esistito. Oggi questa tematica dilaga. Anche la televisione di Fatah ha sostenuto con dovizia di argomenti “scientifici” che tutta la storia della presenza ebraica in Terrasanta è inventata di sana pianta. Insomma, la Bibbia, inclusi i Vangeli, sono un colossale falso sionista. Inutile dire che questa propaganda recluta alfieri anche in occidente. Spuntano fuori archeologi improvvisati che spiegano che il Muro del Pianto non ha mai fatto parte del Tempio il quale, casomai, era in altro luogo. Secondo costoro, cadendo così le pretese ebraiche sul Monte del Tempio, la questione di Gerusalemme sarebbe facilmente risolubile, ovviamente a favore dei musulmani.
Questa esplosione di negazionismo rende evidente che la posta in gioco è tutto salvo che la volontà di costruire una nazione palestinese che conviva con Israele. Lo ha messo in luce la vicenda di un musulmano che ha avuto il coraggio di scrivere in un saggio la verità: il professor Sari Nusseibeh. Egli ha riconosciuto che il Monte del Tempio è il luogo che testimonia il legame profondo, storico e documentato, degli ebrei con Gerusalemme. Anzi, se quel luogo è divenuto sacro anche ai musulmani è perché Maometto venne a visitarlo con la coscienza del suo carattere sacro per l’ebraismo e il cristianesimo in quanto “religioni di Abramo”. Il coraggioso riconoscimento di Nusseibeh mirava a spazzare via la deleteria tendenza al rifiuto dell’“archeologia nemica”. Se questo punto di vista fosse stato accolto ci si sarebbe trovati di fronte a un passaggio decisivo. Perché, se Gerusalemme rappresenta il massimo punto di contesa, il tema più difficile, quasi insolubile, su cui si esprime il vertice dell’inconciliabile, non è forse la mossa più intelligente partire proprio di lì, riconoscere reciprocamente il diritto a gestire pacificamente ciò che è più sacro per entrambi?
Ma l’intervento del professor Nusseibeh non soltanto non ha smosso le coscienze ma ha messo lui in una situazione insostenibile. Pare che abbia ricevuto minacce. Di certo, egli non ha aperto più bocca e ha declinato l’invito a parlare in un incontro alla Scuola biblica di Gerusalemme. Ancora una volta la possibilità di costruire qualcosa è stata rifiutata.
Di fronte alla negazione totale non c’è dubbio che Israele sia stanco, ed è più che comprensibile. Anche i “falchi” come l’ex-ministro della difesa Mofaz parlano di trattare col diavolo, ovvero con Hamas. È duro, quasi impossibile accettare l’idea che in qualche recesso non si annidi una dose minima di realismo. Quel che è peggio è che il desiderio di trovarla può far scambiare per realismo quelli che sono soltanto espedienti tattici. Israele, per amore della vita, cerca di ottenere Gilad Shalit liberando un numero spropositato di prigionieri palestinesi, in uno scambio che Massimo D’Alema definirebbe “sproporzionato”. E il governo Netanyahu ha accettato di bloccare qualsiasi costruzione nella West Bank per dieci mesi. Ma è doloroso dire che tutto questo non servirà a molto. Non siamo più di fronte a una questione palestinese e l’esistenza di Israele è ormai parte di un problema geopolitico di vaste dimensioni. L’abbandono di Israele al suo destino è il tema su cui l’islam radicale capitanato dall’Iran vuole misurare la debolezza dell’occidente. E per ottenere questo risultato, da un lato lascia intendere che questo abbandono è la chiave per risolvere ogni problema – come Hitler lasciava credere che lo fosse la questione dei Sudeti – e, dall’altro, ne offre la giustificazione diffondendo la tematica negazionista, non tanto quella sulla Shoah quanto quella assai più efficace che delegittima l’intera storia ebraica. Lo spegnersi della voce di Nusseibeh, come due anni fa quella di Siniora, è la testimonianza che ben altro è in gioco che la “questione palestinese”. È in campo l’idea tentatrice che senza Israele il mondo sarebbe più vivibile. Se ci si soffermerà a contemplare incerti questo volto di Medusa si giungerà a un momento in cui sarà troppo tardi per tutti.




(Il Foglio, 2 dicembre 2009)

4 commenti:

Caroli ha detto...

Sono sempre più convinto che una nuova Lepanto sia indifferibile. Questa volta con tutta la "famiglia di Abramo" (quella vera) fianco a fianco. Altrimenti sarà una nuova Vienna, e ci sarà da chiedersi se ci sarà di nuovo un Giovanni III Sobjeskj...

Myosotis ha detto...

Ogni tanto mi domando se la democrazia liberale - che tutti consideriamo la migliore forma di governo o, churchillianamente, la meno peggiore - sia in grado di risolvere anche certi problemi che le dittature, più o meno criminali, risolverebbero in quattro e quattr'otto.

Caroli ha detto...

Io torno a Lepanto...

mike ha detto...

Pero' ... questa cosa mi lascia perplesso:
Sono personalmente vicino alla soluzione unilaterale di Sharon di lasciare Gaza (e visceralmente disgustato dalle prime immagini di distruzione da parte dei palestinesi delle sinagoghe lasciate poche ore prima)
ma non capisco perche' si continui a colonizzare il west bank. Non dovrebbero bloccare per 10 mesi, ma per sempre, non crede ?
Sono personalmente d'accordissimo con la filosofia "le cose, le case, la terra, sono di chi le usa" (= e' terreno desertico, coltiviamoci) ma se si e' deciso che quei territori sono dell'ANP ... beh, va bene per chi ormai e' insediato ... ma nuovi insediamenti ?
E dico questo come amante di Israele, come ex kibbutznik, come persona che ci andrebbe volentieri a vivere tutta la vita !