È con molto
dispiacere se, per motivi di salute, debbo rinunciare a una partecipazione
diretta alla presentazione del libro di Giulio Ferroni La scuola impossibile, e se mi limiterò a proporre alcune
considerazioni, ove sia possibile ascoltarne la lettura. Il dispiacere è dovuto
non soltanto al fatto che si tratta di un libro di cui condivido completamente
le tesi, ma anche al fatto che Giulio Ferroni è uno dei pochi intellettuali
italiani che contrasta apertamente una deriva della scuola, senza timore delle
strida degli adepti di un avvilente “politicamente corretto” che rappresenta in
modo plateale l’infimo livello culturale e persino linguistico in cui è
precipitata la tematica dell’istruzione.
Recentemente, il
quotidiano francese Le Figaro
osservava che nel recente rapporto del Consiglio Superiore dei programmi al
Ministero dell’Educazione Francese si leggono definizioni del genere: «Lezione
di nuoto in piscina: “Imparare a spostarsi in modo autonomo in un ambiente
acquatico profondo e standardizzato”». E il quotidiano così commentava: «I
pedagoghi che blaterano da 40 anni, sono responsabili della lenta agonia della
nostra scuola. Non più luogo sacro dove si trasmette la conoscenza ma, come
dice il rapporto, «un self service dove si passa per approfittare di un clima
di fiducia».
Il fatto curioso
è che, se certa pedagogia porta queste responsabilità, oggi essa non riesce
neanche a godere di questo trionfo, ma subisce una progressiva emarginazione. Delle
tesi che essa ha introdotto – la trasformazione dell’insegnante in
“facilitatore”, la trasformazione della scuola della conoscenza in scuola delle
“competenze” (un concetto fumoso che trova cento definizioni diverse),
l’autoformazione, il successo formativo garantito, e tante altre che non sto a
elencare – si è riappropriata un’amministrazione ministeriale avida di
controllo centralizzato che le impone a scuole e insegnanti sotto la forma di
circolari dal triste linguaggio burocratico. È poi subentrato un nuovo attore
che ha soppiantato rapidamente i pedagogisti e cioè il cosiddetto “economista dell’istruzione”,
per lo più uno statistico o un econometrico che non ha mai messo piede in una
scuola e ragiona esclusivamente in termini economicistici e aziendalisti. Almeno
i pedagogisti sono intellettuali e docenti che quando parlano di istruzione,
parlano pur sempre di istruzione e non di una scuola ridotta a sistema di
formazione di addetti all’impresa, in cui occorre incanalare ogni persona in
una prospettiva lavorativa precisa, il prima che sia possibile. Fino al punto
che qualche esaltato, immemore delle schedature razziali del regime fascista,
ha persino parlato di determinare il futuro lavorativo degli individui mediante
un’analisi delle caratteristiche genetiche e neuronali del bambino…
Sarebbe lungo analizzare
a fondo come si possa essere giunti a tanto. Ma è possibile individuare le
linee di tendenza che hanno condotto a questa metamorfosi. Esse non sono
specificamente italiane, bensì sono legate a tendenze del mondo occidentale, ma
soprattutto al contesto del modo in cui l’integrazione europea ha affrontato il
tema dell’istruzione, scegliendo di distruggere il modello classico anziché
affrontare vie più difficili ma certamente più ragionevoli.
Ricordiamo
che questo modello classico – che è valso all’Europa per più di due secoli di
essere il centro della migliore istruzione mondiale – ha le sue origini nel
progetto illuminista di costruire un’istruzione universalistica che rompesse l’antica frattura tra una massa
ignorante e pochi eletti che potevano godere di una costosa istruzione privata
mediante precettori. L’istruzione universalistica mirava a fornire a ogni
cittadino gli strumenti per orientarsi in modo autonomo sia nel costruire il
proprio futuro liberamente, sia nel partecipare consapevolmente alla vita della
nazione. Non a caso questa tematica era strettamente connessa a quella della
rappresentanza nelle strutture del governo (e alla determinazione delle forme
elettorali capaci di rappresentare al meglio la volontà popolare) e quindi
doveva essere un pilastro della democrazia.
Due
punti cruciali vanno ricordati. Un simile ambiziosissimo progetto non poteva
che essere gestito in quanto di interesse pubblico,
e quindi poteva essere sostenuto soltanto dallo stato. Il secondo è che esso non conteneva l’ambizione di
fabbricare un cittadino secondo dei precetti preformati, e quindi un suddito,
ma, al contrario, di fornire a ciascuno delle conoscenze nel modo più libero e
oggettivo possibile, affinché costituissero lo
strumento della sua libertà. Nel corso dell’Ottocento e fino alla prima
metà del Novecento questo progetto è stato allargato, perfezionato, con nuove
leggi, e con significative caratteristiche specifiche nei diversi stati
nazionali ma comunque coerenti con queste due caratteristiche di base. La polemica
che oggi viene fatta con questa scuola delle “conoscenze”, che le avrebbe colate
attraverso un imbuto nelle teste passive degli alunni, trascurando le loro
capacità di applicarle autonomamente (le “competenze”), non soltanto è
totalmente infondata – come è ovvio per chi conosca un minimo il sistema
classico dell’istruzione – ma ha introdotto una spaccatura tra i due termini
privilegiando assurdamente il secondo. Un esempio per tutti. La visione
classica dell’insegnamento della matematica ha conservato sempre l’idea che
questa scienza non fosse qualcosa di separato dalle altre, e anzi che avesse un
rapporto profondo con le conoscenze umanistiche e, in particolare, con la
filosofia e la storia. Oggi invece si tende a ridurre disastrosamente la
matematica a tecnica del “problem solving”.
Voglio
esemplificare perché ritengo che, peggio ancora che ignoranza, vi sia un
malevolo intento in questa riduzione. Nel 2008 facevo parte di una commissione
che riformulò le Indicazioni nazionali per i Licei. Propongo i passaggi
iniziali riguardanti la matematica, scritti di mio pugno, e che fanno parte
della versione approvata:
«Al termine del percorso dei licei classico,
linguistico, musicale coreutico e della scienze umane lo studente conoscerà i
concetti e i metodi elementari della matematica, sia interni alla disciplina in
sé considerata, sia rilevanti per la descrizione e la previsione di semplici
fenomeni, in particolare del mondo fisico. Egli saprà inquadrare le varie
teorie matematiche studiate nel contesto
storico entro cui si sono sviluppate e ne comprenderà il significato concettuale. Lo studente avrà acquisito una visione
storico-critica dei rapporti tra le tematiche principali del pensiero
matematico e il contesto filosofico, scientifico e tecnologico. In particolare,
avrà acquisito il senso e la portata dei tre principali momenti che
caratterizzano la formazione del pensiero matematico: la matematica nella
civiltà greca, il calcolo infinitesimale che nasce con la rivoluzione
scientifica del Seicento e che porta alla matematizzazione del mondo fisico, la
svolta che prende le mosse dal razionalismo illuministico e che conduce alla
formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione
che investe nuovi campi […} e che ha cambiato il volto della conoscenza
scientifica».
Ci vorrebbe un bel coraggio per definire
tutto ciò una visione della matematica come mero “problem solving”. Era anzi un
tentativo di difendere il ruolo della matematica in una visione non meramente
tecnicistica, ma umanistica. Eppure il ministero, nel proporre le prove
preliminari della maturità, ha avuto il coraggio di dire che si sarebbero
basate sul “problem solving”, per
coerenza con le Indicazioni nazionali…
Ma torniamo a un’identificazione della
scelta che ha condotto l’eurocrazia alla distruzione del modello classico di
istruzione. La sfida era enorme: come costruire un terreno comune per le
giovani generazioni di nazioni aventi un possente passato storico e culturale,
sostenuto da lingue e letterature di straordinaria consistenza? Il buon senso
avrebbe dovuto dettare che una simile sfida – l’unica peraltro capace di creare
basi solide a una costruzione europea che si vede ora quanto sia traballante
sotto la mediocre leadership della tecnocrazia – avrebbe richiesto molto tempo
e molta intelligenza. Per esempio, preparare le nuove generazioni alla
conoscenza profonda, oltre che della propria lingua e cultura, di altre due
lingue europee e della cultura legata a quelle lingue. Ciò avrebbe potuto
costituire una prima base per conoscersi profondamente al di là di scambi
turistici, di capire a fondo l’altro
di cui si dovrà diventare concittadini in senso pieno. Molto più facile,
invece, cancellare la complessità e la ricchezza delle cultura e procedere per riduzione
a individuare le caratteristiche minime indispensabili per un soggetto che
possa circolare come forza-lavoro in tutti i paesi dell’Unione. Di qui le
famose competenze di Lisbona, che
rappresentano la quintessenza di come la cultura e il suo linguaggio possano
essere livellate a gergo burocratico insensato. E soprattutto rappresentano il
passaggio a un modello in cui la formazione di persone libere è sostituita
dalla fabbricazione di soggetti preconfezionati secondo precetti stabiliti
dall’alto. Un modello manifestamente autoritario, mascherato dall’idea ormai
falsa che l’attuale capitalismo finanziario sia coerente con una visione
liberale.
In
un recente bel libro, Massimo Recalcati sostiene che «il nostro tempo sembra
essere figlio di una collusione terribile, anche se involontaria, tra la spinta
rivoluzionaria-libertaria sorta dalle istanze critiche più che legittime del
’68 e quella del neoliberismo forsennato, del capitalismo finanziario
protagonista dell’attuale crisi». Osservazione acuta e che condivido (salvo l’aggettivo
“più che legittime”) e che conclude osservando che «entrambe queste linee di
tendenza […] sostengono l’idea ferocemente antieducativa, che tutto è
possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di
nessuna legge se non quella della propria stessa potenza» e anche lui parla di
necessità di riattribuire dignità alla figura dell’impossibile.
Come
poi sempre accade nella gestione burocratica l’idea ferocemente antieducativa
viene declinata entro forme di un linguaggio fumoso e mediocre che, nel suo
generico buonismo, tende a presentarsi come innocuo. Così nel progetto della
Buona Scuola, si parla di «miglioramento
dell’offerta formativa sempre più
declinata in base alle esigenze degli studenti e coerente con la necessità
di orientarli al futuro». Si parla di «curriculum digitale che conterrà
informazioni utili per l’orientamento e
l'inserimento nel mondo del lavoro. E soprattutto di dare «più
spazio all’educazione ai corretti stili di vita» e «di guardare al domani
attraverso lo sviluppo delle competenze
digitali degli studenti (pensiero computazionale, utilizzo critico e
consapevole dei social network e dei media)». La cultura, le conoscenze, le
discipline sono messe sul binario dell’estinzione: l’obbiettivo della scuola
non è più quello di formare persone libere che usino gli anni dell’istruzione
per scegliere autonomamente il proprio futuro, ma individui corrispondenti ai
precetti imposti da un’autorità centrale. Basti leggere la versione ultra-burocratica
di questa visione nella recentissima circolare ministeriale sulla
certificazione delle competenze. Vi si parla di uno studente che deve «collaborare alla costruzione del bene comune»,
che «ha cura e rispetto di sé, come
presupposto di un sano e corretto stile di vita» e addirittura di «corretta partecipazione alle occasioni
rituali nelle comunità che frequenta». Il Ministero si occupa addirittura
di prescrivere la necessità di pregare bene, studiare il catechismo, osservare
la sharia o i 613 precetti ebraici?
Ma chi mai, se non uno stato
totalitario, può arrogarsi il diritto di definire cos’è il «bene comune»? Chi,
se non uno stato totalitario, può essere titolare della nozione di «sano e
corretto stile di vita»? E che cosa verrà imposto di circolare in circolare?
Magari che il bene comune coincide col politicamente corretto? Qualche zelante
funzionario o qualche dirigente scolastico (definito ora come “leader
educativo”) vorrà “bollinare di rosso” le Metamorfosi
di Ovidio perché politicamente scorrette, come ha chiesto un’associazione
studentesca della Columbia University, degna controparte dei distruttori di
monumenti dell’Isis? Oppure si prescriverà più modestamente che un sano e
corretto stile di vita significa non bere più di 15 cl. di vino al giorno e
andare a letto entro le 21? Siamo agli antipodi del motto liberale di John Stuart Mill:
«Ciascuno è l’unico autentico guardiano
della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale». Ma siamo anche
agli antipodi della visione della scuola universalistica che, sia pure con rilevanti
declinazioni, è stata condivisa lungamente sia dall’area liberaldemocratica, sia
da buona parte della sinistra occidentale. Siamo qui nel contesto di un costruttivismo dai connotati autoritari
e che ha posto al suo centro una visione meramente economicista e aziendalista.
L’insufficienza
delle categorie politiche tradizionali a comprendere il fenomeno di cui parla
Recalcati spiega non soltanto una diffusa confusione delle idee, ma anche lo
stupore con cui i promotori della Buona Scuola hanno accolto le vastissime
reazioni negative, definendole come “conservatorismo” e non capendo che esse
raccolgono trasversalmente chi difende la visione classica dell’istruzione in
nome del suo legame con la tradizione liberaldemocratica e chi è legato alla
stessa visione in quanto si è formato alla visione di Antonio Gramsci della
scuola.
Indubbiamente,
la natura delle forze in gioco rende molto problematico arrestare questo
andazzo. Ma chiunque desideri un futuro per i nostri figli come persone e non
come polli di batteria confezionati ad uso e consumo delle aziende, che non
accetti l’idea che un paese che è stato uno dei centri della cultura mondiale
si spenga nella mediocrità e nell’ignoranza, non può che battersi fino in fondo
per invertire la tendenza. Il che non significa rigettare le necessarie
riforme, rifiutare una seria e autentica valutazione, ancorarsi passivamente al
passato. Significa rigettare decisamente il trucco con cui, con l’alibi del
rinnovamento, si distrugge cultura, conoscenza e libertà.
Di nuovo grazie
a Giulio Ferroni per il suo bel libro e il suo coraggio.
GIORGIO
ISRAEL
15 commenti:
Grazie per questo intervento, come sempre utile a capire le cose.
Vorrei proporre due osservazioni.
1.
Mi sembra utile comparare il “processo di Bologna” con un altro documento più antico ma molto più sensato. Si scopre che le cose si possono fare in modo molto più trasparente, pulito, senza peli: la “Convenzione culturale europea” del 19 dicembre 1954, considerata come la radice delle successive iniziative. Il testo è comprensibile senza doversi sottoporre a un corso di formazione. Leggiamo nell’articolo 11 che non è difficile o impossibile per le parti fare disdetta dagli accordi. Il testo è incentrato su due concetti di fondo, che NON sono pseudoconcetti, come ad esempio quello di Credito Formativo: quello delle singole identità nazionali, e quello delle parti in comune, condiviso dalle singole identità nazionali dei paesi europei. Nulla a che spartire con il gergo intimidatorio ma vuoto, ambiguo ma perentorio, che ci è imposto dagli accordi successivi.
2. Il commento di Massimo Recalcati
(‘’l’idea ferocemente antieducativa, che tutto è possibile, che la vita è una potenza autoaffermativa che non necessita di nessuna legge se non quella della propria stessa potenza»; ’’necessità di riattribuire dignità alla figura dell’impossibile’’)
si salda benissimo alle osservazioni di Massimo Bontempelli [1] sulla diffusione, funzionale alla società del consumo, di un tipo di personalità, che gli studiosi chiamano ‘narcisistica’
(che non coincide con il senso che comunemente si attribuisce a questo termine),
e alle sue osservazioni sul ‘capitalismo assoluto’, che tutto pretende di ridurre e ricondurre ai suoi scopi, con l'idea di una ‘crescita senza limiti’.
3. I commenti di Massimo Recalcati sul Sessantotto si saldano (anche se non così bene) alla analisi di Massimo Bontempelli nel suo libro sul Sessantotto [2].
A mio avviso, l’analisi di Bontempelli sul Sessantotto è la più lucida e profonda che esiste. Essa sfugge alle apparenze ingannevoli che spingono Recalcati a parlare di ‘collusione involontaria’.
[1] Massimo Bontempelli, ‘Un pensiero presente’. Scritti su Indipendenza. Francesco Labonia Editore
[2] Massimo Bontempelli, ‘Il sessantotto. Un anno ancora da scoprire’. CUEC Editrice.
Gent.mo prof. Israel,
purtroppo il “politicamente corretto” è un vizio antico del corpo docente italiano.
Il fatto che gli insegnanti italiani si siano a suo tempo prestati a propagandare l'ideologia fascista non è stato, a mio avviso, un incidente di percorso ma un problema legato ad un più generale atteggiamento di acritico rispetto per la cosiddetta “autorità costituita”, dimenticandosi però che dal 1948 la libertà di insegnamento è un principio costituzionale.
La questione sarebbe meritevole di un'accurata indagine sociologica, in questa sede mi limito a osservare che quella dei docenti è una categoria poco avvezza a ribellarsi alle imposizioni provenienti dall'alto (le eccezioni esistono ma sono purtroppo minoritarie).
Pertanto, se il potere politico forza la mano e impone una svolta autoritaria, gli insegnanti lasciano fare senza battere ciglio.
Le rare proteste di massa, come quella di questi giorni, sono tardive e non sempre compatte.
La realtà è che l'autoritarismo burocratico e ignorante che sta distruggendo la scuola italiana viene da molto lontano e si è potuto sviluppare solo perché gli insegnanti lo hanno consentito.
Quando frequentavo gli ultimi anni del liceo ricordo che il ministro Luigi Berlinguer inviò una circolare alle scuole invitando i docenti a commemorare la figura di Antonio Gramsci nel sessantesimo anniversario della sua morte.
Il mio professore di filosofia polemicamente decise di dedicare quel giorno alla presentazione della figura di un altro pensatore. Alla fine della lezione ci spiegò però il motivo della sua scelta. Precisò di non avere nulla contro Gramsci, trovava però fastidiosa questa pedante intromissione del ministro nell'attività didattica, quasi che l'autorità governativa potesse arrogarsi il diritto di imporre una visione “etica” dell'insegnamento.
Quanti docenti però hanno espresso simili prese di posizione dinnanzi a fatti di questo tipo? Molti insegnanti hanno ubbidito, altri hanno sottovalutato il problema e così è finita che dalle commemorazioni si è passati all'insegnamento del “bene comune” e del “corretto stile di vita” nell'ambito di una scuola funzionale alle esigenze delle aziende.
Fra i docenti non manca chi si oppone a questo andazzo, ma è inutile prendersela con la politica quando bisogna far fronte al collaborazionismo e all'apatia di molti colleghi.
@ DI BIASE : Grazie per i commenti e gli utili riferimenti
Gentile Professore, si rimetta presto.
Il conformismo degli insegnanti è spaventoso: chiedo alla Professoressa di italiano (1. media) di spiegare le regioni italiane (sul libro non ci sono!), magari con qualche scheda stampata da internet. Lei mi dice 'il libro fa schifo, ma è il programma ministeriale.
Chiedo a quella di inglese di fare un po' più di grammatica: non si spiega più fino alla terza media, risponde, e questo metodo ha grande successo: tutti vogliono fare il liceo linguistico. "La grammatica va quasi tenuta nascosta. I libri oggi sono fatti così". (Citazione testuale).
Esco sgomenta da questi colloqui.
Un mio collega universitario dice che è già palpabile il crollo culturale nei nati negli anni '90 rispetto a quelli degli '80. Aspettiamo i prossimi decenni per vedere fino a dove si riesce a precipitare!
Santino: il numero degli insegnanti che si opposero alla circolare berlingueriana non fu poi così basso. All'epoca già insegnavo da tempo, in un Liceo scientifico, e ricordo che diversi colleghi la pensavano come il tuo professore, anche se non so cosa abbiano concretamente detto ai loro alunni. Quello che lui fece fu esemplarmente corretto, a mio parere.
Anche Andrea Camilleri in uno dei primi romanzi di Montalbano (forse "Il cane di terracotta", ma non ho tempo né modo di fare una ricerca) metteva alla berlina come un ridicolo reazionario, appunto, un insegnante (o un preside, non ricordo esattamente) che osava criticare la suddetta circolare berlingueriana. Il che dimostra che non si trattò di un comportamento così raro.
Sul fatto, poi, che Gramsci, se fosse tornato fra noi, sarebbe stato contento del suo autoproclamato allevo, è lecito dubitare.
Poche cose mi sembrano in opposizione alla concezioni berlinguerianedella scuola di alcune famose affermazioni di Gramsci: "Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza". Con le quali, a quanto sembra, egli intendeva opporsi proprio a quell'attivismo pedagogico che poi è diventato una bandiera del progressismo italiano.
@Papik,
le opposizioni vi furono, ma se a poco a poco è prevalsa l'idea che l'istruzione debba essere funzionale a una pedagogia di stato propagandata attraverso un'invasione continua di note, circolari e decreti ministeriali, significa che esse sono risultate essere minoritarie.
Basta leggere quanta aria fritta scriviamo nei nostri POF, pagine e pagine che nessuno legge sebbene tanti docenti si dichiarino convinti che tali documenti siano importanti perché qualificano il "progetto educativo" della scuola.
Che dire dei tanti insegnanti che si scervellano a declinare gli obiettivi di insegnamento distinguendo fra conoscenze, competenze e abilità poiché "una cosa è il sapere, un'altra il saper fare, un'altra ancora il saper essere"?
Posso capire che, volenti o nolenti, queste scempiaggini fumose siano imposte da atti normativi e che quindi (anche se però bisognerebbe chiedersi se essi siano rispettosi del principio costituzionale della libertà di insegnamento), ma il problema è che molti colleghi ci credono veramente.
Dinnanzi a questo furore ideologico trasversale ai partiti sarebbe stata necessaria una reazione compatta di tutto il corpo docente. Gli insegnanti italiani però reagiscono in massa solo quando si tocca il fondo (contro "concorsone" di Berlinguer, contro il ddl Aprea in era berlusconiana, contro la proposta di portare a 24 ore l'orario di cattedra durante il governo Monti, contro il ddl della "buonascuola" oggi). Peccato che sia sempre troppo tardi.
Aria fritta nei nostri POF? questo è niente in confronto a quello che sarà il meccanismo di autovalutazione degli Istituti, un mastodonte burocratico che neanche nell'URSS di Breznev.
Ma che ci si vuol fare? dovremmo passare il tempo a scioperare, non ce lo possiamo permettere e abbiamo già buona parte dell'opinione pubblica e quasi tutta la stampa contro.
In quel caso della celebrazione di Gramsci, cosa altro si sarebbe dovuto o potuto fare, quando chi trovò scandalosa una simile imposizione fu prontamente messo a tacere da intellettuali e opinionisti (e ho fatto anche un nome tra i più celebrati)?
Per quanto riguarda il famigerato concorsone berlingueriano abortito, ancora oggi la maggior parte degli opinionisti che si occupano di scuola continua a tirare in ballo la questione a riprova del fatto che gli insegnanti hanno paura e non accettano di essere valutati.
Si producono quantità industriali di documenti che sono solo adempimenti formali e non hanno relazione concreta con quanto si fa realmente in classe.
Sono cose imposte da atti normativi, come tu stesso dici, cosa ci si può fare? un ammutinamento? Molti - me compreso - preferiscono lasciar fare a chi ama immischiarsi in queste cose e tirano a campare.
Il peggio, però, è che c'è da scommettere che la valutazione avverrà secondo questo stesso formalismo.
Già ora si premiano le scuole in proporzione al livello di informatizzazione, ma nessuno si preoccupa in alcun modo di andare a vedere se questa poi funziona davvero, come nel caso del registro elettronico di cui parlavo in un commento al thread precedente, che tragicamente non funziona (probabilmente perché sono state sottovalutate le difficoltà di connessione wireless), al punto che se non hai un alunno in aula rischi di non accorgertene e se te ne accorgi non puoi mettere una nota. e non è solo un problema della mia scuola, ho sentito vari colleghi che hanno gli stessi problemi. Viviamo alla giornata, con notevoli rischi, nella speranza di finanziamenti che consentano un cablaggio.
Come ha detto giustamente il prof. Israel nell'intervista al Manifesto, molti cercano di fare comunque il meglio che possono e non vedono l'ora di andare in pensione.
@Papik, hai ragione, oggi non è più possibile fare nulla, bisogna solo attendere che si tocchi il fondo nella speranza che davanti a un collasso del sistema si possano rimettere in discussione un bel po' di cosa. Tuttavia, se è vero che i docenti sono costretti da norme giuridiche ad ariafritteggiare, sarebbe opportuno che almeno non diano il loro assenso ideologico a certe scempiaggini. Purtroppo molti nostri colleghi credono nell'utilità di queste mostruosità burocratiche.
Rivoluzione pratica, da fare in TANTI, senza clamore. Suggerimenti (li ho dati io al TFA di Italiano per le medie inferiori).
- privilegiare l'analisi di testi letterari (adatti all'età), scritti in ottimo italiano e non tradotti da altre lingue (avranno tempo per fare i globali ...).
- dare spazio alla poesia (Pascoli, Gozzano, Carducci ...)e farne imparare alcune a memoria.
- Fare molti temi, riassunti, parafrasi. Insegnare ad impostare il foglio con grafia ordinata e rientri per periodi.
- Tenersi alla larga da banalità, attualità, mafia e camorra, solidarietà, amore per il mondo.
- Ogni mese una lettura appropriata da riassumere.
- Analisi logica e grammaticale, arricchimento del lessico
tramite letture qualificate.
- Per chi insegna geografia: schede sul territorio e sulle regioni italiane. Tenersi alla larga dalla storia della comunità europea, dalle competenze trasversali, dalle ricette di cucina (!).
- Mai dare l'idea che la scuola sia il resoconto dell'attualità e di tutto ciò di banale, squallido e degradante che offre a un ragazzino il cosiddetto mondo moderno.
Il resto è FUFFA!!!
Pupipupi, adoro la Sua idea di rivoluzione pratica. Cerco scuole medie inferiori a Udine dove ci sono insegnanti che la pensano (e fanno) come lei.
condivido abbastanza le indicazioni di pupipupi, è più o meno quello che faccio io.
però non sono d'accordo sul rifiuto di testi tradotti, anche perchè i testi di un certo livello letterario sono in genere tradotti piuttosto bene. perchè negarmi un bel racconto di jack london? o le scene più interessanti della bisbetica domata?
inoltre da quest'anno ho cassato il "ripasso" delle regioni italiane: a farne una a lezione ti portano via un terzo dell'orario annuale, e il resto del programma viene compresso in modo insostenibile. che le facciano alla primaria e non se ne parli più!
aggiungo che, tutto sommato, la proverbiale disorganizzazione italiana ci permette di fare di testa nostra come altrove non è possibile (in francia sono più avanti di noi nello sfascio dell'istruzione e i loro ispettori controllano che i docenti siano ligi al metodo)
Segnalo
Massimo Bontempelli, La convergenza del centro destra e del centro sinistra nella distruzione della scuola italiana (continuità Berlinguer De Mauro Moratti)
Grazie prof. De Biase, un testo davvero prezioso, che andrebbe diffuso.
E' sconfortante pensare che stiamo andando indietro come i gamberi, in una situazione anteriore, probabilmente, alla prima guerra mondiale. Ammesse classi di trenta alunni alle superiori, orari di sette ore giornaliere per tenere chiuso al sabato con TAGLIO delle lezioni (l'ora dura cinquanta minuti e non sessanta - centinaia di ore perse in un anno), studenti che vanno avanti con insufficienze croniche, insegnanti che fanno vedere i film durante le ore di lezione, tutti che si fanno gli affari loro con il cellulare.
Ma cosa diavolo ci sta succedendo??? Siamo un popolo di storditi???
Buona serata, Professor Giorgio Israel
Ed ecco alcuni consigli per lo studio, che spesso ripeto ai miei studenti, perché nella vita non basta essere “persone competenti“.
Ricordati di ripetere. Dalla ripetizione del testo, da questo lavoro che sembra noioso e sempre uguale nascerà la tua idea originale. Rileggi e rileggiti ancora, ponendoti sempre una diversa domanda. Dopotutto ripetere significa "chiedere di nuovo".
Correggi, non solo l'errore fatto, non solo ciò che hai scoperto d'aver sbagliato. Correggi e migliora anche ciò che ritenevi benfatto.
Non migliorare... questo è lo sbaglio più insidioso, perché non ti permette di mutare il tuo cammino o, se fosse necessario, anche la meta del tuo viaggio.
Non temere il tuo sbaglio. Certo, potrà averti fatto vagare inutilmente, lontano dalla meta che desideravi. Ma non lasciare che l'amarezza opprima il tuo animo, non ne vale la
pena. Ogni nuovo istante racchiude possibilità che non sai ancora immaginare.
Comprendi e tutto afferra, con mente unita al cuore; con intelligenza e sensibilità. Non porre limiti alla tua curiosità, perché di essa si nutrono il sogno e il desiderio. Comprendi anche la più piccola e minuscola cosa, comprendila nella sua essenza . Ciò che è profondo rimane per sempre, il superficiale è solo parvenza, la bugia di un attimo.
Non arrenderti con facilità, sii ostinato, non abbandonare il tuo progetto: nessuna sconfitta può sminuire la bellezza del tuo infinito sogno.
Cerca... instancabile ricerca, dovessi ritornare sui tuoi passi ancora una volta. Molto spesso i grandi segreti della conoscenza sono racchiusi nei dettagli che frettolosamente abbiamo trascurato.
Sogna, perché è il sogno che ti spinge dove non avresti mai osato arrivare. Sconfitta e vittoria sono parte della nostra vita... ma non dimenticare mai di sognare, perché la sconfitta non possa farti del male, perché la vittoria possa dischiuderti nuove mete.
Ricorda il bene che la nostra cultura ha creato. Ricorda anche il male e la sofferenza che abbiamo saputo procurare e procurarci. E dal ricordo coltiva desiderio di giustizia e pace. Nella tua famiglia, nel lavoro, fra i tuoi amici, perfino con i nemici. Giustizia e pace creano legami profondi e infiniti. Il tempo e la lontananza non potranno distruggerli.
Docente Maria Cristina Ferrara
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