Al Convegno che si è svolto a Roma l’8 aprile sulla «scuola dell’obbligo tra conoscenze e competenze» ha partecipato Claude Thélot, già presidente di una commissione sul futuro della scuola francese sotto la presidenza Chirac. Il Corriere della Sera l’ha intervistato presentandolo come «uno dei più grandi esperti di problemi scolastici». Leggere cosa ha detto è istruttivo per capire chi sono questi “esperti” e in quali mani si vuole mettere la scuola europea.
Una premessa. La scuola non va bene in Francia. Lo ammette lo stesso Thélot, asserendo che circa il 15% per cento dei giovani esce dalla scuola dell’obbligo con conoscenze insufficienti e grandi difficoltà nell’applicarle, più o meno nella media europea. In realtà, se così fosse non sarebbe poi un gran disastro. Ma le cose stanno molto ma molto peggio. Per rendersene conto basta leggere il libro di Laurent Lafforgue e Liliane Lurçat, “La disfatta della scuola. Una tragedia incompresa” (ora tradotto in italiano da Marietti); e anche leggere i tanti rapporti di ricercatori francesi come Catherine Krafft. Il quadro che presentano è quello di un disastro senza precedenti, altro che 15%: intere generazioni che non sanno più scrivere e far di conto. Come accade da noi. L’altro giorno un collega si metteva le mani nei capelli di fronte a persone vicine ad andare a insegnare che ancora non capiscono perché la frazione ¼ si possa anche scrivere 0,25.
Lafforgue è un matematico di prim’ordine, una Field medal, l’equivalente del Nobel per la matematica. Nel 2005 ha dovuto dimettersi dall’Alto Consiglio dell’Educazione francese per aver scritto privatamente al presidente del medesimo che era assurdo chiedere consulenze a funzionari ed “esperti”: «Per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Vista la composizione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU la prospettiva è ormai realtà… Ma Lafforgue è ingenuo come tutte le persone che credono ancora di poter parlare il linguaggio della verità e sa che chi ha ridotto la scuola francese in questo stato sono proprio i cosiddetti “esperti”, i teorici della “didattica delle competenze”, della scuola dell’autoformazione e del successo formativo garantito. Ha pagato caro per dirlo ma chiunque legga il suo libro o visiti il suo sito vi troverà una miniera di idee e di osservazioni che potrebbero davvero servire per iniziare a porre rimedio al disastro.
Si inizia a capire così perché un Thélot limiti la percentuale degli insuccessi a un modesto 15%: perché non può ammettere che le cose vadano tanto male, visto il potere che le persone come lui hanno avuto ed hanno sulla scuola, ma, al contempo, deve far capire che bisogna continuare a propinare la sua medicina. E cosa si frappone al successo totale della “cura”? In primo luogo, i professori, quei maledetti professori che non si adattano a fare quel che prescrivono gli esperti.
Sentite: «Scuola e professori tradizionalmente insistono sulle conoscenze: invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e occuparsi più della crescita dei propri alunni». «Il docente – prosegue Thélot – deve essere prima di tutto uno specialista del successo dei propri studenti».
A questo punto qualsiasi persona ragionevole, non corrotta dal modo di “ragionare” aberrante di queste persone, vede in modo plateale la contraddizione. Che cos’è il “successo” a scuola? Conoscere e saper usare le conoscenze. Difatti non risulta che la scuola si occupi di altro che di “saperi”. Proprio Thénot lo conferma lamentando che troppi ragazzi abbiano insufficienti conoscenze e capacità di applicarle. E allora, come ottenere questo successo? Non trasmettendo conoscenza, per carità, ma trasformandosi in specialisti del successo degli studenti… Molto facile in realtà: basta trasformare la scuola in un paese dei balocchi, divertirsi di più e alla fine promuovere tutti. Successo formativo garantito.
Ma, risponderà l’esperto, non è questo che volevo dire. Intendevo che la vecchia scuola è troppo legata alla «trasmissione di conoscenze astratte». Così ci si vuol far credere che siano stati loro a scoprire che non basta ingurgitare passivamente nozioni, che bisogna assimilarle e saperle usare attivamente. In realtà, questa idea risale a Socrate ed è stata largamente applicata. Nel Regio Decreto istitutivo dei licei moderni in Italia, risalente addirittura al 1913, si poteva leggere:
«L’insegnante non trascurerà di sottoporre a osservazione o a esperimento la previsione, cui sarà pervenuto col ragionamento, per constatare se essa corrisponda alla realtà […] Gli alunni siano sempre attivi, trovino da sé, sotto la guida del professore, e non ricevano da lui solo direttamente il sapere bello e formato. Essi, entro certi limiti, devono ripetere per proprio conto e per vie abbreviate, il lavoro compiuto dalle passate generazioni nella conquista del sapere scientifico. […] non si dimentichi mai che si sa bene solo quello che si sa fare o applicare. […]».
Queste cose, chiare a qualsiasi buon insegnante, questi signori le propagandano come la scoperta dell’ombrello, sotto la voce della distinzione tra “conoscenze” e “competenze”. La scuola delle “conoscenze” sarebbe quella vecchia e “trasmissiva”, la loro scuola è quella delle “competenze”. Poi se chiedi come definirebbero le competenze, farfugliano centinaia di definizioni. Nella loro confusione mentale non riescono più neppure a mantenere la distinzione di cui sopra: competenze sono «conoscenze, capacità di applicarle in diversi contesti, attitudini e atteggiamenti mentali che favoriscono l’iniziativa autonoma e la capacità di apprendere e lavorare insieme agli altri». Bella novità. È soltanto cambiato il nome. In un’ottica minimamente corretta di cosa sia la scuola, queste capacità sono sempre rientrate nell’idea di conoscenza. Anzi, senza la capacità di dominare autonomamente i concetti appresi, non esiste alcuna conoscenza.
E allora perché questi vaneggiamenti nominalisti? Ma è chiaro. Perché, al fine di assoggettare la scuola al dominio di “esperti” che hanno come unica risorsa le loro teorie gestionali autoreferenziali e che, richiesti di spiegare come si dovrebbe far apprendere la matematica o la storia, non saprebbero produrre altro che i balbettamenti dell’ignoranza, bisogna distruggere contenuti, discipline, conoscenze specifiche e ridurre tutto a metodologia. Occorre fare degli insegnanti i meri esecutori dei precetti degli “esperti”, automi deprivati dell’unico strumento autonomo che possiedono: la conoscenza disciplinare.
E allora, per salvare la scuola bisogna proprio confidare negli insegnanti, quelli bravi e capaci, s’intende. Quelli che uno di questi “esperti” ha vergognosamente definito “sacca di resistenza”. (Il Giornale, 9 aprile 2010)
5 commenti:
Una definizione condivisa di competenze non c’è, nel frattempo ognuno si crea le proprie competenze e non si sa in che direzione vadano, o meglio si sa, ma si stenta a crederci. E’ il caso di un dirigente scolastico che durante il collegio dei docenti, volendo sostenere la validità della scuola delle competenze e la certificazione di queste, afferma” …d’altronde, c’è chi possiede un sapere enciclopedico, ma se si buca una ruota non sa cosa fare. Sappiamo che ci sono esimi studiosi che nella vita pratica non sanno dove mettere le mani“. Bene, d’ora in avanti gli insegnanti di quel collegio sanno cosa andare a verificare: se l’alunno sa allacciarsi le scarpe, sa prelevare la colazione dal distributore automatico e, magari, sa riparare ciò che a volte, con poco senso civico, viene danneggiato. E allo studente che in quanto a conoscenze è carente, ma ha spiccate capacità pratiche verrà consegnata una certificazione da far invidia a “un esimio studioso”.
Gentile prof. Israel,
nel prossimo Collegio dei Docenti della scuola media inferiore dove insegno lettere, all'ordine del giorno è posta la questione dei criteri per la “certificazione delle competenze”. Io chiederò di leggere questo suo articolo e pretenderò di essere ascoltato, prima di qualunque formulazione. Dopodiché, ne sono quasi certo, molti diranno di essere d'accordo, però, aggiungeranno che, anche se questa storia della certificazione delle competenze è senza senso, tuttavia bisogna farla.
Le chiedo: è vero che “bisogna”, che c'è obbligo professionale? Si può rifiutare un Collegio? E se il Collegio non si rifiuta, si può rifiutare, senza incorrere in sanzioni, il singolo docente?
Grazie.
Temo che purtroppo sia ormai un obbligo anche se non ho idea di eventuali sanzioni. Non mi faccia però dire come si possa fare in modo da renderla praticamente irrilevante. Gli adempimenti vuoti di senso sono sempre facilmente svuotabili, proprio in quanto vuoti. Io sui criteri di certificazione delle competenze non perderei più di 5 minuti, producendo di fatto un clone del giudizio di pagella.
Ogni anno sono costretto a consegnare le schede di valutazione agli studenti, a ritirarle e a riempire un mio modulo. Ad esso accompagno sistematicamente una lettera di protesta che sottolinea l'assurdità di questa procedura.
P.S. Può anche tenere conto dell'articolo che ho specificamente dedicato alla certificazione delle competenze e che si trova su questo blog (La scuola delle competenze demenziali, 15 novembre 2009).
Egr. prof. Israel,
vorrei approfittare del termine di questa discussione per chiederle un consiglio senza rischiare di monopolizzarla. Vede, una mia conoscente è insegnante di matematica alle scuole medie (anche se è laureata in biologia) e, mi creda, in materia di scuola ha opinioni totalmente diverse dalle sue (sostanzialmente, è una di quelle persone che vanno gridando ai quattro venti le virtù della scuola liberal pseudo-democratica contro gli insegnanti oppressori degli alunni). Ecco, penso che in Italia lei sappia meglio di chiunque altro con quanta pervicacia (e speso ottusa cecità) certe persone si rifiutino di mettere in discussione le loro "idee" sulla scuola. Tuttavia, di recente si è mostrata un pò più insicura e disposta a sentire altre campane; mi ha fatto anche delle domande (pensi un pò) e mi ha chiesto di consigliarle un programma di matematica migliore di quello ministeriale da fare in classe. Colpito dal fatto che qualcosa abbia potuto fare breccia attraverso le mura delle sue certezze granitiche, ho detto che le avrei fatto sapere. Il punto è che so bene di non essere assolutamente competente in materia, ma ero sicuro che un' occasione del genere non si sarebbe ripresentata facilmente. Ho pensato, allora, di girare la domanda a lei: quale programma consiglierebbe di svolgere ad un insegnante di scuola media?
Mi fa piacere saperlo e coincide con l'impressione di un cambiamento di vento che si sente. Purtroppo, oltre ai doveri d'ufficio, sono preso totalmente dalla redazione dei nuovi programmi (o Indicazioni nazionali) dei Licei, dopo di che passeremo alle medie. Quindi, mi deve scusare, ma non ho proprio il tempo per fare una cosa così delicata. Forse potrebbe andarsi a rileggere i sempreverdi manuali di matematica di Enriques e Amaldi. Pensi che si sta meditando di rimetterli in circuito.
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