«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
lunedì 30 maggio 2011
domenica 29 maggio 2011
Menti di gallina che riducono il sapere a informazione
Jorge Luis Borges racconta di aver conosciuto La Divina Commedia di Dante nei “silenziosi e lenti tranvai” che percorrevano Buenos Aires: una lettura in inglese col testo italiano a fronte. Quest’opera «che tutti dobbiamo leggere» per non «privarci del dono più grande che la letteratura può offrirci» divenne un compagno di tutta la vita di Borges che suggeriva di leggerlo dimenticando guelfi e ghibellini e filosofia scolastica. Altri lo hanno letto avendo invece in mente la cosmologia aristotelica o alternando, nelle varie letture, diversi strati di comprensione. Così è fatta la cultura: un’impresa che continua tutta la vita, senza un punto di arrivo finale, scoprendo sempre nuovi aspetti e nuove prospettive, ed è proprio questo che la rende entusiasmante. È un’impresa che ha necessità assoluta di guide e maestri. Nell’avvicinarci a Dante non possiamo privarci dei commenti eruditi accumulatisi nel tempo o dei Saggi danteschi di un Borges. Ciò è vero anche per la cultura scientifica. Pur dopo tanti anni da quando ho iniziato a studiare matematica mi capita di ripensare agli aspetti straordinariamente complessi del concetto di infinito in matematica, o alla natura dei numeri, secondo prospettive sempre nuove e per le quali sento la necessità di confrontarmi con il pensiero dei “maestri” che a questi temi hanno dedicato tanti sforzi di pensiero.
Ma ora apprendiamo che la prospettiva sta cambiando, che sta producendosi una cesura epocale nella storia del pensiero e della cultura: è l’avvento della “cultura della partecipazione, della condivisione delle competenze e delle conoscenze”. Nel sito web del noto esperto di istruzione Norberto Bottani si parla di una ricerca svolta nel Massachusetts Institute of Technology da Henry Jenkins, Direttore del Comparative Media Studies Program, secondo cui almeno un terzo degli adolescenti che usa Internet condivide con altri il contenuto di quanto fa. Ciò favorirebbe il conseguimento di obiettivi raramente conseguiti dall’educazione scolastica: espressione artistica, creatività, impegno civico, produzione personale, scambio di opinioni. I membri di queste comunità si frequenterebbero assiduamente sia pure in modo virtuale e sarebbero convinti che la loro produzione abbia un valore di per sé.
In tal modo si starebbe imponendo una concezione nuova del sapere e del modo d’apprendere. Colui che sa non è l’insegnante, il professore, ma il primo tra pari. Cambierebbe così il concetto di proprietà della conoscenza che diverrebbe un patrimonio non esclusivo ma condiviso, aperto, accessibile a tutti, ovunque, sull’istante. Ne deriverebbe un cambiamento del modello vigente di produzione e diffusione delle conoscenze e quindi dell’istituzione scolastica cui verrebbe sottratto il monopolio dell’accesso al sapere.
Questo ragionamento si basa sulla confusione elementare tra informazione e conoscenza. L’accessibilità massima all’informazione – che è un frutto positivo delle tecnologie informatiche – non implica affatto il possesso della conoscenza. Quest’ultima si costruisce nell’interminabile processo di cui si diceva all’inizio e richiede maestri. La conoscenza non è qualcosa cui si accede sull’istante e di cui ci si impossessa come una notizia. Questo andrebbe “insegnato” alle comunità dei piccoli presuntuosi. Mi scuso per la brutalità, ma la riduzione di conoscenza a informazione è frutto di una mente di gallina e fa rabbrividire il pensiero che il futuro della cultura e dell’istruzione possa essere gestito da un tale connubio di stupidità e di ignoranza. Da una persona intelligente come Bottani ci si sarebbe atteso che riferisse queste opinioni con il sarcasmo che meritano.
(Tempi, 25 maggio 2011)
Se non fosse già chiaro...
Se non fosse già chiaro che la scuola finlandese è un bluff, vale la pena di leggere questo link:
http://www.matematica.blogscuola.it/?p=838
Ora, studio a memoria a parte (gli insegnanti imbecilli ci sono sempre, come gli studenti imbecilli, ma non mi si venga a dire che in Italia è obbligatorio imparare a memoria), l'immagine che ne esce fuori è di una scuola da paese dei balocchi.
Ognuno studia quello che gli pare, tanto poi paga pegno: e allora perché andare a scuola?...
Studiare Shakespeare è roba d'altri tempi, basta l'inglesaccio da guida turistica.
E quanto alla matematica, vale la pena di leggere la risposta del giovane italiano.
Se questa è la grande scuola innovativa, teniamoci la nostra ben stretta.
In barba alle statistiche Ocse-Pisa, nuove Tavole delle Legge e nuovi Vangeli dei nostri giorni.
Le Sacre Scritture raccontano balle e storielle da cretini (Odifreddi docet), ma le Tavole Ocse-Pisa dicono la Verità: da leggere e commentare.
http://www.matematica.blogscuola.it/?p=838
Ora, studio a memoria a parte (gli insegnanti imbecilli ci sono sempre, come gli studenti imbecilli, ma non mi si venga a dire che in Italia è obbligatorio imparare a memoria), l'immagine che ne esce fuori è di una scuola da paese dei balocchi.
Ognuno studia quello che gli pare, tanto poi paga pegno: e allora perché andare a scuola?...
Studiare Shakespeare è roba d'altri tempi, basta l'inglesaccio da guida turistica.
E quanto alla matematica, vale la pena di leggere la risposta del giovane italiano.
Se questa è la grande scuola innovativa, teniamoci la nostra ben stretta.
In barba alle statistiche Ocse-Pisa, nuove Tavole delle Legge e nuovi Vangeli dei nostri giorni.
Le Sacre Scritture raccontano balle e storielle da cretini (Odifreddi docet), ma le Tavole Ocse-Pisa dicono la Verità: da leggere e commentare.
mercoledì 25 maggio 2011
Sempre a proposito di orecchie da mercante
e perché non si ripeta il ritornello che all'estero così fan tutti, o meglio, così pensan tutti.
martedì 24 maggio 2011
ORECCHIE DA MERCANTE
Nell'articolo-post precedente abbiamo parlato delle orecchie da mercante con cui si usano accogliere le critiche che suonano sgradite quando non si vuol rinunciare ai propri pregiudizi e alla propria ideologia.
Ed ecco un altro esempio.
Nel novembre 2010 (6 mesi fa) analizzavamo in un articolo alcuni dei motivi del crollo delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali, e il tonfo della riforma di questi istituti, un tonfo impietoso a fronte del successo delle nuove Indicazioni nazionali per i licei.
Orecchie da mercante.
Oggi, sul Corriere della Sera si dedica una pagina intera allo stesso tema come se nulla fosse. Non una parola sulla fasulla riforma a base di "complessità", "olismo" e "scienze integrate" che ha gettato questi istituti allo sbando, tanto che molti insegnanti chiedono di poter far uso di una versione adattata delle Indicazioni per i licei. Non soltanto. Si intervista il pedagogista Bertagna, uno dei massimi teorici della complessità, dell'olismo e dell'"ologramma", sulla base della cui ideologia è stata costruita una delle peggiori riforme della scuola italiana, la riforma Moratti.
Domani si svolgerà a Roma una conferenza sul tema degli istituti tecnici con una nutrita partecipazione di confindustriali e dei teorici di quella brillante riforma.
Così, tanto per confermare il detto che «errare è umano, perseverare è diabolico».
Ripropongo l'articolo di sei mesi fa:
Dunque, i dati sono confermati: le iscrizioni agli Istituti tecnici e professionali crollano, quelle ai Licei crescono vistosamente. Le aziende che già l’anno scorso hanno trovato sul mercato la metà dei diplomati che erano disposte ad assumere, rischiano di trovarne sempre di meno.
È da augurarsi che non inizi la consueta tiritera sulle famiglie italiane che vogliono solo il pezzo di carta che consenta ai figli di diventare avvocati, medici o professori. Le cause sono più complesse. Sarebbe sbagliato, sbagliatissimo, riproporre la litania contro la tradizione “classica gentiliana” che soffoca quella scientifica-tecnica e getta sugli Istituti tecnici la fama di una scuola di livello inferiore. Non è così: accanto ai licei classico e scientifico, l’Italia ha da circa un secolo una tradizione d’insegnamento tecnico di altissimo livello, ai primi posti in Europa. Casomai, occorrerebbe chiedersi perché negli ultimi decenni questa tradizione si sia attenuata e corrotta e l’andazzo negativo non sia stato invertito dall’ultima riforma. C’è chi dice che la colpa è del fatto che la riforma è partita in fretta e furia, Così, le famiglie avrebbero preferito riferirsi a scuole collaudate come i Licei. Neanche questo è vero, perché anche i Licei sono stati riformati radicalmente, per indirizzi, struttura, orari e anche per i contenuti dell’insegnamento, e molto più in fretta e furia dei tecnici-professionali la cui riforma è in cantiere da molto tempo.
E allora? Allora, per capire meglio, bisogna rifarsi al percorso della riforma dei tecnici-professionali che è stato a dir poco tormentato. In questo contesto, la famosa parola d’ordine dell’“essenzializzazione” – orrido gergo burocratese – ha assunto una valenza non solo organizzativa ma di contenuto con l’idea di introdurre le cosiddette “scienze integrate”, un pastone includente le scienze della terra, la biologia, la fisica e la chimica. Sbagliava chi ha creduto che si trattasse di un’escogitazione volta a ridurre gli orari e il numero degli insegnanti. Beninteso, molti insegnanti hanno reagito male alla prospettiva di dover insegnare materie su cui non avevano sufficienti competenze. Ma il vero problema è che dietro le “scienze integrate” c’era soprattutto un progetto ideologico. Esso si basava sul presupposto che la visione classica della ripartizione della scienza in discipline sarebbe morta, mentre ora si tenderebbe a concepirla come un sistema a rete, strutturato secondo una logica di “emergenza dal basso”. L’idea chiave sarebbe quella della “complessità”. La realtà deve essere vista secondo una logica sistemistica, dove il sistema è un insieme di elementi che interagiscono generando dinamiche che fanno “emergere” qualcosa di più di ciò che è dato dalle singole parti. Un simile approccio richiederebbe la rottura dei confini disciplinari, una visione della conoscenza come un tutto integrato: la scienza è una teoria del “tutto”.
Una simile visione si accompagna a un’ideologia pedagogica basata sul costruttivismo sociale e conoscitivo: riferendosi, manco a dirlo, alle neuroscienze, tale costruttivismo è giustificato da teorie sulle modalità del funzionamento del cervello, secondo cui percezione, azione e progetti del soggetto sono una sola cosa.
In realtà, chi conosca un minimo la scienza contemporanea sa bene che queste visioni “integrate”, basate sui paradigmi della “complessità” e dell’“emergenza” rappresentano una corrente minoritaria, se non marginale, e talora aspramente criticata. La scienza continua ad essere fortemente riduzionista e strutturata per discipline. Non vale invocare le affermazioni di illustri scienziati contro gli eccessi dello specialismo, perché da quelle affermazioni (sacrosante) non discende affatto la richiesta di una dissoluzione delle ripartizioni disciplinari. Queste ultime, se correttamente intese, non riflettono una divisione della natura a compartimenti, quanto l’articolazione della conoscenza in un ventaglio di metodologie ciascuna delle quali è particolarmente appropriata ad affrontare una specifica problematica. Viceversa, il trasferimento metodologico da un ambito all’altro è un’operazione avventata. Per esempio, i metodi di analisi di provata efficacia in fisica possono rivelarsi del tutto inappropriati a studiare i fenomeni vitali. Né l’idea di costruire una metodologia scientifica unificata ha mai sortito risultati rilevanti. Casomai, ha riproposto il più piatto riduzionismo, per esempio attribuendo un ruolo esclusivo all’approccio logico-matematico.
Comunque, tutto ciò è materia di discussione tra gli addetti ai lavori. Sostenere l’approccio della “complessità” e dell’“emergenza” è legittimo, ma farlo uscire dal recinto del dibattito specialistico per farne addirittura un programma di riforma dell’istruzione scientifico-tecnologica è francamente eccessivo. E tale apparve alle Società ed Associazioni dei fisici e dei chimici, secondo cui, in tal modo, si finiva col negare di fatto «all’insegnamento scientifico la possibilità di svolgere un compito significativo nella formazione culturale degli studenti». Da cui la richiesta di mantenere distinti gli insegnamenti scientifici.
È vero che, alla fine, l’impatto delle “scienze integrate” sugli istituti tecnici è stato smorzato ma la formulazione delle indicazioni di insegnamento ha conservato quel carattere ideologico, aggravato dal gergo didattico-burocratese basato sul riferimento alla solita trimurti delle “conoscenze-competenze-abilità”, che si risolve in litanie prive di fantasia e di libertà culturale. È innegabile che si sia prodotto un notevole disagio tra gli insegnanti, molti dei quali sono fortemente disorientati; e che un analogo disorientamento si sia prodotto tra le famiglie: il profilo degli istituti tecnici è apparso molto più opaco e incerto di quanto fosse in precedenza.
Del resto, se si guarda alle nuove Indicazioni nazionali per i Licei, non c’è dubbio che proprio in esse si trova espresso molto meglio un indirizzo scientifico-tecnologico adeguato e moderno. Qui l’esigenza di mantenere le distinzioni disciplinari si coniuga con uno sforzo originale di stabilire rapporti interdisciplinari. Le innovazioni scientifiche si coniugano con l’enunciazione trasparente dei ponti che possono essere gettati tra matematica, fisica, scienze naturali, informatica, e anche con le scienze umane.
Se si vogliono fare polemiche vetuste si rischia di non vedere che la situazione non è tanto brutta come la si dipinge: l’interesse per gli indirizzi scientifico-tecnologici c’è, ed è stato sostenuto da una buona riforma dei Licei, come è dimostrato dal successo dei Licei scientifici, guarda caso proprio nell’indirizzo “scienze applicate”.
Naturalmente, questo non risolve l’enorme problema degli istituti tecnici e professionali, la cui funzione non può essere surrogata in alcun modo. Ma anche gli ambienti industriali, che soffrono di questa situazione e giustamente se ne lamentano, dovrebbero riflettere all’opportunità di non affidarsi a ideologie costruttiviste che ormai fanno acqua da tutte le parti.
(Il Giornale, 21 novembre 2010)
sabato 21 maggio 2011
Quelli che la scuola non si può criticare
Un collaudato metodo per screditare le posizioni altrui è ignorare gli argomenti su cui poggiano, appiattirle su quelle estreme, e ignorare l’identità di chi le sostiene. È quel che sta accadendo nel dibattito sulla valutazione innescato dalla vicenda dei test Invalsi. Per screditare chi critica la via che si sta imboccando sulla valutazione lo si addita come avversario di ogni forma di valutazione, come il membro di una corporazione che si difende dal “merito”. Il titolo dell’articolo di Maurizio Ferrera (Corriere della Sera, 16 maggio), che forse neanche l’autore condivide, è un esempio di questo metodo: «Specialisti nell’annullare le riforme (altro che meriti e qualità)». Nell’articolo si deplora che “autorevoli intellettuali” stiano “delegittimando culturalmente” le riforme criticando i test e, sul fronte della ricerca scientifica, i sistemi bibliometrici. Sappiamo bene, si dice, che nei paesi all’avanguardia è in corso un dibattito per “raffinare e calibrare” gli strumenti utilizzati, ma noi, che arriviamo ultimi, non possiamo sottilizzare.
Bene, ma all’estero il dibattito non verte sul “raffinamento”, bensì sull’opportunità di un cambiamento totale di direzione. Sono mesi che tento di trasmettere il contenuto di questo dibattito, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Un anno fa alcune tra le massime istituzioni mondiali in tema di numeri hanno prodotto un documento (“Citation Statistics”, reperibile in rete) che demolisce il sistema bibliometrico. Uno scienziato autorevole come Douglas Arnold (presidente di SIAM, Society for Applied and Industrial Mathematics) ha chiesto la sospensione (non il calibramento) della bibliometria accusandola di distruggere l’integrità scientifica e ha rincarato la dose con un articolo intitolato “Numeri scellerati”. Un anno fa, tutte le riviste di storia e filosofia della scienza hanno redatto un manifesto contro la bibliometria. E potrei continuare.
Sul fronte della scuola non è lecito ignorare le denunce dei disastri prodotti dalle ideologie dell’autoapprendimento e dell’insegnante come passacarte delle tecnologie educative e valutative confezionate da improbabili “esperti”: critiche avanzate da personalità come Laurent Lafforgue (in Francia) o Alicia Delibes (in Spagna). Non è lecito ignorare il recentissimo libro (“The Death and Life of the Great American School System) di una protagonista delle riforme statunitensi dell’istruzione, Diane Ravitch, che non parla di “ritocchi” ma di fallimento del sistema dell’“accountability” e del “testing”. Ravitch non dice che i test sono inutili ma che vanno usati con grande moderazione e non dando a credere che abbiano validità scientifica e che siano «oggettivi». Invece qui si ripete tutti i giorni, con una sordità pari alla supponenza, che il sistema dei test permette una “misurazione oggettiva” delle competenze e del loro valore aggiunto. Si parla pomposamente di “standardizzazione scientifica”, il che fa ridere chi sappia che cosa sia una misurazione scientifica.
È il tipico modernismo in ritardo all’italiana, vera forma di provincialismo: adottare le riforme costruite qualche decennio prima altrove, con un dogmatismo giustificato in nome del nostro ritardo. Così fu per la riforma della scuola primaria, quando, ad esempio, si decise di introdurre la “teoria degli insiemi”, seguendo un modello che in Francia stavano precipitosamente abbandonando, e così ancor oggi siamo afflitti da questa pessima eredità.
In realtà, la questione è di politica culturale. Il modello di una scuola basata sulla centralità dei contenuti e della figura dell’insegnante, e su un rigoroso sistema di valutazione che ruoti attorni alla pratica delle ispezioni e così inneschi un processo di crescita culturale, non appartiene solo alla tradizione “conservatrice” e “di destra”. Appartiene anche, e fortemente, a una tradizione di sinistra. Basti pensare a quanto scriveva uno degli intellettuali comunisti più innovativi in tema di istruzione, Lucio Lombardo Radice. Rivendicando il valore rivoluzionario dei «metodi attivi nell’educazione della mente», ammoniva che «secondo certe tendenze “estremistiche” e superficiali, oggi purtroppo di moda nel nostro paese, “attivismo” significherebbe invece liquidazione di ogni sforzo, di ogni noia, di ogni sistematica disciplina mentale e con ciò di ogni organico sapere. Si esalta una scuola nella quale è sempre domenica, nella quale ad ogni ora si celebra la festa dello spirito creatore, nella quale ogni attività è individuale, libera, piacevole, giocosa. Al bando la geografia sistematica: basta organizzare un viaggio, reale o ideale, della classe in un’altra regione studiandone le carte, le comunicazioni, i prodotti, i costumi. Morte alla scienza classificatoria: tre mesi di osservazione ed esperimenti sulle lumache formerebbero lo spirito scientifico assai più di un’organica visione (in buona parte necessariamente libresca, o frutto di lezioni ex cathedra) delle grandi linee della evoluzione delle specie. Basta con le date, colla successione cronologica e le periodizzazioni storiche; episodi, racconti, immedesimazione con pochi “eroi” darebbero il vero senso della storia. Si va molto al di là della confusione tra due momenti educativi: si arriva ad annullarne uno, quello basilare, riducendo la scuola a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale […]». E difendeva lo «studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere».
Si chiederà cosa c’entri questo con la valutazione mediante test. C’entra, eccome, per chi abbia esaminato attentamente la natura dei test proposti – e lo faremo analiticamente, se ne può star certi – e la devastante attività di addestramento al superamento dei test che ha messo in campo una pubblicistica da quiz molto al di sotto degli standard temuti da Lombardo Radice. Si tratta di quelle pratiche che, come denuncia la Ravitch, hanno minato la qualità della scuola americana, come hanno minato la qualità dell’insegnamento matematico in Finlandia. C’entra, perché tutto rientra nella sciagurata idea secondo cui quel che conta è solo la metodologia (“come” si pensa e non i contenuti).
Si diceva che il problema è di politica culturale. Una sinistra in crisi di orientamento si è rifugiata nel modello tecnocratico, come una “teologia sostitutiva”. La destra, afflitta dal solito complesso di inferiorità culturale, spesso si accoda. Così, l’unico indirizzo in campo resta sempre quello della “micidiale coppia” Berlinguer - De Mauro (secondo l’efficace definizione di Paola Mastrocola). Insistere su questa via, accoppiando procedimenti di valutazione automatizzata con l’ideologia dell’insegnante-facilitatore, della scuola “open space”, della distruzione dei contenuti a favore della tecnologia e della dittatura della metodologia, questo sì che è diabolico.
All’indirizzo “micidiale” trasversale deve contrapporsi il fronte del buon senso. Fa quindi piacere che il senatore Rusconi – con un “messaggio chiaro e forte” rivolto al suo partito, il Pd – dica che la qualità della scuola non la fanno computer e lavagne multimediali, bensì gli insegnanti. E, aggiungo, insegnanti “maestri”, insegnanti di qualità, non “facilitatori” passacarte; insegnanti da reclutare coi concorsi e poi valutati, non mediante assurdi parametri come il “valore aggiunto” di apprendimento, bensì sui contenuti, con un sistema ispettivo da costruire in modo meditato, tenendo conto dei pro e contro delle esperienze estere.
(Il Giornale, 17 maggio 2011)
Una buona notizia
Una buona notizia. In Svizzera il latino non verrà abolito nella scuola media e anzi tutti gli studenti dovranno studiarlo, almeno un'ora alla settimana, fino a tre ore per chi lo desidera.
Il sito dell'Adi (Associazione docenti italiani) si lamenta, imputando la "sconfitta" ala pressione delle classi agiate, ai nostalgici tradizionalisti della scuola di un tempo. Peccato che conosca tanti miei ex-compagni di scuola, figli di famiglie umilissime, che si sono fatti colti con la scuola umanistica e hanno asceso i gradi sociali diventano avvocati, scienziati o imprenditori di fama. Altro che "segregazione sociale larvata". Sarebbe una decisione "presa alla cieca, in base a criteri ideologici e a una concezione mai tramontata della cultura". Si lamenta che questa decisione sia stata presa nonostante a Ginevra vi sia una Facoltà di scienze dell'educazione più importanti d'Europa, senza sviluppare preventivamente alcuna "ricerca scientifica". Ormai basta mettere l'etichetta "scientifica" a qualsiasi cosa per renderla dignitosa, anzi indiscutibile. Come se nel mondo dei pedagogisti non ci fosse ideologia. Come se le teorie "moderniste" della scuola dell'autoformazione, delle "menti ben fatte e dei test non fossero ideologia. Concezioni tramontate della cultura? È da vedersi. Di certo, quelle teorie "moderniste" più che il tramonto non hanno mai conosciuto l'aurora. Nel mondo della cultura propriamente detta, s'intende, in quello dell'ideologia sono sorte, senza alcun dubbio. In quel mondo tutto può sorgere e nulla tramonta.
martedì 17 maggio 2011
Sbornia dei test, un libro americano per far tesoro degli errori altrui
Diane Ravitch è stata una protagonista delle politiche dell’istruzione durante le presidenze Bush sr e Clinton. È in buona parte a lei che si debbono le riforme centrate sul principio dell’“accountability”, sull’uso massiccio dei test e ispirate ai principi del “total quality management”. Ora ha tracciato un bilancio delle sue esperienze in un libro che è un best-seller negli USA: “The Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are Undermining Education” (Basic Books, 2010). La conclusione è drastica: il modello manageriale è fallito, il testing da strumento è diventato un fine in sé, l’accountability si è rivelata uno slogan “meccanicistico antitetico a una buona educazione” e ha fatto crollare la qualità delle scuole. Insomma, una revisione critica (e autocritica) totale. Ravitch esalta il curriculum e l’istruzione e fa affermazioni da far rabbrividire i fautori dell’autoformazione e dell’insulsa formula secondo cui la scuola deve insegnare come pensare e non a cosa pensare: “una persona bene educata ha una mente ben fornita, plasmata dalla lettura e dalla riflessione sulla storia, la scienza, la letteratura, le arti e la politica, ha appreso come spiegare le idee e come ascoltare rispettosamente quelle altrui”.
In questi giorni di roventi polemiche nostrane sui test Invalsi sarebbe bene, invece di affondare nella provinciale contrapposizione tra misoneismo e supina esaltazione di quel che viene da “fuori”, riflettere criticamente su questo libro. Sarebbe bene, invece di ripetere a pappagallo lo slogan della “misurazione oggettiva”, leggere le pagine di Ravitch in cui, dopo aver difeso l’utilità dei test per ottenere stime globali sul sistema dell’istruzione, ammonisce che è un errore credere che “i test abbiano validità scientifica, come quella di un termometro o di un barometro, e che siano oggettivi”. “I test non sono confrontabili con gli standard dei pesi e delle misure” e spesso sono intrisi di errori e fraintendimenti “umani”. Quando ci è occorso di dire che la formula della “misurazione oggettiva” è senza fondamento, siamo stati presi a male parole. Ora che queste cose le dice una protagonista del movimento dell’accountability e del testing forse ci si deciderà a ragionare e ad approfittare del vantaggio di arrivare ultimi a costruire un buon sistema di valutazione.
Il libro di Ravitch fa anche una storia delle riforme dell’istruzione negli USA. Si sofferma sul rapporto dell’era reaganiana ANAR (a Nation at Risk) che proponeva un ritorno al rigore e ai contenuti “classici” dopo l’ubriacatura sessantottina: un programma apprezzato da una “democratica conservatrice” come Ravitch, che lo definisce fondato ancor oggi come nel 1983. Ma il tentativo di definire i National Standards fu gestito dalla sinistra con i principi del politicamente corretto, mirando soprattutto a riscrivere la storia americana, e cadde sotto l’attacco dei repubblicani che però non seppero proporre una linea alternativa, abbandonando lo spirito del rapporto ANAR e scegliendo la linea manageriale. Essa fu ripresa alla grande da Clinton, sviluppata da Bush jr col programma “No Child Left Behind” e oggi da Obama. Si è creata così una continuità trasversale che ha messo la gestione dell’istruzione nelle mani di un ceto di esperti e pedagogisti. Anche Margaret Thatcher confessò di aver fallito non riuscendo a tener testa alle pressioni di quel ceto. È una situazione che, con tutte le differenze, richiama la nostra. Qui, una sinistra priva di riferimenti, dopo aver rigettato la visione gramsciana dell’istruzione e persino l’ammonimento di un pedagogista riformatore come Lucio Lombardo Radice a non perdere il senso del rigore nello studio, ha scelto come “teologia sostitutiva” la linea condannata dalla Ravitch. Per parte sua, la destra ha esibito la sua debolezza culturale non riuscendo a sostanziare l’idea di rifondare l’istruzione su valori culturali fondativi e ripiegando sulla linea tecnocratica. Si perpetua così un trasversalismo politico fondato su un mito dell’“estero” che ignora le riflessioni critiche americane, finlandesi, francesi o spagnole. La solita “modernità in ritardo” all’italiana.
(Il Foglio 12 maggio 2011)
venerdì 13 maggio 2011
LA SCUOLA DEI SAPERI FINITA IN UN QUIZ
Il dibattito sorto attorno ai test Invalsi rischia di essere inquinato da tre fattori: corporativismo, estremismo, ideologia. Sarebbe vano negare che nel sistema italiano dell’istruzione esistano opposizioni forti e pregiudiziali a qualsiasi forma di valutazione, la quale va invece fatta, eccome. Il problema è costruire modalità ragionevoli e meditate. È indubbio che il ricorso ai test per avere un’idea generale e aggregata dell’esistenza di capacità minime non può essere contestato a priori e certe opposizioni estreme non hanno ragion d’essere. Le difficoltà nascono quando si vuol attribuire alla rilevazione mediante test un ruolo di gestione del sistema, fino a farne il nucleo di un nuovo modo di fare didattica e fino a far credere che si possa stimare il “valore aggiunto di conoscenza e competenza” dei singoli istituti o addirittura dei singoli insegnanti e dei singoli alunni. Né può dirsi che questo rischio non vi sia. Al contrario, esso esiste sia soggettivamente che oggettivamente. Difatti, è ben attiva un’ideologia che ritiene che la scuola debba essere trattata come un’azienda con i principi dell’“accountability” e dell’uso massiccio dei test, disinteressandosi dei contenuti dell’insegnamento (sulla base del principio strampalato che conta come si pensa e non cosa si pensa) e che ritiene addirittura che la didattica debba essere strutturata in funzione del superamento dei test (il cosidetto “teaching to the test”). Questa ideologia proclama la necessità di sostituire al giudizio del docente la “misurazione oggettiva” degli apprendimenti mediante i test. Si dice che il giudizio dell’insegnante è viziato dalle sue visioni soggettive e persino dal suo stato personale, da un mal di pancia mattutino o da una lite con la moglie. Però, a giudicare da certi test, si direbbe che chi li ha pensati fosse in preda a un’emicrania acuta. D’altra parte, di che stupirsi? Il test è pensato da un “soggetto”, con le sue idee, le sue idiosincrasie e le sue competenze o incompetenze e non può fornire standard oggettivi e indiscutibili come il metro o la bilancia. Queste cose vengono dette ormai da molte personalità autorevoli, a partire dagli Stati Uniti, ma da noi si fa finta di nulla gettandosi a capofitto a copiare ciò che altrove mostra già la corda.
Si diceva che i test sono utili ad accertare livelli minimi di capacità di calcolo matematico o di competenze grammaticali o sintattiche. Appena si va oltre si entra su un terreno scivoloso e aperto a tutte le contestazioni. In questi giorni nelle famiglie e tra gli studenti si commenta tra il divertito e l’ironico, il contenuto talora risibile di certi test, sia di quelli “ufficiali” che di quelli proposti nella fase di addestramento. In alcuni casi, si tratta di quesiti di assoluta banalità (anche nel caso delle medie superiori), in altri di indovinelli sconcertanti. Ho provato a proporre – suggerisco di rinunciare all’uso del termine ridicolo “somministrare”, che evoca l’immagine della purga – ad alcuni colleghi matematici di professione un test di geometria vantato come esemplare da alcuni esperti. Alcuni l’hanno risolto con un’occhiata, altri sono rimasti disorientati … La ragione è risultata chiara. Quel test, come quasi tutti quelli di geometria, non comportava conoscenze matematiche specifiche, bensì la messa in opera di intuizioni, spesso meramente visive, che non sono un requisito caratteristico di una persona competente. Siamo all’enigmistica, neppure a quella delle parole crociate che richiede almeno conoscenze generiche, e anche un buon matematico non è necessariamente un buon risolutore di enigmi. Qui si scontano due difficoltà: la prima è che non esistono più “programmi” e quindi non esistono conoscenze imprescindibili cui fare riferimento nella formulazione del test; la seconda deriva dalla versione estrema dell’ideologia delle competenze, per cui contano soltanto capacità generiche indipendenti dalle conoscenze. Naturalmente non tutti i test sono così privi di retroterra conoscitivo da ridursi all’enigmistica e all’indovinello, ma molti hanno questa discutibile natura.
Veniamo ora all’altro problema: quello della difficoltà di usare i test come strumento di “misurazione oggettiva” del “valore aggiunto” di apprendimento. Il modo più semplice per ottenere una simile misurazione oggettiva sarebbe di proporre a una classe (o istituto) lo stesso test all’inizio e alla fine dell’anno e misurare l’incremento delle risposte esatte: sarebbe una soluzione ridicola perché tutti in seconda battuta saprebbero risolverlo… Bisognerebbe allora proporre un nuovo test di pari difficoltà, misurando l’incremento delle risposte esatte, oppure proporre un test più difficile. Ma nessuna persona seria sosterrà che sia possibile determinare in modo oggettivo se un test ha lo stesso grado di difficoltà di un altro, o determinare che il test A è una volta e mezzo più difficile del test B. È vano tentare di nascondere la soggettività (nella costruzione dei test e nel giudizio circa il loro valore e la loro difficoltà) come la spazzatura sotto il tappeto con la scopa della retorica.
Ma c’è un problema ancor più grave, ed è il pericolo che prevalga l’ideologia estrema che vuole trasformare la didattica in addestramento a superare i test. Si poteva sperare che questo rischio fosse lungi dal realizzarsi. Invece, si è assistito al dilagare di un numero impressionante di “eserciziari” e libretti di addestramento al superamento dei test Invalsi, che hanno invaso le scuole e ai quali molti insegnanti non sono riusciti a sottrarsi interrompendo la didattica per addestrare gli studenti a superare i test e far fare bella figura all’istituto, all’insegnante e alla scuola. Ora, già la qualità dei libri circolanti nella scuola italiana, soprattutto nel primo ciclo dell’istruzione, non è brillante. Con l’alluvione di eserciziari di addestramento si è verificata un’ulteriore avvilente discesa verso il basso. Per questo, le voci che si sono levate ad ammonire sui rischi del ricorso smodato e acritico ai test, come quella di Luca Ricolfi, non hanno peccato di allarmismo e vanno ascoltate. Il “teaching to the test” non deve entrare assolutamente nella scuola italiana.
Sia ben chiaro: non si tratta di negarsi alla valutazione, ma di ricordare che il modo migliore per far fallire ogni tentativo di introdurla è procedere in modo acritico e dogmatico. Un approccio ragionevole su cui aprire una riflessione costruttiva potrebbe essere quello di considerare un ricorso molto limitato al sistema dei test per valutare tendenze generali aggregate, e fondare piuttosto il sistema di valutazione su procedimenti ispettivi le cui modalità possono essere attentamente costruite riflettendo sui pro e i contro di altre esperienze già collaudate all’estero.
(Il Messaggero, 12 maggio 2011)
Commento aggiunto: leggiamo che il segretario della UIL Scuola Di Menna ha lamentato la gestione burocratica dei test e il fatto che soltanto il 20% delle scuole è stato coinvolto in una gestione propedeutica dei test. E per fortuna!! Ci mancava solo che tutte le scuole si mettessero a fare addestramento ai test! Se si voleva una prova che certi sindacati non capiscono niente della posta in gioco e farebbero meglio a tacere, eccola servita.
Commento aggiunto: leggiamo che il segretario della UIL Scuola Di Menna ha lamentato la gestione burocratica dei test e il fatto che soltanto il 20% delle scuole è stato coinvolto in una gestione propedeutica dei test. E per fortuna!! Ci mancava solo che tutte le scuole si mettessero a fare addestramento ai test! Se si voleva una prova che certi sindacati non capiscono niente della posta in gioco e farebbero meglio a tacere, eccola servita.
venerdì 6 maggio 2011
BESTIARIO MATEMATICO N. 13
Un insegnante osserva che non capisce perché mai l’Ordine delle operazioni finlandese, che ho criticato nel mio articolo sull’insegnamento della matematica in Finlandia (post precedente) - o meglio, hanno criticato i matematici finlandesi... -, sia tanto scandaloso e distrugga l’algebra.
«È quel che faccio con i miei studenti», ha commentato. Per insegnare loro quanto fa 2x + 3x chiedo quanto fa 2mele + 3mele. “5mele”, rispondono. «Allora dico loro di mettere x al posto di “mela” e il gioco è fatto». Allo stesso modo, l’insegnante dice che non vede nulla di male a lasciar perdere il simbolo “=”, perché tanti passaggi da una parte all’altra confondono le idee e allora tanto vale meglio usare una visione della matematica «algoritmica e tabellare». Tanto – aggiunge – «noi dobbiamo sviluppare competenze e abilità».
Benissimo, anzi malissimo. Benissimo perché così si è data una dimostrazione perfetta di come la didattica della matematica per competenze distrugga la matematica e sviluppi il caos logico nella mente dei ragazzi. Malissimo… appunto per aver ottenuto questo esito nefasto.
Perché malissimo? Per il semplice motivo che “mela” non è affatto la stessa cosa di “x” e non si può mettere “x” al posto di “mela”. Difatti, “x” è sempre e comunque un NUMERO e NON UN OGGETTO!... “x” è un NUMERO di mele, di banane o di autocarri o di quel che volete, non è “la mela”.
La soluzione dell'equazione 2x = 4 non è mela = 2 - sarebbe una semplice bestialità... - bensì è "il numero delle mele è 2" !.........
La soluzione dell'equazione 2x = 4 non è mela = 2 - sarebbe una semplice bestialità... - bensì è "il numero delle mele è 2" !.........
Come potrei giustificare un passaggio come: 2x + 2y = 2(x + y) nella logica finlandese e di quell'insegnante? (Passaggio che, è difficile negarlo, è non di rado necessario). Lo dovrei giustificare dicendo che 2mele + 2banane è la stessa cosa di 2 (mele + banane)?... Il concetto della somma di mele e banane è privo di senso. La somma di oggetti non si può fare, tutt’al più si possono fare incroci botanici… ma non c’entra niente… Invece l’espressione 2x + 3y ha perfettamente senso in quanto sia 2 che x e y sono numeri. Perciò ha senso sommarli e fare una manipolazione come 2x + 2y = 2(x + y).
Questa è l’algebra, bellezza… avrebbe detto il celebre attore americano…
Si può benissimo partire da un problema concreto in cui si deve determinare il numero di certe “cose”, numero sconosciuto che denotiamo con simboli come x, y z, ecc. Poi, una volta scritte le relazioni che intercorrono tra questi numeri incogniti, e dimenticato completamente il significato che vorremmo attribuire ai simboli x, y,..., mettiamo in opera tutta la potenza delle manipolazioni algebriche e otteniamo il risultato che ci dice che, poniamo, x = 5, y = 8, ecc., ovvero il numero delle mele è 5 e il numero delle banane è 8. Insomma, l’algebra è un necessario intermezzo di calcolo tra la formulazione concreta iniziale di un problema e l’interpretazione finale.
Le manipolazioni si possono mettere in opera in quanto dipendono dalle proprietà fondamentali dell’aritmetica – commutatività, associatività, distributività, ecc. ecc. – e hanno senso proprio in quanto si tratta di numeri e non di oggetti. Perciò, stabilire quelle proprietà è assolutamente necessario, imprescindibile.
Questa è la sostanza di quella grande creazione che è l’algebra, che consente di risolvere in modo meccanico una quantità di problemi insolubili in via diretta. Generazioni di ragazzi e uomini, dopo coloro che faticosamente l’hanno inventata, l’hanno saputa usare e perfezionare, e ora l’umanità sarebbe diventata così deficiente da non essere più in grado di capirla, non dico di usarla?... Non credo che occorra avere una simile sfiducia nella mente dei nostri giovani.
Purtroppo è peggio di così!... È peggio della sfiducia. È la presunzione di aver trovato un nuova visione, un nuovo approccio più corretto, mentre è una semplice corbelleria. Si ha la presunzione di distruggere l’algebra, e anzi la matematica, e di sostituirla con una matematica algoritmica e tabellare, in nome di un preteso progresso: la didattica per competenze e abilità!...
Tutta la miseria di questo approccio si manifesta nella sua geometrica impotenza concettuale, che non soltanto crea studenti disabili ma distrugge la cultura degli insegnanti. Mi guardo bene dall’offendere insegnanti che pensano a quel modo, ma dico loro amichevolmente e anche in modo accorato: ripensateci, riflettete. State mettendo in opera un disastro didattico e così storpierete le menti dei ragazzi soltanto per dar retta a qualche pedagogo ignorante che vi vuol convincere che così sarete più “avanzati”.
Sia chiaro, Si può anche sostenere con fondamento che le manipolazioni dell’algebra sono repulsive, meccaniche (è la parola che ho usato prima) e spesso conducono a una didattica manipolativa e ripetitiva. Infatti, l’errore didattico peggiore che si può fare è anteporre l’insegnamento dell’algebra a quello della geometria e dell’aritmetica. Soltanto dopo aver studiato e compreso a fondo geometria e aritmetica ha senso ricorrere alla potenza manipolativa dell’algebra. Ma allora si è abbastanza maturi, e si è entrati nel cuore della “sostanza” della matematica – numero e spazio – per apprezzare l’utilità dell’algebra nel risolverne i problemi. Come per primo ha insegnato Descartes nella sua “Géométrie”. E come hanno fatto generazioni e generazioni dopo di lui, creando strumenti di straordinaria potenza. Oppure, in nome dell'ideologia delle "competenze", dovremo regredire a un’algoritmica più rozza di quella cinese medioevale, una matematica che i cinesi per primi si guardano bene dall’insegnare e praticare?
Quanto alla soppressione del simbolo = , stendiamo un velo pietoso.
Quanto alla soppressione del simbolo = , stendiamo un velo pietoso.
domenica 1 maggio 2011
IL BLUFF DELLA MATEMATICA FINLANDESE (e quel che insegna sui test)
È ormai un luogo comune indicare la Finlandia come un modello di scuola innovativa, di successo e che riesce a conquistare le prime posizioni nelle classifiche internazionali OCSE-PISA, in particolare nella matematica; e quindi come un modello da seguire per avere successo nelle valutazioni. Ma proprio questo esempio dimostra quanto lo slogan delle “valutazioni oggettive” e della “misurazione delle qualità” sia fondato sulla sabbia.
Diverse recenti analisi sviluppate da matematici e studiosi di problemi dell’insegnamento finlandesi (tra cui ricordiamo articoli pubblicati dal 2006 in poi da G. Malaty, E. Pehkonen, O. Martio e altri) mettono in luce una realtà molto diversa, Come intitola un appello firmato nel 2006 da Kari Astala, professore all’università di Helsinki, e da più di altri duecento professori, «le classifiche Pisa dicono soltanto una verità parziale circa le abilità matematiche dei bambini finlandesi», mentre, di fatto, «le conoscenze matematiche dei nuovi studenti hanno subito un declino drammatico». I matematici K. Tarvainen e S. Kivelä, in un articolo intitolato «Gravi difetti nelle abilità matematiche finlandesi» hanno sottolineato che gran parte dei firmatari dell’appello di Astala sono professori di politecnici o università tecniche e quindi «non insegnano una matematica “accademica”, bensì una matematica richiesta nelle pratiche tecniche e nelle scienze dell’ingegneria. Da parte sua, George Malaty ha osservato che «in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo in PISA se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche». Da più parti è stato severamente osservato che le varie riforme introdotte in Finlandia hanno finito col generare un “oggetto didattico” che con la matematica propriamente detta ha in comune soltanto il nome e che serve a superare bene i test OCSE-PISA ma ha avuto effetti disastrosi sulla cultura matematica diffusa, oltre che su un declino accertato della conoscenza superiore nelle università e nei politecnici.
L’insegnamento della matematica in Finlandia ha conosciuto varie riforme. In sintesi: la riforma “New mathematics” implementata dal 1970 al 1980, la “Back-to-Basics” (1980-1985), seguita da altre due riforme che hanno prodotto un orientamento sempre più deciso verso un approccio pratico, e cioè “Problem solving” (1985-1990), e la più radicale, “Everyday mathematics” (1990-95). La tendenza è stata quindi verso un approccio concreto ispirato a una visione puramente operativa della matematica, rivolta a scopi pratici e tendente a gravitare attorno al calcolatore, per giunta visto in un senso molto radicale, e cioè non come ausilio bensì come modello di riferimento. Ciò ha condotto, come vedremo, a sostituire le procedure di calcolo codificate nell’aritmetica e nell’algebra con quelle ideate ad hoc per far funzionare la macchina.
Sintetizziamo rapidamente le caratteristiche dell’“oggetto didattico” detto “matematica” che queste riforme hanno man mano costruito.
In primo luogo, non si fanno quasi più dimostrazioni. L’insegnante si limita a trasmettere i risultati come manuali d’istruzioni senza proporne quasi mai la prova logica. È superfluo dire che questa scelta, oltre a produrre un tipo di insegnamento nozionistico – che soltanto un estremo semplicismo rende accettabile – atrofizza le capacità logico-deduttive dello studente. Inoltre, insegnare la matematica senza dimostrazione è come pretendere di addestrare uno scultore senza mai mettergli in mano uno scalpello.
In secondo luogo, la geometria è quasi sparita dall’insegnamento, il che non stupisce perché la geometria senza dimostrazioni non ha senso. Questa sparizione produce un’altra conseguenza molto negativa: l’atrofizzazione delle capacità di intuizione spaziale che sono stimolate in modo decisivo dal pensiero geometrico.
Veniamo ora agli effetti dell’esasperata tendenza a vedere la matematica come un insieme di procedure di “problem solving”. Per inchiodare nella testa all’allievo questo approccio, fin dalle elementari le operazioni dell’aritmetica sono introdotte in modo puramente grafico, ovvero strettamente pensate come un procedimento di incolonnamento delle cifre e di applicazione di regole meccaniche. È noto come la tendenza a concepire le operazioni in termini di “incolonnamento” si è fatta strada anche nel nostro insegnamento primario, con effetti pessimi. Difatti, identificare un’operazione con una rappresentazione grafica impedisce di comprenderne il concetto e svilisce il ruolo del calcolo mentale. Ma nella scuola finlandese questa discutibile tendenza è arrivata al punto di escludere il simbolo “=” a favore della lettera “V” che sta per “Vastaus”, in finlandese “Risultato”. L’alunno è chiamato a incolonnare i dati e a scrivere il risultato in un apposito riquadro denotato con il simbolo “V”. Come osservano gli autori citati, alla fine del percorso primario un bambino finlandese non conosce il simbolo e il concetto di uguaglianza e concepisce pertanto ogni espressione matematica come la richiesta di ottenere un “risultato”.
La sostituzione del simbolo “=” con quello di “risultato” implica quindi l’identificazione del concetto di “uguaglianza” con quello di risultato, e questo è talmente volgare e ignorante da non meritare commenti, se non l’osservazione che così vengono cancellati più di duemila anni di matematica e di logica per tornare allo stadio della matematica pratica, approssimata e puramente operativa dei babilonesi. Con tutto il rispetto per le conquiste di questi ultimi, straordinarie in relazione con i tempi, far fuori il grandioso impianto concettuale della matematica da Euclide in poi non è un progresso, bensì un autentico imbarbarimento.
Viste queste premesse “anti-concettuali”, era inevitabile che nella scuola finlandese venisse smantellata anche l’algebra. Così, non si insegnano più le proprietà fondamentali dell’aritmetica: associatività, distributività, commutatività, ecc. Al loro posto viene somministrato un insieme di istruzioni per l’uso detto “Ordine delle operazioni”, chiaramente copiato dalle procedure usate dai computer. Prima occorre calcolare le espressioni tra parentesi, poi moltiplicare, poi si dividere, infine sommare o sottrarre da sinistra a destra. Come osserva Malaty, il risultato è che uno studente non è in grado di scrivere correttamente un testo matematico e questo produce problemi gravissimi all’università. Di fatto, l’“Ordine delle operazioni” mette in mora l’algebra. Difatti, non si saprebbe come operare con espressioni del tipo 2x + 3y + 3x + y, visto che non sono date regole per associare e distribuire i termini. Il modo di cavarsela (e di smantellare l’algebra) è il seguente. Dapprima si osserva come l’esperienza suggerisca che la somma di due mele e di tre mele sia cinque mele, ovvero 2mele + 3mele ha come risultato 5mele. Analogamente 2kg + 3kg ha come risultato 5kg e 2metri + 3metri valgono 5metri. Insomma, l’esperienza suggerisce che è possibile sommare grandezze omogenee e quindi in generale calcolare 2x + 3x ottenendo 5x. Ma, in tal modo, x non è più il simbolo algebrico di un numero bensì il simbolo di un oggetto. Pertanto, immaginando che nell’espressione di partenza x sia una mela e y una banana, se ne conclude che l’espressione 2x + 3y + 3x + y vale 5x + 4y (5mele + 4 banane). Inutile dire che in tal modo l’algebra è completamente distrutta, sostituita da un insieme di procedure pratiche basate su analogie empiriche di valore assai inferiore alle manipolazioni che venivano fatte prima degli Arabi. Tralasciamo, per non entrare in tecnicismi, molte altre scelte che, nell’intento esasperato di rendere tutto molto “concreto”, introducono veri e propri errori.
Lo smantellamento non si ferma qui e investe direttamente anche l’aritmetica. Abbiamo già parlato del modo di pensare le operazioni. Ma il disastro peggiore di tutti è la sostanziale abolizione del concetto di frazione. Difatti, nell’insegnamento finlandese della matematica i numeri sono concepiti soltanto in espressione decimale, e questo per ovvi motivi, in quanto è soltanto in questa forma che possono essere digitati su un calcolatore. Ma questo rappresenta un’autentica catastrofe, perché il concetto di numero non si identifica con la sua espressione decimale che, nella maggior parte dei casi ne rappresenta soltanto un’approssimazione: 1/3 non è la stessa cosa di 0,3333333… La forza incomparabile della matematica sta nel poter manipolare in modo esatto dei numeri dati al di là della loro rappresentazione numerica decimale (per lo più approssimata) ed è questo che permette alla matematica di ottenere formulazioni generali che servono a rappresentare le leggi naturali. Si tratta quindi di qualcosa che ha un valore eminentemente “concreto”: la fisica e le nostre scienze applicate non esisterebbero senza la matematica “esatta”, cui è subordinato il calcolo numerico approssimato. I Greci si attennero alla geometria per perseguire l’ideale di esattezza che non riuscivano a realizzare nei numeri. Ci sono voluti secoli per sviscerare la struttura dei numeri e riuscire a pensare “numeri” come 1/3 al di là della loro approssimazione decimale. Ora si propone nientemeno che cassare tutto questo.
Racconta Martio (in un suo articolo pubblicato su “The Teaching of Mathematics nel 2009) che chi entri oggi in una macelleria finlandese e chieda 3/4 di kg di carne non viene capito: occorre dire 750 grammi. E osserva: «La matematica non riguarda soltanto i professionisti. La matematica è usata sempre di più nelle professioni ordinarie e i problemi connessi sono diversi da quelli dei test PISA. In Finlandia, come in molti altri paesi, il curriculum matematico include concetti e abilità che vi sono stati messi perché qualcuno ha ritenuto che fossero utili. Nella maggior parte dei casi il tempo ha dimostrato che queste abilità speciali non corrispondono più alle richieste della società. L’architettura del curriculum finlandese e le pratiche di insegnamento richiedono considerevoli cambiamenti per venire incontro alla sfida». Come spesso accade, confondendo la concretezza con l’empirismo si distruggono le basi stesse di ciò che rende una scienza come la matematica efficace sul piano concreto. Così l’”Everyday mathematics” rischia di diventare poco utile, salvo per operazioni di livello minimo, come quelle alla cassa del macellaio.
Nel 2003 sono state svolte ricerche per valutare gli effetti del curriculum matematico finlandese proponendo a ragazzi di 15-16 anni alcuni test (diversi da quelli OCSE-PISA) che erano stati già proposti nel 1981. Ecco alcuni risultati.
La moltiplicazione (1/2)·(2/3) che il 56,4% riusciva a fare nel 1981, veniva eseguita correttamente nel 2003 soltanto dal 36,9%. Ancor più impressionante il crollo relativo alla corretta esecuzione della divisione (1/5):5 : si passa dal 49,2% al 27,5%. Mentre nel 1981 il 55,1% riusciva a giustificare il fatto che (592)3 = (593)2, nel 2003 soltanto 31,7% riusciva a farlo. Potremmo continuare. Ma forse il risultato più devastante è l’esito (nel 2003) delle risposte alla domanda «spiegate con parole vostre il significato di (4/5)·5». Soltanto il 6,5% rispose correttamente a questa domanda e il 5,4% “quasi correttamente”. Il restante 88,1% diede risposte sbagliate o gravemente sbagliate.
Concludiamo qui con alcune osservazioni generali.
Sarebbe bene smettere una volta per tutte con il metodo di prendere come “prova scientifica” i test OCSE-PISA in modo cieco e acritico, senza preoccuparsi della loro sostanza, e su questa base fragile imbastire in modo apodittico considerazioni generali e impartire ricette e comandamenti. Gli “esperti” di didattica e di istruzione che non sono in grado di entrare nel merito farebbero bene a tacere una volta per tutte: il loro chiacchiericcio è una delle fonti principali dei guai dei vari sistemi dell’istruzione.
Inoltre, questo esempio – e moltissimi altri se ne potrebbero dare – dovrebbe suggerire di accantonare l’inconsistente slogan della “misurazione oggettiva” basata sui test. I test contengono una fortissima componente soggettiva di arbitrarietà, derivante dalle scelte e dalle visioni di chi le formula. In questo caso, come si è visto, derivante da una visione molto particolare della matematica, che nessuna persona competente potrebbe avvallare. Riempirsi la bocca delle parole “oggettivo” e “misura” dà un tono molto scientifico ma non è una cosa seria. L’autentica valutazione è qualcosa di infinitamente più complesso della misurazione della superficie di un appartamento. Essa coinvolge una gran quantità di aspetti qualitativi, spesso non quantificabili ma che possono essere analizzati e giudicati seriamente senza numeri, e tra i quali ha un posto centrale il contenuto della disciplina in oggetto. La valutazione ha senso soltanto se è concepita come un processo interattivo volto a produrre una crescita culturale. Ma se è gestita da “esperti” incompetenti a entrare nel merito si traduce in un autentico disastro.
(Il Foglio, 21 aprile 2011)
N.B.Sul giornale la formula (592)3 = (593)2 è stata riportata erroneamente come (592)3 = (593)2, per la difficoltà di mettere gli esponenti, e altrettanto erroneamente è stata ripresa da alcuni siti.
Questo post può essere legittimamente considerato come parte del Bestiario Matematico...
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