venerdì 21 marzo 2008

Festeggiano la strage nella scuola rabbinica e noi ci ostiniamo a voler dialogare con loro

Era difficile non condannare la strage compiuta nella scuola rabbinica di Gerusalemme. Anche il ministro degli esteri D’Alema ha parlato di «tragico, rivoltante attentato», ma non ha mancato di sottolineare che esso faceva «seguito agli scontri in cui hanno perso la vita 125 palestinesi», riproponendo il solito gioco dell’ “equivicinanza”: «da una parte c’è l’estremismo palestinese e dall’altra l’estrema durezza della reazione di violenza. Una spirale di violenza… ecc. ecc.». Inutile ripetere che è obbrobrioso mettere sullo stesso piano uno scontro militare in cui hanno perso la vita anche dei civili – soprattutto per la nefanda abitudine degli “estremisti” palestinesi di usarli come scudi umani – e un attentato deliberatamente rivolto contro un’istituzione religiosa che è stato salutato a Gaza con festeggiamenti e distribuzione di dolciumi. Non insisteremo sull’omissione del fatto cruciale: se fossero interrotti i lanci di missili sulle città israeliane (migliaia da quando Israele ha lasciato Gaza!) le risposte militari finirebbero. Non insisteremo perché la solfa del ministro è arcinota e ripetitiva. Vogliamo invece dire qualcosa circa l’indicazione del dialogo con Hamas come unica via d’uscita. Certo, anche molti israeliani sono tanto esausti da esser pronti a imboccare questa via, se fosse praticabile. Ma lo è? L’interlocutore è disposto a sedersi a un tavolo e a trattare senza precondizioni impossibili e senza offrire una tregua in stile coranico, ovvero una “pausa” in attesa di riprendere la lotta?
Molti dimenticano la costituzione di Hamas. All’articolo 7 si legge che «l’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: “O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo”». All’articolo 11 si dice che la terra di Palestina è affidata all’Islam fino al giorno della resurrezione e «non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa». Nel passato alcuni governi israeliani agirono come se queste fossero chiacchiere – e lo fossero le espressioni analoghe contenute nella costituzione di Fatah – mirando soprattutto alla diplomazia e all’economia. Fu un errore catastrofico. Non si tratta di chiacchiere bensì del pilastro ideale di questi movimenti. Fino a che non saranno cancellate e sconfessate ogni tentativo di realizzare la pace finirà male. Viceversa, la rinuncia dichiarata a quegli obbiettivi significherebbe che si è accettato di por fine all’educazione all’odio con cui vengono formate intere generazioni di palestinesi. Guardare al “sodo” – diplomazia e quattrini – fa tanto “concretezza” e invece è la miopia di chi non riesce a guardare oltre la punta del naso. E non vede che il vero problema è sempre il rifiuto di Israele di gran parte del mondo arabo e islamico: qualsiasi cosa Israele faccia non va bene perché è discussione la sua esistenza. Il vero dramma è l’impossibilità di far votare al Consiglio di sicurezza dell’ONU una mozione di condanna di un attentato come quello, perché il mondo arabo si oppone; è l’ossessione antiisraeliana della Commissione per i diritti umani che prepara la conferenza Durban 2; è l’antisemitismo che il fronte del rifiuto propaga nel mondo. Altro che lista di docenti ebrei! A deprecare quella sono pronti tutti: cosa costa condannare un pazzo isolato? Ma quando si tratta di parlare il linguaggio della verità al mondo arabo e islamico ecco i don Abbondio ben rincantucciati nella coperta del pragmatismo.
(Tempi, 20.3.2008)

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