Gli ingegneri francesi dell’Ottocento se ne intendevano di valutazioni numeriche: furono loro a inaugurare l’applicazione della matematica alle questioni sociali, economiche e gestionali, e proprio per questo erano disincantati. Affermavano che i numeri possono essere usati per neutralizzare decisioni politiche scomode e per rendere accettabili le affermazioni più contraddittorie, producendo statistiche inconsistenti «perché nulla è più elastico dei numeri». Con i numeri si può convalidare tutto e il contrario di tutto.
Abbiamo già parlato qui delle conclusioni contraddittorie che emergono dalle varie classifiche delle università e delle scuole. Si aggiungono ora i risultati Ocse-Pisa che attestano la superiorità delle scuole statali italiane su quelle private e paritarie. L’Invalsi è arrivato alla conclusione opposta… Inoltre, su queste pagine, il governatore lombardo Formigoni ha sottolineato l’ottimo risultato conseguito dalle scuole della regione nei test Ocse-Pisa, e si sa che la Lombardia ha un elevato numero di scuole private e paritarie. E allora? Oltre alla contraddizione – certamente dovuta all’uso di parametri e test differenti, il che ridicolizza ancora una volta il mito della tanto vantata “oggettività” – siamo di fronte statistiche del genere “pollo di Trilussa”, che informano sulla frazione di pollo che mangia “in media” ogni persona in un dato periodo. In realtà, qui interessa sapere esattamente quanti polli vengono mangiati da ciascuno. Altrimenti, dando retta a Ocse-Pisa, una famiglia rischia di iscrivere il figlio a occhi chiusi a una scuola statale di infima qualità, oppure, dando retta all’Invalsi, di iscriverlo a una pessima scuola paritaria.
Ne segue che l’unica cosa sensata e utile non sono queste statistiche, bensì una valutazione capillare dei singoli istituti scolastici e anche dei singoli insegnanti. Il problema è però come fare questa valutazione. Uno dei metodi suggeriti da coloro che inseguono l’“oggettività” è di far ricorso ai test. Un progetto sperimentale varato dal ministero dell’istruzione propone di valutare le scuole misurando il livello di miglioramento degli apprendimenti degli studenti mediante i test Invalsi: in parole povere, si tratta di proporre dei test all’inizio e alla fine dell’anno per constatare l’esistenza di un miglioramento. Questo metodo ha due difetti. In primo luogo, i test servono a stimare il miglioramento degli apprendimenti in ambiti molto ristretti, come l’ortografia o la grammatica, ma già in matematica non rispondono affatto allo scopo di valutare le capacità di ragionare matematicamente, di formulare e risolvere un problema, bensì non vanno oltre il dar conto dell’esattezza della risposta, che è poca cosa. Non parliamo poi di materie come la storia o la letteratura. Vi è inoltre il rischio di indurre le scuole a limitarsi alla funzione di addestramento a superare i test, riducendo gli studenti a risolutori di quiz, magari abili allo scopo specifico pur essendo autentici ignoranti e incapaci. Il secondo difetto è che i test non piovono dal cielo: sono formulati da persone con una specifica preparazione e vedute personali, talvolta persino da ditte di dubbia competenza. In definitiva, essi non danno alcuna garanzia di serietà ma servono soltanto a creare un’aria di rigore “scientifico”, nascondendo la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto. Si apprende poi che si terrà conto di altri indicatori come il rapporto scuola famiglia – e chi non sa che purtroppo molte famiglie di fronte a un brutto voto schiaffeggiano il professore anziché lo studente? – e che il risultato verrà valutato da un team composto da un ispettore e da due esperti indipendenti, senza dire come sarà certificata la competenza di questi “esperti”.
Ancor meno convincente è il metodo di valutazione proposto per i singoli docenti. Essa dovrebbe essere condotta da una commissione composta dal dirigente scolastico e da due docenti dell’istituto eletti dal collegio dei docenti. È sconcertante l’idea che coloro che debbono essere valutati eleggano i loro valutatori. Ancor di più che a presiedere tale nucleo sia il dirigente scolastico. Non dubitiamo che la maggior parte dei presidi siano persone rigorose. Ma coloro che non lo sono, e certamente esistono, e che hanno la tendenza a creare cordate e “camarille” di docenti “amici”, troveranno un’opportunità per favorirle e per penalizzare le “pecore nere” che potrebbero anche essere i docenti più validi. Senza contare che questa modalità di valutazione si incrocia con la tendenza a trasformare il preside in manager, che tende a promuovere in tutti i modi l’immagine della propria scuola, come un’azienda di biscotti promuove la qualità del proprio prodotto. Inoltre, anche qui si propone di usare come criterio di valutazione il giudizio di famiglie e studenti e persino il curriculum presentato dal docente (come dubitare che vi sarà chi avrà il coraggio di parlar male di sé?).
Ritorna la questione iniziale: come valutare? Non c’è dubbio che l’unica modalità valida sia quella delle ispezioni. Ma, sia ben chiaro, non alla maniera dell’autoreferenziale corpo di ispettori in vigore in Inghilterra che, di certo, non può vantare di aver contribuito al miglioramento della scuola inglese, il cui sfascio è ormai denunziato da ogni lato. Di recente, in una riunione di “esperti” scolastici, ho assistito a un’interminabile presentazione delle virtù del sistema inglese di valutazione. Dopo un’ora di ascolto posi una piccola domanda: «Secondo voi com’è la scuola inglese?». Coro unanime: «Fa letteralmente schifo!». E tuttavia l’elogio riprese come se nulla fosse. Così ragionano gli “esperti”: a loro interessa solo la metodologia. Peraltro, una delle ultime prove del disastro della scuola inglese è data dalla constatazione che un numero crescente di famiglie, pur di non mandare i figli in scuole in cui non si apprende nulla e regna la violenza, affittano a ore docenti qualificati in tutte le materie. I costi oscillanti tra 30-50.000 mila l’euro l’anno vengono coperti quasi completamente dai voucher che le famiglie ricevono.
Tornando alle ispezioni, l’unico sistema che appare appropriato è quello in uso in diverse università straniere: farle eseguire da commissioni composte da insegnanti provenienti da scuole di diverse città, da un ispettore ministeriale, e anche da insegnanti in pensione. La commissione ispettiva si installa in un istituto scolastico per un periodo di una decina di giorni rivoltandolo come un calzino, assistendo alle lezioni, esaminando libri di testo, registri, interrogando docenti, studenti e famiglie, e raccogliendo il suo giudizio finale in un rapporto di valutazione concernente sia l’istituto nel suo complesso che i singoli insegnanti, il quale verrà sottoposto agli Uffici scolastici regionali e al ministero. La valutazione potrà investire soltanto una quota annua degli istituti che sarà tuttavia sufficiente ad avviare un processo virtuoso. Il punto fondamentale è che la valutazione non deve essere concepita come una tecnica gestionale bensì come un processo culturale. I rapporti di valutazione saranno inevitabilmente oggetto di commenti incrociati, a differenza del sistema dei test che nasconde dietro una falsa oggettività scelte operate da soggetti incontrollati. Ma questo è altamente positivo poiché avvia nell’insieme delle scuole e nella comunità degli insegnanti un vasto processo di controllo interno alla dinamica dell’istituzione scolastica, rigoroso, indipendente e alla luce del sole, che è l’unico modo per produrre un’autentica crescita culturale e della qualità dell’insegnamento e per favorire l’emergere delle scuole e degli insegnanti migliori.
Giorgio Israel (Il Giornale, 27 dicembre 2010)