È con molto
dispiacere se, per motivi di salute, debbo rinunciare a una partecipazione
diretta alla presentazione del libro di Giulio Ferroni La scuola impossibile, e se mi limiterò a proporre alcune
considerazioni, ove sia possibile ascoltarne la lettura. Il dispiacere è dovuto
non soltanto al fatto che si tratta di un libro di cui condivido completamente
le tesi, ma anche al fatto che Giulio Ferroni è uno dei pochi intellettuali
italiani che contrasta apertamente una deriva della scuola, senza timore delle
strida degli adepti di un avvilente “politicamente corretto” che rappresenta in
modo plateale l’infimo livello culturale e persino linguistico in cui è
precipitata la tematica dell’istruzione.
Recentemente, il
quotidiano francese Le Figaro
osservava che nel recente rapporto del Consiglio Superiore dei programmi al
Ministero dell’Educazione Francese si leggono definizioni del genere: «Lezione
di nuoto in piscina: “Imparare a spostarsi in modo autonomo in un ambiente
acquatico profondo e standardizzato”». E il quotidiano così commentava: «I
pedagoghi che blaterano da 40 anni, sono responsabili della lenta agonia della
nostra scuola. Non più luogo sacro dove si trasmette la conoscenza ma, come
dice il rapporto, «un self service dove si passa per approfittare di un clima
di fiducia».
Il fatto curioso
è che, se certa pedagogia porta queste responsabilità, oggi essa non riesce
neanche a godere di questo trionfo, ma subisce una progressiva emarginazione. Delle
tesi che essa ha introdotto – la trasformazione dell’insegnante in
“facilitatore”, la trasformazione della scuola della conoscenza in scuola delle
“competenze” (un concetto fumoso che trova cento definizioni diverse),
l’autoformazione, il successo formativo garantito, e tante altre che non sto a
elencare – si è riappropriata un’amministrazione ministeriale avida di
controllo centralizzato che le impone a scuole e insegnanti sotto la forma di
circolari dal triste linguaggio burocratico. È poi subentrato un nuovo attore
che ha soppiantato rapidamente i pedagogisti e cioè il cosiddetto “economista dell’istruzione”,
per lo più uno statistico o un econometrico che non ha mai messo piede in una
scuola e ragiona esclusivamente in termini economicistici e aziendalisti. Almeno
i pedagogisti sono intellettuali e docenti che quando parlano di istruzione,
parlano pur sempre di istruzione e non di una scuola ridotta a sistema di
formazione di addetti all’impresa, in cui occorre incanalare ogni persona in
una prospettiva lavorativa precisa, il prima che sia possibile. Fino al punto
che qualche esaltato, immemore delle schedature razziali del regime fascista,
ha persino parlato di determinare il futuro lavorativo degli individui mediante
un’analisi delle caratteristiche genetiche e neuronali del bambino…
Sarebbe lungo analizzare
a fondo come si possa essere giunti a tanto. Ma è possibile individuare le
linee di tendenza che hanno condotto a questa metamorfosi. Esse non sono
specificamente italiane, bensì sono legate a tendenze del mondo occidentale, ma
soprattutto al contesto del modo in cui l’integrazione europea ha affrontato il
tema dell’istruzione, scegliendo di distruggere il modello classico anziché
affrontare vie più difficili ma certamente più ragionevoli.
Ricordiamo
che questo modello classico – che è valso all’Europa per più di due secoli di
essere il centro della migliore istruzione mondiale – ha le sue origini nel
progetto illuminista di costruire un’istruzione universalistica che rompesse l’antica frattura tra una massa
ignorante e pochi eletti che potevano godere di una costosa istruzione privata
mediante precettori. L’istruzione universalistica mirava a fornire a ogni
cittadino gli strumenti per orientarsi in modo autonomo sia nel costruire il
proprio futuro liberamente, sia nel partecipare consapevolmente alla vita della
nazione. Non a caso questa tematica era strettamente connessa a quella della
rappresentanza nelle strutture del governo (e alla determinazione delle forme
elettorali capaci di rappresentare al meglio la volontà popolare) e quindi
doveva essere un pilastro della democrazia.
Due
punti cruciali vanno ricordati. Un simile ambiziosissimo progetto non poteva
che essere gestito in quanto di interesse pubblico,
e quindi poteva essere sostenuto soltanto dallo stato. Il secondo è che esso non conteneva l’ambizione di
fabbricare un cittadino secondo dei precetti preformati, e quindi un suddito,
ma, al contrario, di fornire a ciascuno delle conoscenze nel modo più libero e
oggettivo possibile, affinché costituissero lo
strumento della sua libertà. Nel corso dell’Ottocento e fino alla prima
metà del Novecento questo progetto è stato allargato, perfezionato, con nuove
leggi, e con significative caratteristiche specifiche nei diversi stati
nazionali ma comunque coerenti con queste due caratteristiche di base. La polemica
che oggi viene fatta con questa scuola delle “conoscenze”, che le avrebbe colate
attraverso un imbuto nelle teste passive degli alunni, trascurando le loro
capacità di applicarle autonomamente (le “competenze”), non soltanto è
totalmente infondata – come è ovvio per chi conosca un minimo il sistema
classico dell’istruzione – ma ha introdotto una spaccatura tra i due termini
privilegiando assurdamente il secondo. Un esempio per tutti. La visione
classica dell’insegnamento della matematica ha conservato sempre l’idea che
questa scienza non fosse qualcosa di separato dalle altre, e anzi che avesse un
rapporto profondo con le conoscenze umanistiche e, in particolare, con la
filosofia e la storia. Oggi invece si tende a ridurre disastrosamente la
matematica a tecnica del “problem solving”.
Voglio
esemplificare perché ritengo che, peggio ancora che ignoranza, vi sia un
malevolo intento in questa riduzione. Nel 2008 facevo parte di una commissione
che riformulò le Indicazioni nazionali per i Licei. Propongo i passaggi
iniziali riguardanti la matematica, scritti di mio pugno, e che fanno parte
della versione approvata:
«Al termine del percorso dei licei classico,
linguistico, musicale coreutico e della scienze umane lo studente conoscerà i
concetti e i metodi elementari della matematica, sia interni alla disciplina in
sé considerata, sia rilevanti per la descrizione e la previsione di semplici
fenomeni, in particolare del mondo fisico. Egli saprà inquadrare le varie
teorie matematiche studiate nel contesto
storico entro cui si sono sviluppate e ne comprenderà il significato concettuale. Lo studente avrà acquisito una visione
storico-critica dei rapporti tra le tematiche principali del pensiero
matematico e il contesto filosofico, scientifico e tecnologico. In particolare,
avrà acquisito il senso e la portata dei tre principali momenti che
caratterizzano la formazione del pensiero matematico: la matematica nella
civiltà greca, il calcolo infinitesimale che nasce con la rivoluzione
scientifica del Seicento e che porta alla matematizzazione del mondo fisico, la
svolta che prende le mosse dal razionalismo illuministico e che conduce alla
formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione
che investe nuovi campi […} e che ha cambiato il volto della conoscenza
scientifica».
Ci vorrebbe un bel coraggio per definire
tutto ciò una visione della matematica come mero “problem solving”. Era anzi un
tentativo di difendere il ruolo della matematica in una visione non meramente
tecnicistica, ma umanistica. Eppure il ministero, nel proporre le prove
preliminari della maturità, ha avuto il coraggio di dire che si sarebbero
basate sul “problem solving”, per
coerenza con le Indicazioni nazionali…
Ma torniamo a un’identificazione della
scelta che ha condotto l’eurocrazia alla distruzione del modello classico di
istruzione. La sfida era enorme: come costruire un terreno comune per le
giovani generazioni di nazioni aventi un possente passato storico e culturale,
sostenuto da lingue e letterature di straordinaria consistenza? Il buon senso
avrebbe dovuto dettare che una simile sfida – l’unica peraltro capace di creare
basi solide a una costruzione europea che si vede ora quanto sia traballante
sotto la mediocre leadership della tecnocrazia – avrebbe richiesto molto tempo
e molta intelligenza. Per esempio, preparare le nuove generazioni alla
conoscenza profonda, oltre che della propria lingua e cultura, di altre due
lingue europee e della cultura legata a quelle lingue. Ciò avrebbe potuto
costituire una prima base per conoscersi profondamente al di là di scambi
turistici, di capire a fondo l’altro
di cui si dovrà diventare concittadini in senso pieno. Molto più facile,
invece, cancellare la complessità e la ricchezza delle cultura e procedere per riduzione
a individuare le caratteristiche minime indispensabili per un soggetto che
possa circolare come forza-lavoro in tutti i paesi dell’Unione. Di qui le
famose competenze di Lisbona, che
rappresentano la quintessenza di come la cultura e il suo linguaggio possano
essere livellate a gergo burocratico insensato. E soprattutto rappresentano il
passaggio a un modello in cui la formazione di persone libere è sostituita
dalla fabbricazione di soggetti preconfezionati secondo precetti stabiliti
dall’alto. Un modello manifestamente autoritario, mascherato dall’idea ormai
falsa che l’attuale capitalismo finanziario sia coerente con una visione
liberale.
In
un recente bel libro, Massimo Recalcati sostiene che «il nostro tempo sembra
essere figlio di una collusione terribile, anche se involontaria, tra la spinta
rivoluzionaria-libertaria sorta dalle istanze critiche più che legittime del
’68 e quella del neoliberismo forsennato, del capitalismo finanziario
protagonista dell’attuale crisi». Osservazione acuta e che condivido (salvo l’aggettivo
“più che legittime”) e che conclude osservando che «entrambe queste linee di
tendenza […] sostengono l’idea ferocemente antieducativa, che tutto è
possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di
nessuna legge se non quella della propria stessa potenza» e anche lui parla di
necessità di riattribuire dignità alla figura dell’impossibile.
Come
poi sempre accade nella gestione burocratica l’idea ferocemente antieducativa
viene declinata entro forme di un linguaggio fumoso e mediocre che, nel suo
generico buonismo, tende a presentarsi come innocuo. Così nel progetto della
Buona Scuola, si parla di «miglioramento
dell’offerta formativa sempre più
declinata in base alle esigenze degli studenti e coerente con la necessità
di orientarli al futuro». Si parla di «curriculum digitale che conterrà
informazioni utili per l’orientamento e
l'inserimento nel mondo del lavoro. E soprattutto di dare «più
spazio all’educazione ai corretti stili di vita» e «di guardare al domani
attraverso lo sviluppo delle competenze
digitali degli studenti (pensiero computazionale, utilizzo critico e
consapevole dei social network e dei media)». La cultura, le conoscenze, le
discipline sono messe sul binario dell’estinzione: l’obbiettivo della scuola
non è più quello di formare persone libere che usino gli anni dell’istruzione
per scegliere autonomamente il proprio futuro, ma individui corrispondenti ai
precetti imposti da un’autorità centrale. Basti leggere la versione ultra-burocratica
di questa visione nella recentissima circolare ministeriale sulla
certificazione delle competenze. Vi si parla di uno studente che deve «collaborare alla costruzione del bene comune»,
che «ha cura e rispetto di sé, come
presupposto di un sano e corretto stile di vita» e addirittura di «corretta partecipazione alle occasioni
rituali nelle comunità che frequenta». Il Ministero si occupa addirittura
di prescrivere la necessità di pregare bene, studiare il catechismo, osservare
la sharia o i 613 precetti ebraici?
Ma chi mai, se non uno stato
totalitario, può arrogarsi il diritto di definire cos’è il «bene comune»? Chi,
se non uno stato totalitario, può essere titolare della nozione di «sano e
corretto stile di vita»? E che cosa verrà imposto di circolare in circolare?
Magari che il bene comune coincide col politicamente corretto? Qualche zelante
funzionario o qualche dirigente scolastico (definito ora come “leader
educativo”) vorrà “bollinare di rosso” le Metamorfosi
di Ovidio perché politicamente scorrette, come ha chiesto un’associazione
studentesca della Columbia University, degna controparte dei distruttori di
monumenti dell’Isis? Oppure si prescriverà più modestamente che un sano e
corretto stile di vita significa non bere più di 15 cl. di vino al giorno e
andare a letto entro le 21? Siamo agli antipodi del motto liberale di John Stuart Mill:
«Ciascuno è l’unico autentico guardiano
della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale». Ma siamo anche
agli antipodi della visione della scuola universalistica che, sia pure con rilevanti
declinazioni, è stata condivisa lungamente sia dall’area liberaldemocratica, sia
da buona parte della sinistra occidentale. Siamo qui nel contesto di un costruttivismo dai connotati autoritari
e che ha posto al suo centro una visione meramente economicista e aziendalista.
L’insufficienza
delle categorie politiche tradizionali a comprendere il fenomeno di cui parla
Recalcati spiega non soltanto una diffusa confusione delle idee, ma anche lo
stupore con cui i promotori della Buona Scuola hanno accolto le vastissime
reazioni negative, definendole come “conservatorismo” e non capendo che esse
raccolgono trasversalmente chi difende la visione classica dell’istruzione in
nome del suo legame con la tradizione liberaldemocratica e chi è legato alla
stessa visione in quanto si è formato alla visione di Antonio Gramsci della
scuola.
Indubbiamente,
la natura delle forze in gioco rende molto problematico arrestare questo
andazzo. Ma chiunque desideri un futuro per i nostri figli come persone e non
come polli di batteria confezionati ad uso e consumo delle aziende, che non
accetti l’idea che un paese che è stato uno dei centri della cultura mondiale
si spenga nella mediocrità e nell’ignoranza, non può che battersi fino in fondo
per invertire la tendenza. Il che non significa rigettare le necessarie
riforme, rifiutare una seria e autentica valutazione, ancorarsi passivamente al
passato. Significa rigettare decisamente il trucco con cui, con l’alibi del
rinnovamento, si distrugge cultura, conoscenza e libertà.
Di nuovo grazie
a Giulio Ferroni per il suo bel libro e il suo coraggio.
GIORGIO
ISRAEL