Non si potrebbe elogiare abbastanza il contributo che ha
dato la casa editrice Adelphi (con il ruolo fondamentale di Elisabetta Zevi) alla
diffusione in Italia della cultura ebraica. Ciò è avvenuto e avviene sia sul
terreno della saggistica (basti ricordare i tanti testi kabbalistici e sulla
Kabbalah, tra cui saggi fondamentali di Moshe Idel e Gershom Sholem) che sul terreno
della narrativa, circa la quale sarebbe troppo lungo fare un elenco di nomi.
L’ultima preziosa riscoperta è quella delle opere di Israel Joshua Singer,
fratello maggiore di Isaac Bashevis Singer, di questi meno noto ma di qualità
narrative per nulla inferiori: casomai è vero il contrario. Di I. J. Singer la
Adelphi ha pubblicato La famiglia
Karnowski, di cui abbiamo parlato su queste pagine circa un anno fa, e ora
un romanzo straordinario, Yoshe Kalb,
che fornisce la conferma che il tema che era al centro dei pensieri di I. J.
Singer, in modo quasi ossessivo, era quello dell’identità ebraica e dei suoi
molteplici volti. Ne La famiglia
Karnowski egli aveva esplorato i diversi strati possibili di questa
identità quando essa veniva a trovarsi a confronto con il mondo “esterno”:
dalla chiusura in sé stessa, ignorando gli eventi esterni in una sorta di
arresto del tempo reale; alla soluzione “mista”, e cioè conservare le
tradizioni in casa e, all’esterno, comportarsi come un qualsiasi cittadino
della nazione di appartenenza; fino a tutte le gradazioni dell’assimilazione
che culminano nel rigetto totale dell’ebraicità, nell’“odio di sé”.
Ispirandosi a una storia vera, in Yoshe Kalb (Yoshe il tonto), egli esplora il tema dell’identità ponendosi
del tutto all’interno della dimensione di una comunità ebraica che praticamente
non ha contatti con l’esterno, o comunque ininfluenti sul corso della sua
esistenza: una comunità galiziana austriaca centrata attorno ad alcune grandi
“corti” hassidiche, in particolare attorno a quella di uno dei protagonisti del
romanzo, Rabbi Melech di Nyesheve. Nella prefazione al romanzo il fratello
Isaac ricorda come Israel avesse dichiarato pubblicamente, verso la fine degli
anni venti, di non voler scrivere più in yiddish, che considerava “umiliante”,
e di aver tentato molte altre lingue, come l’ebraico, il tedesco, il francese,
per poi rinunciare non conoscendole abbastanza. Isaac ricorda che il rigetto
dello yiddish fu anche motivato dal fanatismo comunista che allora pervadeva
gli ambienti yiddish e che era costato a Israel violenti attacchi per essersi
permesso di criticare il regime sovietico. Sta di fatto che Israel Singer alla
fine decise di tornare allo yiddish e di scrivere questo romanzo che suscitò un
grande entusiasmo quando fu pubblicato a puntate sul newyorkese “Jewish Daily
Forward” diretto da Abraham Cahan. E sta di fatto che, se lo scrittore aveva
ritrovato con gioia la lingua madre come strumento espressivo privilegiato,
l’immagine che egli offriva del mondo yiddish nel romanzo era – è – desolante.
Se è concessa una battuta un po’ triviale, secondo i criteri del recente
discusso libro di Giulio Meotti, Israel Singer meriterebbe un posto d’onore
nella rassegna di ebrei odiatori di sé… Battute a parte, non c’è nulla nel
mondo della Galizia austriaca descritto da Singer che possa essere inventariato
come positivo: un rabbino Melech sovrano prepotente e intollerabilmente volgare
di una “corte” popolata di imbroglioni, approfittatori, straccioni e ladri, che
nulla caratterizza meglio dei rifiuti e della puzza che la pervadono in ogni
angolo; non un rito che non sia contrassegnato da grettezza e volgarità, non un
grammo di spiritualità. Né va meglio negli altri villaggi in cui il
protagonista si troverà ad errare, fino alla sua sparizione definitiva verso
una meta indefinita. È importante rilevare questo aspetto perché è una chiave
centrale del romanzo: per il protagonista, a fronte di un mondo bruto e
violento, l’unica identità ebraica possibile, e cioè autenticamente dotata di
spiritualità, è perdere l’identità personale, o accettare tutte quelle che gli vengono
attribuite, e avere come unico fine il rifugiarsi in ogni angolo possibile per
recitare i Salmi. Il dramma nasce quando il giovane Nahum viene estirpato dalla
sua elegante famiglia che vive al di là della frontiera in Russia, da un padre
rabbino intellettuale e da una madre sensibile e raffinata, per piombare in un
matrimonio combinato nell’ambiente della “corte” di Nyeveve. Qui inizia
l’estraniazione di Nahum fino a che avviene l’incontro magico con la ennesima
giovanissima moglie del rabbino Melech che, disgustata del suo vecchio e
insopportabile marito, provoca Nahum fino a far scoppiare una scintilla di
autentico amore. Ma la storia naufraga subito nella tragica morte di Malka. Inizia
così la fuga di Nahum che in un altro villaggio diviene Yoshe il tonto, sposato
a forza a Zivyah la figlia idiota dello scaccino, per un assurdo tentativo superstizioso
con cui la comunità tenta di placare un’epidemia. Ma Yoshe non ha altra cura
che leggere i Salmi ed è estraneo a qualsiasi evento, come un’ebete. Così, a un
certo punto fugge di nuovo e torna a Nyeveve dove viene riconosciuto come Nahum
ma presto scoperto come Yoshe il tonto. Di fronte allo scandalo della bigamia,
ammette di avere tutte e due le identità, o semplicemente di non sapere chi sia,
salvo rifugiarsi appena possibile nella lettura dei Salmi. Viene sottoposto a
violenze verbali e fisiche di ogni sorta, persino a un tentativo di linciaggio
e, alla fine, a un processo condotto da settanta rabbini che non approda a
nulla. Tutto è contrassegnato dall’incapacità assoluta di tentare di capirlo
come persona. Al “tonto” non resta che riprendere le sue peregrinazioni vestito
di cenci, mentre nei villaggi gli vengono chiuse le porte delle sinagoghe al
grido di «Demone! Anima morta!». Ma l’unica anima viva, l’unico che ha ricostruito
in sé l’identità ebraica nella lettura dei Salmi, è lui, il mendicante
sofferente e senza nome.
(Shalom, luglio-agosto 2014)
1 commento:
Lo leggerò come ho letto, amandolo, La famiglia Karnowski.
Grazie per i suggerimenti, sono preziosi.
Floriana
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