L’affermazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno secondo cui le leggi razziali fasciste furono il “male assoluto” ma il fascismo fu un fenomeno complesso, non ha nulla di scandaloso ma è viziata per due motivi. Non è scandalosa perché sostenere che il fascismo fu un fenomeno variegato che, per vari aspetti, si colloca in una zona grigia rispetto all’orrore senza attenuanti del nazismo, è la tesi di molti storici rispettabili e certamente non filofascisti, a cominciare da Renzo De Felice. Ciò detto, la categoria del “male assoluto” è una categoria metafisica che trascina su un terreno fumoso e scivoloso. Inoltre, nel discorso di Alemanno mancava un punto fermo opportunamente messo in luce dal Presidente della Camera Gianfranco Fini: con tutta la comprensione per chi ha agito sinceramente, la ragione stava da una parte – quella di chi combatteva per la libertà e la democrazia contro il fascismo – e il torto dall’altra parte. Questo vale per tutti i regimi totalitari dell’epoca (e per i presenti!). Poi si apre un’analisi storiografica comparativa tra nazismo, fascismo italiano, franchismo, vari regimi comunisti, ecc. ed è indubbio che, sotto questo profilo, il fascismo si presta a valutazioni più complesse e sfumate del nazismo. L’affermazione di Alemanno sarebbe stata quindi ineccepibile se si fosse accompagnata alla pregiudiziale posta da Fini, la quale, a sua volta, si è accompagnata dall’osservazione che non tutti coloro che combattevano dalla parte giusta avevano intenzioni trasparenti e corrette per quanto riguarda la democrazia.
Difatti, non è vietato esprimere giudizi se si è “post” – postfascista o postcomunista – a condizione che si sia molto netti e chiari sulla questione della libertà e della democrazia. Molti di coloro che combatterono sul fronte antifascista non erano affatto limpidi in merito e avevano un progetto che con la democrazia liberale aveva poco a che fare. Perciò, la chiarezza che è stata richiesta ad Alemanno va pretesa anche da chi si è stracciato le vesti di fronte alla sua affermazione e, pur proclamando di essersi distaccato in modo definitivo dal proprio passato comunista, continua a rifiutarsi di condannare il carattere liberticida del comunismo e a cavillare sul fatto che i comunisti sarebbero stati sempre sul fronte della democrazia in quanto antifascisti. Questo è inaccettabile. Se si chiede a giusto titolo di dire che il fascismo è stato dalla “parte sbagliata”, è inammissibile che non si riservi lo stesso giudizio a un regime che ha basato il proprio potere sul crimine di stato, sul Gulag, sul lavoro forzato, sulla collettivizzazione delle campagne imposta mediante la deportazione e lo sterminio di milioni di persone, sull’omicidio sistematico degli oppositori politici.
In un’ottantina di anni di storia gran parte degli italiani (di noi…) sono stati sul fronte dei totalitarismi di destra e di destra, sono stati fascisti o comunisti. Quando si parla di stabilire un minimo comun denominatore politico (non una “memoria condivisa”, che è un’emerita baggianata) non s’intende parlare di abiure e ceneri sul capo: s’intende condividere il giudizio che queste esperienze politiche sono state contrarie ai principi di democrazia e libertà su cui vogliamo che la nostra società continui a fondarsi. Se questo giudizio viene accolto in modo ambiguo, con due pesi e due misure, chiedendo che si stabilisca che il fascismo era la parte sbagliata e poi rifiutandosi di farlo nel caso del comunismo, non ci siamo proprio. L’antifascismo può essere un valore condiviso a condizione che se ne dichiari la totale contraddittorietà con il totalitarismo comunista.
(Tempi, 25 Settembre 2008)
«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
sabato 27 settembre 2008
LE IDEE GIUSTE NON SONO DI DESTRA O DI SINISTRA
Da leggere su Libero di oggi (27 settembre):
Un'intervista a Luciano Canfora:
SCUOLA MALATA DI CATTIVA PEDAGOGIA
Il filologo marxista: «I contenuti in aula sono stati oscurati dal vaniloquio didattico»
«Berlinguer ha squalificato l'università, abrogato i concorsi di accesso alla scuola e inventato le famigerate SSIS. Ha rovinato un'intera generazione...
«Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico. Nelle SSIS, per fortuna ora interrotte, non si faceva altro che chiacchiericcio sui metodi di insegnamento. Assurdo: si impara a insegnare appunto insegnando. Ridiamo piuttosto la centralità ai contenuti, alla trasmissione di un sapere specifico»
Ecc.
Un'intervista a Luciano Canfora:
SCUOLA MALATA DI CATTIVA PEDAGOGIA
Il filologo marxista: «I contenuti in aula sono stati oscurati dal vaniloquio didattico»
«Berlinguer ha squalificato l'università, abrogato i concorsi di accesso alla scuola e inventato le famigerate SSIS. Ha rovinato un'intera generazione...
«Sono molto ostile al vaniloquio pedagogico. Nelle SSIS, per fortuna ora interrotte, non si faceva altro che chiacchiericcio sui metodi di insegnamento. Assurdo: si impara a insegnare appunto insegnando. Ridiamo piuttosto la centralità ai contenuti, alla trasmissione di un sapere specifico»
Ecc.
mercoledì 24 settembre 2008
DEMAGOGIA
Si dice che il ministro-ombra dell’istruzione Mariapia Garavaglia, nel corso della trasmissione Porta a Porta abbia avvertito che i test Ocse-Pisa (quelli che hanno diagnosticato il disastro della scuola italiana) certificano le competenze e non le conoscenze. Ciò è vero, anche perché nessuno ha la minima idea di come si potrebbero stimare le conoscenze se non con un metodo vecchio come la scuola: la valutazione fatta dagli insegnanti. Invece, se il fumoso concetto di “competenza” – che nessuno è mai riuscito a definire in modo “esatto” e la cui linea di separazione dalle conoscenze è non meno fumosa e discutibile – viene assimilato alla capacità di mettere in opera le conoscenze acquisite, se ne possono escogitare delle stime (più o meno discutibili) mediante test, che è proprio quel che fanno i sondaggi Ocse-Pisa. D’altra parte, se le competenze possono riflettere, entro certi limiti, le conoscenze acquisite in campo linguistico, ciò non è affatto vero nel caso delle materie scientifiche e, in particolare, della matematica. È possibile che si acquisisca la capacità di far uso di procedimenti standard per risolvere problemi senza avere un’idea chiara – e magari senza avere la minima idea – dei fondamenti teorici di quei procedimenti, insomma senza “conoscerli”. Non a caso chi si occupa seriamente di problemi dell’insegnamento della matematica (come il celebre matematico francese Laurent Lafforgue) si riferisce in modo primario alle conoscenze.
In conclusione, ha ragione Garavaglia a dire che gli Ocse-Pisa dicono poco circa lo stato delle conoscenze ma, a questo punto, non è chiaro se le siano chiare le implicazioni di tale osservazione: e cioè che, in termini di conoscenze, la situazione della nostra scuola potrebbe essere ancor più disastrosa. E cioè che non ci troviamo di fronte a studenti che possiedono concetti generali ma non li sanno usare, bensì di fronte a studenti che non li sanno usare e non li possiedono neppure. Che le cose stiano proprio così è comune esperienza di chiunque insegni nella scuola e di chi, nell’università, sia testimone del drammatico livello di ignoranza linguistica e matematica degli studenti che vi arrivano, e che si accentua di anno in anno.
A questo punto va ricordato che l’introduzione nelle scuole primarie di più maestri per classe risale al 1990. Pertanto, le persone formate col nuovo sistema hanno oggi al massimo 24 anni. Un minimo di serietà imporrebbe di tener conto di questa correlazione temporale: la valanga crescente di incompetenti e ignoranti che non sanno leggere, scrivere e far di conto sta in gran parte entro questa fascia di età e pertanto è iniziata e si è ingrossata a partire dalla riforma delle elementari. Pretendere che i cattivi risultati siano tutti imputabili alle scuole secondarie è quanto meno poco sensato.
Invece di ragionare si preferisce ripetere come un disco rotto che la scuola elementare italiana è “eccellente” (sempre Garavaglia), anzi una delle migliori del mondo, omettendo di dire che le valutazioni internazionali riguardano non tanto i risultanti quanto l’impiego di risorse su cui – non c’è dubbio! – l’Italia è ai primi posti. Il fatto è che tutti coloro che ripetono pateticamente questi slogan ed evocano i loro ricordi (come ha fatto Francesco Merlo su Repubblica) hanno ben più di 20 anni e non sanno che dal 1985 la scuola elementare italiana è stata cambiata da cima a fondo e non ha più nulla in comune con quella di un tempo. E se non lo sanno è peggio.
Il cambiamento radicale della primaria italiana ha avuto tre caratteristiche. 1) L’introduzione della balzana trovata dei tre (o più) maestri, che esiste in pochissimi paesi al mondo. 2) La demolizione totale dei programmi precedenti sostituiti con un approccio metodologico incurante dei contenuti e ispirato alle tendenze più estremistiche della pedagogia dell’autoapprendimento. È questo un tema su cui ho fornito su questo giornale illustrazioni ed esempi specifici (riguardanti l’insegnamento di matematica, storia, geografia, letteratura ecc.) senza nessuno che mai si sognasse di opporre la minima obiezione. 3) I processi di formazione degli insegnanti (in particolare dei maestri) hanno visto un’espansione geometrica della parte dedicata alle materie psico-pedagogico-relazionali a discapito di quelle disciplinari, ridotte talora al 20% del curriculum. Siamo allo scandalo che si può riuscire ad abilitarsi come maestri senza aver seguito più di una trentina di ore di matematica o di storia (soltanto moderna). Su questo giornale è stata pubblicata la lettera di una maestra (tra le tantissime ricevute) che illustrava lo sfacelo delle elementari, frammentate in un mosaico di attività incoerenti e che mostrava a quali inaudite tensioni sono sottoposti quegli insegnanti che resistono eroicamente al disastro provocato da “riforme” sconsiderate. Si preferisce non leggere queste testimonianze e voltarsi dall’altra parte.
Di fronte a tutto ciò ripetere accanitamente lo slogan della scuola migliore del mondo è una manifestazione di irrazionalità oppure di propaganda.
Sempre su queste pagine sono state spiegate ripetutamente le ragioni didattiche, pedagogiche e culturali che giustificano pienamente la scelta del maestro unico. Non le ripeterò per non fare il verso al disco rotto, anche se è comunque meglio ripetere argomenti piuttosto che slogan. Ma quando si legge che «il ritorno del maestro unico è una proposta senza senso, funzionale a ridurre in modo contabile i docenti, ma priva di basi psico-pedagogiche» (sempre Garavaglia), viene da dire che quel che è troppo è troppo. Se si vogliono usare termini forti come “senza senso” e “privo di basi”, occorre produrre argomenti e rispondere a quelli altrui. E, se non si hanno argomenti, occorre avere il buon gusto di tacere.
(Libero, 24 settembre 2008)
In conclusione, ha ragione Garavaglia a dire che gli Ocse-Pisa dicono poco circa lo stato delle conoscenze ma, a questo punto, non è chiaro se le siano chiare le implicazioni di tale osservazione: e cioè che, in termini di conoscenze, la situazione della nostra scuola potrebbe essere ancor più disastrosa. E cioè che non ci troviamo di fronte a studenti che possiedono concetti generali ma non li sanno usare, bensì di fronte a studenti che non li sanno usare e non li possiedono neppure. Che le cose stiano proprio così è comune esperienza di chiunque insegni nella scuola e di chi, nell’università, sia testimone del drammatico livello di ignoranza linguistica e matematica degli studenti che vi arrivano, e che si accentua di anno in anno.
A questo punto va ricordato che l’introduzione nelle scuole primarie di più maestri per classe risale al 1990. Pertanto, le persone formate col nuovo sistema hanno oggi al massimo 24 anni. Un minimo di serietà imporrebbe di tener conto di questa correlazione temporale: la valanga crescente di incompetenti e ignoranti che non sanno leggere, scrivere e far di conto sta in gran parte entro questa fascia di età e pertanto è iniziata e si è ingrossata a partire dalla riforma delle elementari. Pretendere che i cattivi risultati siano tutti imputabili alle scuole secondarie è quanto meno poco sensato.
Invece di ragionare si preferisce ripetere come un disco rotto che la scuola elementare italiana è “eccellente” (sempre Garavaglia), anzi una delle migliori del mondo, omettendo di dire che le valutazioni internazionali riguardano non tanto i risultanti quanto l’impiego di risorse su cui – non c’è dubbio! – l’Italia è ai primi posti. Il fatto è che tutti coloro che ripetono pateticamente questi slogan ed evocano i loro ricordi (come ha fatto Francesco Merlo su Repubblica) hanno ben più di 20 anni e non sanno che dal 1985 la scuola elementare italiana è stata cambiata da cima a fondo e non ha più nulla in comune con quella di un tempo. E se non lo sanno è peggio.
Il cambiamento radicale della primaria italiana ha avuto tre caratteristiche. 1) L’introduzione della balzana trovata dei tre (o più) maestri, che esiste in pochissimi paesi al mondo. 2) La demolizione totale dei programmi precedenti sostituiti con un approccio metodologico incurante dei contenuti e ispirato alle tendenze più estremistiche della pedagogia dell’autoapprendimento. È questo un tema su cui ho fornito su questo giornale illustrazioni ed esempi specifici (riguardanti l’insegnamento di matematica, storia, geografia, letteratura ecc.) senza nessuno che mai si sognasse di opporre la minima obiezione. 3) I processi di formazione degli insegnanti (in particolare dei maestri) hanno visto un’espansione geometrica della parte dedicata alle materie psico-pedagogico-relazionali a discapito di quelle disciplinari, ridotte talora al 20% del curriculum. Siamo allo scandalo che si può riuscire ad abilitarsi come maestri senza aver seguito più di una trentina di ore di matematica o di storia (soltanto moderna). Su questo giornale è stata pubblicata la lettera di una maestra (tra le tantissime ricevute) che illustrava lo sfacelo delle elementari, frammentate in un mosaico di attività incoerenti e che mostrava a quali inaudite tensioni sono sottoposti quegli insegnanti che resistono eroicamente al disastro provocato da “riforme” sconsiderate. Si preferisce non leggere queste testimonianze e voltarsi dall’altra parte.
Di fronte a tutto ciò ripetere accanitamente lo slogan della scuola migliore del mondo è una manifestazione di irrazionalità oppure di propaganda.
Sempre su queste pagine sono state spiegate ripetutamente le ragioni didattiche, pedagogiche e culturali che giustificano pienamente la scelta del maestro unico. Non le ripeterò per non fare il verso al disco rotto, anche se è comunque meglio ripetere argomenti piuttosto che slogan. Ma quando si legge che «il ritorno del maestro unico è una proposta senza senso, funzionale a ridurre in modo contabile i docenti, ma priva di basi psico-pedagogiche» (sempre Garavaglia), viene da dire che quel che è troppo è troppo. Se si vogliono usare termini forti come “senza senso” e “privo di basi”, occorre produrre argomenti e rispondere a quelli altrui. E, se non si hanno argomenti, occorre avere il buon gusto di tacere.
(Libero, 24 settembre 2008)
mercoledì 17 settembre 2008
La viltà che lega una rana crocifissa al silenzio sulle persecuzioni dei cristiani
Finora non pare che sia servita la denuncia di Angelo Panebianco né l’iniziativa promossa dalla Fondazione Liberal per risvegliare l’attenzione sullo scandalo delle persecuzioni e dei massacri di cristiani che si svolgono da ogni parte del mondo. Troppi, mentre sono pronti a sollevarsi strepitando di razzismo genocida quando si propone di prendere le impronte ai bambini dei campi nomadi, voltano lo sguardo dall’altra parte di fronte ai massacri concreti di cristiani. Una delle cause principali è stata identificata da Angelo Panebianco nell’«atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo “scontro di civiltà”. Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse». Il “politicamente corretto” ipocrita e suicida porta a tacere e persino a giustificare ogni crimine compiuto dall’“altro” e a considerare il massacro di cristiani come un normale prezzo da pagare per le colpe della civiltà occidentale.
Questo atteggiamento è testimoniato da tanti fatti tra cui va sottolineata l’asimmetria che porta a condannare le vignette danesi su Maometto come un’efferata provocazione che avrebbe giustificato lo scatenamento di un’autentica guerra di religione da parte di gruppi fanatici musulmani di mezzo mondo, mentre si giustificano e difendono a spada tratta le “opere d’arte” che rappresentano una rana crocefissa o un’erezione di Gesù in croce. Nel primo caso si deplora l’offesa a una figura sacra per i musulmani, di fronte alla quale la libertà di espressione deve inchinarsi e sapersi limitare. Nel secondo caso, il simbolo sacro e il valore che esso ha per i cattolici deve inchinarsi di fronte alla libertà di espressione e all’assoluta indipendenza dell’“arte” che non può limitarsi di fronte a nulla e nessuno, anche se nei fatti questo “nulla e nessuno” ha nomi e cognomi ben precisi: è lecito fare strame della croce o paragonare la verga di Mosé a un fallo ma tutti debbono inginocchiarsi di fronte al sacro turbante di Maometto.
Quel che è tragicamente penoso in questa faccenda è il richiamo alla libertà “artistica” e che professori universitari di storia dell’arte o conservatori di musei parlino con sussiego di opere d’“arte” è un segno dello sfacelo della nostra cultura, del modo in cui vengono svenduti senza dignità le nozioni più elementari in nome della cupidigia di asservimento all’“altro”. Occorrerebbe ricordare a questi solerti “intellettuali” che un oggetto per essere definito un’opera d’arte deve soddisfare alcune caratteristiche minime, tra cui la messa in opera, per la sua produzione, di una maestrìa non alla portata di chiunque e una finalità espressiva che miri a trasmettere significati universali. Non basta prendere una tazza di gabinetto, una cacca, disegnare o scolpire un fallo in erezione – secondo la migliore tradizione della grafica da cesso pubblico – mettervi sotto una scritta ermetica e riuscire a esporlo in una mostra perché realizzare un’opera d’“arte”. Perché, in tal caso, l’unica “arte” che viene messa in atto è quella dell’astuzia mediatica e dell’abilità nell’intrallazzare per inserirsi nei circuiti espositivi. Non si sa se ridere o piangere sentendo uno di questi “intellettuali” paragonare la rana di Bolzano alla Cappella Sistina di Michelangelo. Questa cupidigia di asservimento che fa strame dell’arte in nome di una cultura che non merita più di essere chiamata tale è uno dei terreni su cui si alimenta l’indifferenza per le stragi e i massacri dei cristiani.
(Tempi, 17 settembre 2008)
Questo atteggiamento è testimoniato da tanti fatti tra cui va sottolineata l’asimmetria che porta a condannare le vignette danesi su Maometto come un’efferata provocazione che avrebbe giustificato lo scatenamento di un’autentica guerra di religione da parte di gruppi fanatici musulmani di mezzo mondo, mentre si giustificano e difendono a spada tratta le “opere d’arte” che rappresentano una rana crocefissa o un’erezione di Gesù in croce. Nel primo caso si deplora l’offesa a una figura sacra per i musulmani, di fronte alla quale la libertà di espressione deve inchinarsi e sapersi limitare. Nel secondo caso, il simbolo sacro e il valore che esso ha per i cattolici deve inchinarsi di fronte alla libertà di espressione e all’assoluta indipendenza dell’“arte” che non può limitarsi di fronte a nulla e nessuno, anche se nei fatti questo “nulla e nessuno” ha nomi e cognomi ben precisi: è lecito fare strame della croce o paragonare la verga di Mosé a un fallo ma tutti debbono inginocchiarsi di fronte al sacro turbante di Maometto.
Quel che è tragicamente penoso in questa faccenda è il richiamo alla libertà “artistica” e che professori universitari di storia dell’arte o conservatori di musei parlino con sussiego di opere d’“arte” è un segno dello sfacelo della nostra cultura, del modo in cui vengono svenduti senza dignità le nozioni più elementari in nome della cupidigia di asservimento all’“altro”. Occorrerebbe ricordare a questi solerti “intellettuali” che un oggetto per essere definito un’opera d’arte deve soddisfare alcune caratteristiche minime, tra cui la messa in opera, per la sua produzione, di una maestrìa non alla portata di chiunque e una finalità espressiva che miri a trasmettere significati universali. Non basta prendere una tazza di gabinetto, una cacca, disegnare o scolpire un fallo in erezione – secondo la migliore tradizione della grafica da cesso pubblico – mettervi sotto una scritta ermetica e riuscire a esporlo in una mostra perché realizzare un’opera d’“arte”. Perché, in tal caso, l’unica “arte” che viene messa in atto è quella dell’astuzia mediatica e dell’abilità nell’intrallazzare per inserirsi nei circuiti espositivi. Non si sa se ridere o piangere sentendo uno di questi “intellettuali” paragonare la rana di Bolzano alla Cappella Sistina di Michelangelo. Questa cupidigia di asservimento che fa strame dell’arte in nome di una cultura che non merita più di essere chiamata tale è uno dei terreni su cui si alimenta l’indifferenza per le stragi e i massacri dei cristiani.
(Tempi, 17 settembre 2008)
martedì 16 settembre 2008
SUPERFICIALITA' E MANCANZA DI SERIETA' ASSOLUTA
GRAN PARTE DELLE AGENZIE RIFERISCE CHE IL MINISTRO GELMINI AVREBBE ISTITUITO UNA "COMMISSIONE AD HOC PER I PRECARI".
COME RISULTA DAL DM 30/07/08 IL GRUPPO DI LAVORO CUI SI FA RIFERIMENTO HA «IL COMPITO DI DEFINIRE I REQUISITI E LE MODALITA' DELLA FORMAZIONE INIZIALE DEL PERSONALE DOCENTE DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE ATTRAVERSO LA DEFINIZIONE DEI RELATIVI ORDINAMENTI DIDATTICI UNIVERSITARI AI SENSI DEL DM N. 270/04».
PERTANTO I PRECARI NON C'ENTRANO NULLA.
IL MINISTRO HA PARLATO DI AFFRONTARE LA QUESTIONE DEL IX CICLO SSIS E POI HA PARLATO DI QUESTA COMMISSIONE CHE DEVE "RIVEDERE IL MECCANISMO DI FORMAZIONE DEI DOCENTI".
IL RISULTATO NELLA PENNA DI CERTI GIORNALI E AGENZIE E' STATO UN PASTROCCHIO TOTALE.
QUESTA COMMISSIONE NON SI OCCUPA DI PRECARI.
COME RISULTA DAL DM 30/07/08 IL GRUPPO DI LAVORO CUI SI FA RIFERIMENTO HA «IL COMPITO DI DEFINIRE I REQUISITI E LE MODALITA' DELLA FORMAZIONE INIZIALE DEL PERSONALE DOCENTE DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE ATTRAVERSO LA DEFINIZIONE DEI RELATIVI ORDINAMENTI DIDATTICI UNIVERSITARI AI SENSI DEL DM N. 270/04».
PERTANTO I PRECARI NON C'ENTRANO NULLA.
IL MINISTRO HA PARLATO DI AFFRONTARE LA QUESTIONE DEL IX CICLO SSIS E POI HA PARLATO DI QUESTA COMMISSIONE CHE DEVE "RIVEDERE IL MECCANISMO DI FORMAZIONE DEI DOCENTI".
IL RISULTATO NELLA PENNA DI CERTI GIORNALI E AGENZIE E' STATO UN PASTROCCHIO TOTALE.
QUESTA COMMISSIONE NON SI OCCUPA DI PRECARI.
lunedì 15 settembre 2008
Primo giorno di scuola
L’anno scolastico si apre in una fase cruciale per il futuro della scuola italiana. È da augurarsi che prevalgano atteggiamenti razionali e costruttivi, che si prenda atto dei problemi anziché oscurarli con gli slogan, le fasce nere al braccio e le occupazioni di scuole. Si ripete ogni giorno che nessun paese come l’Italia ha tanti insegnanti mal pagati e frustrati. Non è razionale ignorarlo e chiedere altre infornate di precari. L’era della scuola come ammortizzatore sociale è finita ed è irresponsabile tentare di perpetuarla. La nostra scuola è afflitta dal bullismo, dalla mancanza di disciplina e dal disordine. Non è razionale opporre alle misure del ministro Gelmini sul ripristino del voto in condotta, dei voti in pagella e del recuperi dei debiti formativi, il solito “ben altro servirebbe” , che si riduce a riproporre ostinatamente le ricette che hanno condotto all’attuale situazione. Grandinano sulla nostra scuola valutazioni negative che collocano a livelli molto bassi i nostri studenti, soprattutto per le conoscenze matematiche e linguistiche. Nell’impossibilità di ignorare questi fatti, troppi si comportano come se dipendessero da tutto salvo che dalla scuola: per loro, è come se si trattasse degli effetti di una grandinata su un magnifico vigneto. Tutto ciò è ridicolo. I pessimi rendimenti della scuola italiana non sono effetto del destino cinico e baro.
È quindi da sperare che, di fronte ai provvedimenti presi dal Ministro Gelmini – e da quelli che seguiranno – ci si astenga da agitazioni inconsulte e irragionevoli; tanto più in quanto basta guardare ai sondaggi in rete dei maggiori quotidiani per constatare che questi primi provvedimenti ottengono gradimenti dall’80% al 90%. È inutile illudersi di essere maggioranza solo perché si strilla di più, parlare a sproposito di “rivolta delle famiglie”, opporsi a tutti i costi avanzando quelle che Mario Pirani ha definito critiche «fastidiose e inconcludenti mosse in nome di uno slogan tipico degli eserciti destinati alla sconfitta: “indietro non si torna”». Quando “Famiglia Cristiana” accusa il Ministro di procedere senza dibattiti e confronti con il mondo della scuola, e senza consultare esperti, «solo con le competenze di casa sua, la madre e la sorella maestre» non soltanto ricorre a polemiche di infimo livello, ma rivela il vero intento: quel che si vuole non è tanto il dialogo quanto il continuare a considerare come referente principale e unico “competente” quel complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale. Altrimenti, si dice, «la scuola resterà, come diceva don Milani, un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati». Il fatto è che la scuola che cura i sani e rifiuta i malati è proprio quella di oggi, più di quella di ieri. Dopo aver predicato per decenni contro la “scuola di classe”, essa è stata finalmente realizzata, appiattendo tutti verso il livello più basso anziché motivare tutti a elevarsi verso l’alto. In nome dell’interesse primario per il “malato” abbiamo creato una scuola dequalificata che lascia soltanto ai figli dei colti e dei ricchi la possibilità di andare avanti mentre i “malati” sono condannati a restare tali, se non ad ammalarsi più gravemente. È probabile che oggi don Milani, da persona intelligente e intellettualmente onesta, si metterebbe le mani nei capelli nel vedere a cosa ha condotto la demagogia egualitarista e prenderebbe le distanze dal “donmilanismo”, a differenza chi si crogiola nel conservatorismo delle idee preconcette e degli interessi costituiti.
Il conservatorismo si nutre di slogan ripetuti ossessivamente senza riguardo ai fatti. Il più clamoroso di questi slogan è la formula secondo cui la scuola elementare italiana sarebbe una delle migliori del mondo e l’introduzione del maestro unico distruggerebbe il “fiore all’occhiello” della nazione. Si citano statistiche che proverebbero tale qualità, tra cui un recentissimo rapporto Ocse che, nel sottolineare la generale catastrofe della scuola italiana, salverebbe le primarie. Non si dice però che anche questo rapporto riguarda dati meramente strutturali e non ha preso in esame la qualità degli apprendimenti: che l’Italia investa nella scuola primaria più risorse della media Ocse è evidente (visto il numero di maestri!) e soltanto per questo si colloca in buona posizione. Ma ciò non dice nulla sui risultati di tali investimenti! Difatti, la stessa Ocse ha osservato che il vero problema è che i fondi sono spesi esattamente all’opposto di quanto fa la Corea del Sud dove vi sono meno professori e meglio pagati. E pure entro il quadro Ocse – le cui primarie sfigurano rispetto a quelle di diversi paesi emergenti – le classi elementari italiane hanno un numero di alunni inferiore alla media e tempi netti di insegnamento molto bassi.
Chi ripete lo slogan che la scuola primaria italiana è tra le migliori del mondo sfrutta la buona fede di chi crede che essa sia sempre la stessa e non sa che è stata rivoltata come un calzino dal 1985 in poi. Essa è piuttosto il fiore all’occhiello del pedagogismo dell’autoapprendimento, dell’“apprendere ad apprendere” in barba alle conoscenze, del “meglio una testa vuota ben fatta che una testa piena”. È la scuola in cui non si insegnano i “fatterelli” della storia – come ha scritto una maestra su questo giornale – bensì si studia la linea del tempo, le dinamiche astratte dei processi storici, le “cause” del crollo degli imperi senza conoscere un solo impero reale. È la scuola in cui la geografia è studio astratto della “spazialità”, analisi del “davanti”, “dietro”, “sopra” e “sotto” (orrendamente chiamati “indicatori topologici”). È la scuola in cui la matematica è ridotta a manipolazioni con disegni e colori. È una scuola frantumata in miriadi di “offerte formative” disparate: sicurezza, privacy, prevenzione incendi, progetti di canto, teatro, danza, fotografia ecc.
Si guardi inoltre al percorso formativo attuale di un maestro. Non sono pochi i corsi di laurea che permettono di diventare maestri seguendo una trentina di ore di matematica e di storia moderna (soltanto moderna), con casi limite in cui la matematica è opzionale rispetto a materie come la pediatria. La componente psicopedagogica è dilatata in modo esorbitante fino a occupare l’80% del corso di studio relegando la parte disciplinare alla misera quota restante. Così otterremmo maestri specializzati capaci di produrre un mirabile intreccio di competenze? In realtà, oggi noi formiamo psicopedagoghi dotati di un’evanescente infarinatura di conoscenze disciplinari. Per cui, la polemica contro il maestro unico “tuttologo” è priva di qualsiasi serio fondamento.
Va comunque detto che se la scuola italiana (non soltanto la primaria) non va a fondo del tutto è per merito di migliaia di insegnanti che continuano a concepire la loro professione come una missione educativa basata sulla trasmissione della conoscenza e che, non a caso, sono considerati da certi teorici dell’ “apprendere ad apprendere” come il più grande ostacolo al dominio incontrastato delle loro fallimentari teorie.
(Il Messaggero, 15 settembre 2008)
È quindi da sperare che, di fronte ai provvedimenti presi dal Ministro Gelmini – e da quelli che seguiranno – ci si astenga da agitazioni inconsulte e irragionevoli; tanto più in quanto basta guardare ai sondaggi in rete dei maggiori quotidiani per constatare che questi primi provvedimenti ottengono gradimenti dall’80% al 90%. È inutile illudersi di essere maggioranza solo perché si strilla di più, parlare a sproposito di “rivolta delle famiglie”, opporsi a tutti i costi avanzando quelle che Mario Pirani ha definito critiche «fastidiose e inconcludenti mosse in nome di uno slogan tipico degli eserciti destinati alla sconfitta: “indietro non si torna”». Quando “Famiglia Cristiana” accusa il Ministro di procedere senza dibattiti e confronti con il mondo della scuola, e senza consultare esperti, «solo con le competenze di casa sua, la madre e la sorella maestre» non soltanto ricorre a polemiche di infimo livello, ma rivela il vero intento: quel che si vuole non è tanto il dialogo quanto il continuare a considerare come referente principale e unico “competente” quel complesso sindacale-psico-pedagogico-docimologico che domina la scuola da trent’anni e che è responsabile del suo stato attuale. Altrimenti, si dice, «la scuola resterà, come diceva don Milani, un ospedale che cura i sani e rifiuta i malati». Il fatto è che la scuola che cura i sani e rifiuta i malati è proprio quella di oggi, più di quella di ieri. Dopo aver predicato per decenni contro la “scuola di classe”, essa è stata finalmente realizzata, appiattendo tutti verso il livello più basso anziché motivare tutti a elevarsi verso l’alto. In nome dell’interesse primario per il “malato” abbiamo creato una scuola dequalificata che lascia soltanto ai figli dei colti e dei ricchi la possibilità di andare avanti mentre i “malati” sono condannati a restare tali, se non ad ammalarsi più gravemente. È probabile che oggi don Milani, da persona intelligente e intellettualmente onesta, si metterebbe le mani nei capelli nel vedere a cosa ha condotto la demagogia egualitarista e prenderebbe le distanze dal “donmilanismo”, a differenza chi si crogiola nel conservatorismo delle idee preconcette e degli interessi costituiti.
Il conservatorismo si nutre di slogan ripetuti ossessivamente senza riguardo ai fatti. Il più clamoroso di questi slogan è la formula secondo cui la scuola elementare italiana sarebbe una delle migliori del mondo e l’introduzione del maestro unico distruggerebbe il “fiore all’occhiello” della nazione. Si citano statistiche che proverebbero tale qualità, tra cui un recentissimo rapporto Ocse che, nel sottolineare la generale catastrofe della scuola italiana, salverebbe le primarie. Non si dice però che anche questo rapporto riguarda dati meramente strutturali e non ha preso in esame la qualità degli apprendimenti: che l’Italia investa nella scuola primaria più risorse della media Ocse è evidente (visto il numero di maestri!) e soltanto per questo si colloca in buona posizione. Ma ciò non dice nulla sui risultati di tali investimenti! Difatti, la stessa Ocse ha osservato che il vero problema è che i fondi sono spesi esattamente all’opposto di quanto fa la Corea del Sud dove vi sono meno professori e meglio pagati. E pure entro il quadro Ocse – le cui primarie sfigurano rispetto a quelle di diversi paesi emergenti – le classi elementari italiane hanno un numero di alunni inferiore alla media e tempi netti di insegnamento molto bassi.
Chi ripete lo slogan che la scuola primaria italiana è tra le migliori del mondo sfrutta la buona fede di chi crede che essa sia sempre la stessa e non sa che è stata rivoltata come un calzino dal 1985 in poi. Essa è piuttosto il fiore all’occhiello del pedagogismo dell’autoapprendimento, dell’“apprendere ad apprendere” in barba alle conoscenze, del “meglio una testa vuota ben fatta che una testa piena”. È la scuola in cui non si insegnano i “fatterelli” della storia – come ha scritto una maestra su questo giornale – bensì si studia la linea del tempo, le dinamiche astratte dei processi storici, le “cause” del crollo degli imperi senza conoscere un solo impero reale. È la scuola in cui la geografia è studio astratto della “spazialità”, analisi del “davanti”, “dietro”, “sopra” e “sotto” (orrendamente chiamati “indicatori topologici”). È la scuola in cui la matematica è ridotta a manipolazioni con disegni e colori. È una scuola frantumata in miriadi di “offerte formative” disparate: sicurezza, privacy, prevenzione incendi, progetti di canto, teatro, danza, fotografia ecc.
Si guardi inoltre al percorso formativo attuale di un maestro. Non sono pochi i corsi di laurea che permettono di diventare maestri seguendo una trentina di ore di matematica e di storia moderna (soltanto moderna), con casi limite in cui la matematica è opzionale rispetto a materie come la pediatria. La componente psicopedagogica è dilatata in modo esorbitante fino a occupare l’80% del corso di studio relegando la parte disciplinare alla misera quota restante. Così otterremmo maestri specializzati capaci di produrre un mirabile intreccio di competenze? In realtà, oggi noi formiamo psicopedagoghi dotati di un’evanescente infarinatura di conoscenze disciplinari. Per cui, la polemica contro il maestro unico “tuttologo” è priva di qualsiasi serio fondamento.
Va comunque detto che se la scuola italiana (non soltanto la primaria) non va a fondo del tutto è per merito di migliaia di insegnanti che continuano a concepire la loro professione come una missione educativa basata sulla trasmissione della conoscenza e che, non a caso, sono considerati da certi teorici dell’ “apprendere ad apprendere” come il più grande ostacolo al dominio incontrastato delle loro fallimentari teorie.
(Il Messaggero, 15 settembre 2008)
domenica 14 settembre 2008
Ignoranza della lingua italiana
Un tema estivo prediletto dalla stampa è stato quello della dilagante ignoranza della lingua italiana. Alcuni articoli hanno illustrato, con dovizia di esempi, la prosa sgrammaticata e asintattica di molti docenti universitari, per concludere: se questi sono i pulpiti c’è poco da sperare.
È vero, gli esempi si sprecano. Di recente, ho letto un documento di critica degli orientamenti in tema di istruzione del governo, accusato di avere come unico disegno «l’impoverimento del sistema». Se qualcuno è in grado di dimostrare che la frase seguente ha un senso coerente rivelerò l’autorevole consesso da cui proviene, altrimenti sarà preferibile tacere per carità di patria: «Questa scelta è particolarmente acutizzata dalla sostanziale evanescenza della prospettiva di medio termine e da un’approfondita consapevolezza del ruolo dell’Università contro la recessione economica e civile del paese». Il documento proseguiva lamentando l’abitudine italiana di «imprimere un brusco cambiamento alle policies all’appuntamento con un nuovo esecutivo» e richiedeva «in via prioritaria alla politica un chiarimento della vision dell’Università, unica precondizione [perché non “condizione”?] per accettare sacrifici altrimenti privi di motivazione».
È un periodare originale compensato da un commovente attaccamento alla tradizione. A distanza di mezzo secolo Santi Bailor (l’americano a Roma di Alberto Sordi) fa ancora scuola: tra “vision” e “policies” un “shana-gana-uana” non guasterebbe.
Ma di che stupirsi? Si pensi al fatto che troppe case editrici hanno liquidato redattori che avevano accumulato esperienze decennali per realizzare economie attraverso il sistema dell’esternalizzazione (outsourcing), ovvero dell’appalto esterno a “ditte” e singoli. Il risultato è che i testi vengono dilaniati da persone di modestissimo livello che sfogano le loro frustrazioni intervenendo su questioni di merito e di stile, senza sporcarsi le mani con il vile compito della correzione dei refusi, i quali restano intatti mentre vengono decapitati in massa i congiuntivi e l’autore deve lottare per non far riscrivere in italiano “moderno” citazioni virgolettate di autori italiani dell’Ottocento o del primo Novecento.
È noto il caso di un celebre dizionario della lingua italiana di cui si voleva fare una nuova edizione digitalizzata. Occorreva scansionarlo e siccome anche le migliori scansioni producono molti errori, la ditta che aveva avuto l’appalto esterno ebbe l’idea geniale di ripassare il risultato con il correttore automatico italiano di Word Microsoft… Qualsiasi persona ragionevole può immaginare il risultato.
Siamo di fronte a una distruzione di competenze e conoscenze dovuta a molti fattori tra cui primeggiano: l’adozione di criteri di economia ed efficienza totalmente indipendenti da ogni valutazione di merito e che quindi si risolvono in sperperi, inefficienze e prodotti di cattivo livello; l’assunzione di massa di un gran numero di docenti senza verificarne seriamente la cultura e la preparazione, per ragioni meramente sindacali e clientelari, salvo poi lamentarsi quando si legge sul quaderno del bambino che l’insegnante ha dettato: «Oggi la maestra ci ha imparato…» (è autentica).
Non mancano molti altri fattori su cui non possiamo diffonderci. Colpisce il fatto che coloro che hanno ricoperto posizioni di grande rilievo nel campo dell’istruzione o hanno avuto un’influenza decisiva nelle istituzioni e nelle imprese culturali italiane parlino di questo disastro come se si trattasse di un evento naturale, di una grandinata opera del destino cinico e baro. E magari critichino i tentativi di porvi rimedio come una reazione passatista.
(Tempi, 11 settembre 2008)
È vero, gli esempi si sprecano. Di recente, ho letto un documento di critica degli orientamenti in tema di istruzione del governo, accusato di avere come unico disegno «l’impoverimento del sistema». Se qualcuno è in grado di dimostrare che la frase seguente ha un senso coerente rivelerò l’autorevole consesso da cui proviene, altrimenti sarà preferibile tacere per carità di patria: «Questa scelta è particolarmente acutizzata dalla sostanziale evanescenza della prospettiva di medio termine e da un’approfondita consapevolezza del ruolo dell’Università contro la recessione economica e civile del paese». Il documento proseguiva lamentando l’abitudine italiana di «imprimere un brusco cambiamento alle policies all’appuntamento con un nuovo esecutivo» e richiedeva «in via prioritaria alla politica un chiarimento della vision dell’Università, unica precondizione [perché non “condizione”?] per accettare sacrifici altrimenti privi di motivazione».
È un periodare originale compensato da un commovente attaccamento alla tradizione. A distanza di mezzo secolo Santi Bailor (l’americano a Roma di Alberto Sordi) fa ancora scuola: tra “vision” e “policies” un “shana-gana-uana” non guasterebbe.
Ma di che stupirsi? Si pensi al fatto che troppe case editrici hanno liquidato redattori che avevano accumulato esperienze decennali per realizzare economie attraverso il sistema dell’esternalizzazione (outsourcing), ovvero dell’appalto esterno a “ditte” e singoli. Il risultato è che i testi vengono dilaniati da persone di modestissimo livello che sfogano le loro frustrazioni intervenendo su questioni di merito e di stile, senza sporcarsi le mani con il vile compito della correzione dei refusi, i quali restano intatti mentre vengono decapitati in massa i congiuntivi e l’autore deve lottare per non far riscrivere in italiano “moderno” citazioni virgolettate di autori italiani dell’Ottocento o del primo Novecento.
È noto il caso di un celebre dizionario della lingua italiana di cui si voleva fare una nuova edizione digitalizzata. Occorreva scansionarlo e siccome anche le migliori scansioni producono molti errori, la ditta che aveva avuto l’appalto esterno ebbe l’idea geniale di ripassare il risultato con il correttore automatico italiano di Word Microsoft… Qualsiasi persona ragionevole può immaginare il risultato.
Siamo di fronte a una distruzione di competenze e conoscenze dovuta a molti fattori tra cui primeggiano: l’adozione di criteri di economia ed efficienza totalmente indipendenti da ogni valutazione di merito e che quindi si risolvono in sperperi, inefficienze e prodotti di cattivo livello; l’assunzione di massa di un gran numero di docenti senza verificarne seriamente la cultura e la preparazione, per ragioni meramente sindacali e clientelari, salvo poi lamentarsi quando si legge sul quaderno del bambino che l’insegnante ha dettato: «Oggi la maestra ci ha imparato…» (è autentica).
Non mancano molti altri fattori su cui non possiamo diffonderci. Colpisce il fatto che coloro che hanno ricoperto posizioni di grande rilievo nel campo dell’istruzione o hanno avuto un’influenza decisiva nelle istituzioni e nelle imprese culturali italiane parlino di questo disastro come se si trattasse di un evento naturale, di una grandinata opera del destino cinico e baro. E magari critichino i tentativi di porvi rimedio come una reazione passatista.
(Tempi, 11 settembre 2008)
giovedì 11 settembre 2008
Una lettera interessante su cui riflettere
Buongiorno,
innanzi tutto mi presento: mi chiamo Sergio Giudici , ricercatore presso il Dip. di Fisica dell'universita' di Pisa e membro della collaborazione NA48 del CERN che studia la fisica dei mesoni K (nulla a che vedere con il celebrato LHC)
Ho letto il suo recente "I nemici della scienza" con cui sono quasi totalmente in accordo soprattutto riguardo la cosiddetta comunicazione scientifica e certi atteggiamenti odiosamente scientisti ostentati da una certi esponenti della nostra cultura.
Le scrivo perche' in questi giorni di bailamme mediatico legato alla inaugurazione del nuovo acceleratore del CERN LHC, si fa da molte parti uno straparlare di origine dell'universo, e qualcuno dovrebbe denunciare il grande abuso di linguaggio (o meglio il grossolano errore epistemologico) commesso da chi va spacciando il nuovo acceleratore come la macchina in grado di riprodurre le condizioni prossime all'istante - se mai c'e' stato - della creazione.
La sovrastruttura ideologica di questo modo di presentare l'argomento e' talmente greve ed ovvia che e' meglio non discuterla.
L'acceleratore del CERN e' una macchina che fara' scontrare tra loro protoni realizzando nel centro di massa una energia mai raggiunta prima. La cosa che interessa ai Fisici e' cercare in questo territorio energeticamente ancora inesplorato nuove particelle e nuovi fenomeni tali da poter discriminare sperimentalmente tra varie proposte teoriche.
Al posto di presentare questa semplice idea (energia maggiore di quelle mai raggiunte prima), invece di dire quanto vale questa energia i comunicatori preferiscono utilizzare una diversa scala di misura: essi trasformano l'energia in tempo e viene detto che si tratta della stessa energia a cui mediamente si trovavano le particelle a circa 10^(-45) secondi dopo il Big Bang.
Da qui il legame spettacolare e sensazionalistico del mito delle origini finalmente sottratto dall'esclusiva delle religioni e consegnato ripulito nelle mani degli scienziati.
Questo banale cambio di unita' di misura poggia su alcune teorie cosmologiche, la cui onesta' intellettuale e' fuori discussione, ma essenzialmente e' un raggiro.
Nessuno sapra' mai cosa e' successo 10^-45 s dopo la creazione, siamo liberi di immaginarcelo come vogliamo.
i cosmologi se lo immaginano a modo loro facendo seguire alla loro immaginazione alcune regole, ma essenzialmente la questione delle origini e' irrilevante.
Le teorie cosmologiche non creano conoscenza ma semmai riassumono tutte le conoscenze disponibili. In ogni racconto sulle origini sono proiettate le conoscenze di cui disponiamo gia'.
La cosmologia serve in quanto indispensabile cornice filosofica ma e' sempre racconto (talvolta meraviglioso poema scientifico onnicomprensivo) non falsificabile. Parafrasando Hegel , in un certo senso la cosmologia e' la nottola di Minerva che si leva al crepuscolo quando tutte le conoscenze sono gia' state acquisite.
L'acceleratore LHC non e' stato fatto per studiare l'origine dell'universo , e' stato fatto per scoprire nuovi fenomeni. La mia disciplina - la fisica delle particelle - non si occupa di origine del cosmo. L'energia si misura in Joule, (o ElettronVolt) non si misura in secondi dopo la creazione.
Chi lo fa si sta mettendo al servizio di qualche operazione ideologica.
Sergio Giudici
innanzi tutto mi presento: mi chiamo Sergio Giudici , ricercatore presso il Dip. di Fisica dell'universita' di Pisa e membro della collaborazione NA48 del CERN che studia la fisica dei mesoni K (nulla a che vedere con il celebrato LHC)
Ho letto il suo recente "I nemici della scienza" con cui sono quasi totalmente in accordo soprattutto riguardo la cosiddetta comunicazione scientifica e certi atteggiamenti odiosamente scientisti ostentati da una certi esponenti della nostra cultura.
Le scrivo perche' in questi giorni di bailamme mediatico legato alla inaugurazione del nuovo acceleratore del CERN LHC, si fa da molte parti uno straparlare di origine dell'universo, e qualcuno dovrebbe denunciare il grande abuso di linguaggio (o meglio il grossolano errore epistemologico) commesso da chi va spacciando il nuovo acceleratore come la macchina in grado di riprodurre le condizioni prossime all'istante - se mai c'e' stato - della creazione.
La sovrastruttura ideologica di questo modo di presentare l'argomento e' talmente greve ed ovvia che e' meglio non discuterla.
L'acceleratore del CERN e' una macchina che fara' scontrare tra loro protoni realizzando nel centro di massa una energia mai raggiunta prima. La cosa che interessa ai Fisici e' cercare in questo territorio energeticamente ancora inesplorato nuove particelle e nuovi fenomeni tali da poter discriminare sperimentalmente tra varie proposte teoriche.
Al posto di presentare questa semplice idea (energia maggiore di quelle mai raggiunte prima), invece di dire quanto vale questa energia i comunicatori preferiscono utilizzare una diversa scala di misura: essi trasformano l'energia in tempo e viene detto che si tratta della stessa energia a cui mediamente si trovavano le particelle a circa 10^(-45) secondi dopo il Big Bang.
Da qui il legame spettacolare e sensazionalistico del mito delle origini finalmente sottratto dall'esclusiva delle religioni e consegnato ripulito nelle mani degli scienziati.
Questo banale cambio di unita' di misura poggia su alcune teorie cosmologiche, la cui onesta' intellettuale e' fuori discussione, ma essenzialmente e' un raggiro.
Nessuno sapra' mai cosa e' successo 10^-45 s dopo la creazione, siamo liberi di immaginarcelo come vogliamo.
i cosmologi se lo immaginano a modo loro facendo seguire alla loro immaginazione alcune regole, ma essenzialmente la questione delle origini e' irrilevante.
Le teorie cosmologiche non creano conoscenza ma semmai riassumono tutte le conoscenze disponibili. In ogni racconto sulle origini sono proiettate le conoscenze di cui disponiamo gia'.
La cosmologia serve in quanto indispensabile cornice filosofica ma e' sempre racconto (talvolta meraviglioso poema scientifico onnicomprensivo) non falsificabile. Parafrasando Hegel , in un certo senso la cosmologia e' la nottola di Minerva che si leva al crepuscolo quando tutte le conoscenze sono gia' state acquisite.
L'acceleratore LHC non e' stato fatto per studiare l'origine dell'universo , e' stato fatto per scoprire nuovi fenomeni. La mia disciplina - la fisica delle particelle - non si occupa di origine del cosmo. L'energia si misura in Joule, (o ElettronVolt) non si misura in secondi dopo la creazione.
Chi lo fa si sta mettendo al servizio di qualche operazione ideologica.
Sergio Giudici
lunedì 8 settembre 2008
Questa è la scuola elementare "migliore del mondo"
Di lettere come questa ne ricevo parecchie, ma poche come questa descrivono in modo così pregnante i nodi che stanno strangolando la nostra scuola. Non credo che vi sia bisogno di ulteriori commenti da parte mia. Trasmetto la lettera omettendo la firma, lasciando all’autrice la libertà di renderla nota.
Cosa rispondere alla domanda sul “che fare”? Soltanto che non bisogna mollare a nessun costo. Ne va del futuro dei nostri figli e del nostro paese. Bisogna far sentire alta la richiesta di un cambiamento radicale che spazzi via tutto il ciarpame ideologico che affligge la scuola. E occorre ricordare che è grazie a insegnanti come questi – cui ciascuno sarebbe felice di poter affidare i propri figli – che la barca sfondata della nostra scuola riesce ancora a non andare del tutto a picco.
Giorgio Israel
Caro professore,
ho 35 anni e insegno italiano, storia, geografia (...eccetera) in una scuola primaria
Con grande interesse seguo i suoi interventi e ho da poco terminato la lettura dell’ultimo libro che ha scritto: “Chi sono i nemici della scienza”. Condivido con entusiasmo le sue posizioni nel denunciare senza mezzi termini la desolante verità sulla crisi del sistema scolastico e di quello universitario. Quando la leggo posso pensare che non sono pazza, mentre sembra sciogliersi la sensazione di essere stretta da un laccio al collo.
Il fatto è che io non riesco ad adattarmi facilmente, non mi trovo dentro questa situazione, come non si troverebbe un uomo dalla grossa taglia nel vestito di un bambino. Il mio lavoro mi appassiona: l’ho desiderato dall’età di otto anni. Entro in classe con il desiderio di consegnare un prezioso testamento ai miei alunni. Lasciare ai bambini gli strumenti per entrare nella realtà, iniziarli alla conoscenza del nostro mondo è un privilegio che amo chiamare grazia.
Pertanto, quando entro in aula vorrei dedicare il tempo concessomi a farli lavorare sulle cartine geografiche, a raccontare loro i fatti attorno ai quali si è intessuta la nostra storia, a farli esercitare fino alla noia perché imparino a coniugare i verbi, a mettere l’accento e l’apostrofo al posto giusto; vorrei farli appassionare alla lettura. Io ci provo in ogni modo, con ogni mezzo ed escamotage, ma in questa impresa sono ostacolata su ogni fronte:
- La pianificazione: dobbiamo perdere un tempo indefinito a pianificare le attività didattiche riempiendo i registri di obiettivi tanto altisonanti e numerosi quanto vaghi, vuoti e incomprensibili, corredati da dettagliate e improbabili attività per realizzarli seguendo i soliti metodi non repressivi - antitrasmissivi.
- I libri di testo: nei libri di testo, peraltro tutti sostanzialmente identici, la scelta dei brani, la loro stessa organizzazione, le proposte operative presentate a fondo pagina ruotano intorno all’unico tipo di lavoro contemplato: vivisezionare la lettura e operarci sopra una pedante e noiosissima analisi testuale.
- I corsi di aggiornamento: tutti immancabilmente incentrati sui metodi dell’autoapprendimento, oppure su ciò che non c’entra assolutamente nulla con la professione insegnante (sicurezza, prevenzione incendi, primo soccorso, privacy...).
- I colleghi: si dividono tra quelli che ti osteggiano a spada tratta e quelli che ti suggeriscono di lasciar stare per non rovinare il clima di pace raggiunto e non far ricadere anche su di loro le ire della preside
- Gli alunni e la loro preoccupante diffusissima maleducazione (speriamo che il voto in condotta e le sanzioni disciplinari servano ad arginare il degrado morale che affligge le scuole!).
- La porta... sì anche la porta dell’aula che con il suo continuo “toc toc” interrompe continuamente la lezione rompendo il miracolo dell’attenzione e del silenzio a fatica conquistati: una circolare da firmare, la collega delle medie che ti contatta per il progetto continuità, l’esperto di musica che piomba in classe e porta via tutti per il progetto “voce che canta”, l’esperto di teatro che arriva poco dopo per il progetto “voce che parla”, la psicologa che si presenta con il sorriso beota sulla faccia pensando di risolvere con esilaranti giochini la piaga del bullismo. (...eccetera... Tutto condito di un clima di ansia e disorientamento).
- Le feste: le peggiori nemiche della scuola. La visibilità (balli, canti, mostre fotografiche, cartelloni e realizzazioni pseudoartistiche) è l’imperativo categorico che accomuna tutti i fumosi, disparati e frammentari “progetti didattici” che riempiono il POF e alla cui elaborazione viene immolato gran parte del tempo dei nostri maledetti incontri collegiali.
Mi sembra che il messaggio sia chiaro: mi è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante.
Vengo al dunque perché in realtà lei queste cose le sa già alla perfezione. Quello che volevo dirle, chiedendole aiuto, è questo: la libertà di pensiero e di parola non possono togliermela, io me la prendo pur suscitando il solito vespaio, pur attirandomi numerose inimicizie. Ma quando si va al dunque ho le mani legate e le spalle al muro: le funzioni obiettivo, i corsi di aggiornamento, i progetti “continuità”, “gusti e sapori”, “voce che canta”, “voce che parla”, quelli me li affibbiano ugualmente! E non posso in alcun modo rifiutare. Se ne rifiuto uno, me ne assegnano col potere un altro e un altro ancora.
Allora secondo lei cosa può fare una povera maestra che è costretta a vivere in uno stato di frustrante alienazione? Cosa si può fare per contrastare concretamente un sistema al collasso che porterà al suicidio la nostra civiltà?
(Libero, 7 settembre 2008)
Cosa rispondere alla domanda sul “che fare”? Soltanto che non bisogna mollare a nessun costo. Ne va del futuro dei nostri figli e del nostro paese. Bisogna far sentire alta la richiesta di un cambiamento radicale che spazzi via tutto il ciarpame ideologico che affligge la scuola. E occorre ricordare che è grazie a insegnanti come questi – cui ciascuno sarebbe felice di poter affidare i propri figli – che la barca sfondata della nostra scuola riesce ancora a non andare del tutto a picco.
Giorgio Israel
Caro professore,
ho 35 anni e insegno italiano, storia, geografia (...eccetera) in una scuola primaria
Con grande interesse seguo i suoi interventi e ho da poco terminato la lettura dell’ultimo libro che ha scritto: “Chi sono i nemici della scienza”. Condivido con entusiasmo le sue posizioni nel denunciare senza mezzi termini la desolante verità sulla crisi del sistema scolastico e di quello universitario. Quando la leggo posso pensare che non sono pazza, mentre sembra sciogliersi la sensazione di essere stretta da un laccio al collo.
Il fatto è che io non riesco ad adattarmi facilmente, non mi trovo dentro questa situazione, come non si troverebbe un uomo dalla grossa taglia nel vestito di un bambino. Il mio lavoro mi appassiona: l’ho desiderato dall’età di otto anni. Entro in classe con il desiderio di consegnare un prezioso testamento ai miei alunni. Lasciare ai bambini gli strumenti per entrare nella realtà, iniziarli alla conoscenza del nostro mondo è un privilegio che amo chiamare grazia.
Pertanto, quando entro in aula vorrei dedicare il tempo concessomi a farli lavorare sulle cartine geografiche, a raccontare loro i fatti attorno ai quali si è intessuta la nostra storia, a farli esercitare fino alla noia perché imparino a coniugare i verbi, a mettere l’accento e l’apostrofo al posto giusto; vorrei farli appassionare alla lettura. Io ci provo in ogni modo, con ogni mezzo ed escamotage, ma in questa impresa sono ostacolata su ogni fronte:
- La pianificazione: dobbiamo perdere un tempo indefinito a pianificare le attività didattiche riempiendo i registri di obiettivi tanto altisonanti e numerosi quanto vaghi, vuoti e incomprensibili, corredati da dettagliate e improbabili attività per realizzarli seguendo i soliti metodi non repressivi - antitrasmissivi.
- I libri di testo: nei libri di testo, peraltro tutti sostanzialmente identici, la scelta dei brani, la loro stessa organizzazione, le proposte operative presentate a fondo pagina ruotano intorno all’unico tipo di lavoro contemplato: vivisezionare la lettura e operarci sopra una pedante e noiosissima analisi testuale.
- I corsi di aggiornamento: tutti immancabilmente incentrati sui metodi dell’autoapprendimento, oppure su ciò che non c’entra assolutamente nulla con la professione insegnante (sicurezza, prevenzione incendi, primo soccorso, privacy...).
- I colleghi: si dividono tra quelli che ti osteggiano a spada tratta e quelli che ti suggeriscono di lasciar stare per non rovinare il clima di pace raggiunto e non far ricadere anche su di loro le ire della preside
- Gli alunni e la loro preoccupante diffusissima maleducazione (speriamo che il voto in condotta e le sanzioni disciplinari servano ad arginare il degrado morale che affligge le scuole!).
- La porta... sì anche la porta dell’aula che con il suo continuo “toc toc” interrompe continuamente la lezione rompendo il miracolo dell’attenzione e del silenzio a fatica conquistati: una circolare da firmare, la collega delle medie che ti contatta per il progetto continuità, l’esperto di musica che piomba in classe e porta via tutti per il progetto “voce che canta”, l’esperto di teatro che arriva poco dopo per il progetto “voce che parla”, la psicologa che si presenta con il sorriso beota sulla faccia pensando di risolvere con esilaranti giochini la piaga del bullismo. (...eccetera... Tutto condito di un clima di ansia e disorientamento).
- Le feste: le peggiori nemiche della scuola. La visibilità (balli, canti, mostre fotografiche, cartelloni e realizzazioni pseudoartistiche) è l’imperativo categorico che accomuna tutti i fumosi, disparati e frammentari “progetti didattici” che riempiono il POF e alla cui elaborazione viene immolato gran parte del tempo dei nostri maledetti incontri collegiali.
Mi sembra che il messaggio sia chiaro: mi è concesso di fare tutto (animatore, ballerino, artista, vigile del fuoco, agente della sicurezza, crocerossina, occultatore dell’ignoranza degli alunni), tutto tranne l’insegnante.
Vengo al dunque perché in realtà lei queste cose le sa già alla perfezione. Quello che volevo dirle, chiedendole aiuto, è questo: la libertà di pensiero e di parola non possono togliermela, io me la prendo pur suscitando il solito vespaio, pur attirandomi numerose inimicizie. Ma quando si va al dunque ho le mani legate e le spalle al muro: le funzioni obiettivo, i corsi di aggiornamento, i progetti “continuità”, “gusti e sapori”, “voce che canta”, “voce che parla”, quelli me li affibbiano ugualmente! E non posso in alcun modo rifiutare. Se ne rifiuto uno, me ne assegnano col potere un altro e un altro ancora.
Allora secondo lei cosa può fare una povera maestra che è costretta a vivere in uno stato di frustrante alienazione? Cosa si può fare per contrastare concretamente un sistema al collasso che porterà al suicidio la nostra civiltà?
(Libero, 7 settembre 2008)
giovedì 4 settembre 2008
IL COMPAGNO YIMOU
Una delle più grandi soddisfazioni personali che ho avuto in questo periodo è stata di ricordare che, quando andai a vedere il film “Lanterne rosse” del regista cinese Zhang Yimou, lo trovai insopportabilmente mediocre e noioso. Un paio di ore peggiori le ho passate soltanto con “Il palloncino bianco” del regista iraniano Kiarostami. Insomma, uscii dal cinema imprecando alla Fantozzi-Villaggio: «Lanterne rosse è una cagata bestiale». Perciò ho trovato sommamente confortante (sul piano personale, s’intende) constatare che il regista Zhang Yimou è un emerito imbecille, un omuncolo di regime, un arnese del totalitarismo più becero. Cosa di buono può uscire da una mente asservita e conformista, sul piano artistico, dove soltanto la libertà può farla da padrone?
Zhang Yimou ha dichiarato che l’handicap dell’Occidente è il rispetto dei diritti umani che lo rende inefficiente e non gli consente di raggiungere gli standard elevati dei cinesi. Per il nostro genio il modello supremo sono – pensate un po’ – i nordcoreani le cui manifestazioni politico-culturali sono ispirate a un tipo di «uniformità» che «produce bellezza» di cui, per fortuna, «anche noi cinesi siamo capaci». Zhang Yimou cita la cerimonia iniziale delle Olimpiadi così perfettamente armonica e ordinata perché «gli esecutori obbedivano agli ordini ed erano in grado di farlo come un computer, perché questo è lo spirito cinese». Egli lamenta di aver avuto difficoltà a lavorare in Occidente perché «gli interpreti occidentali lavorano solo quattro giorni e mezzo a settimana, fanno due pause al giorno per il caffè, ma poi non sono nemmeno in grado di stare bene allineati» e oltretutto «hanno a disposizione organizzazioni di ogni tipo e i sindacati». Il risultato è che «i cinesi riescono a realizzare in una settimana quello che gli europei fanno in un mese».
Si potrebbe rispondere che gli italiani, malgrado siano venti volte meno numerosi dei cinesi hanno ottenuto ben più di un ventesimo delle loro medaglie e che gli americani, che sono tre volte di meno, ne hanno ottenute ben più di un terzo. Quindi, il modello cinese non è tanto efficiente. Quanto alla produttività ottenuta col lavoro forzato dei lager, la rinviamo disgustati al mittente. Dello spirito da computer non sappiamo che farcene e preferiamo di gran lunga prendere due caffè al giorno e tenerci i nostri sindacati, magari litigandoci da mane a sera. Ci piacciono da morire le battaglie tra i fannulloni e il ministro Brunetta e ove riuscissimo a realizzare una maggiore auspicata efficienza si tratterà di qualcosa di totalmente diverso dalla nauseante uniformità vantata da quel cantore di regime. Difatti quel che Zhang Yimou sta vantando – se non lo sa è un ignorante, se lo sa è qualcosa di peggio – noi occidentali lo conosciamo purtroppo molto bene, se non altro perché l’abbiamo inventato: il totalitarismo, nazifascista e comunista. E sappiamo che una delle manifestazioni esteriori tipiche del totalitarismo sono le sfilate marziali o ginniche, ordinate e armoniose, che si tratti del passo dell’oca con migliaia di gambe perfettamente allineate o delle esibizioni dei ginnasti sovietici sulla Piazza Rossa.
La tragedia di questa faccenda è che i drammi del totalitarismo novecentesco si riaffacciano nella veste di due potenti nazioni come la Cina e l’Iran, di una terza, la Russia, che vi sta ripiombando; mentre l’Occidente assiste tremebondo e, confondendo la difesa della democrazia e della libertà con il “politicamente corretto”, finisce col piegarsi al nuovo totalitarismo e vezzeggiarlo.
(Tempi, 4 settembre 2008)
Zhang Yimou ha dichiarato che l’handicap dell’Occidente è il rispetto dei diritti umani che lo rende inefficiente e non gli consente di raggiungere gli standard elevati dei cinesi. Per il nostro genio il modello supremo sono – pensate un po’ – i nordcoreani le cui manifestazioni politico-culturali sono ispirate a un tipo di «uniformità» che «produce bellezza» di cui, per fortuna, «anche noi cinesi siamo capaci». Zhang Yimou cita la cerimonia iniziale delle Olimpiadi così perfettamente armonica e ordinata perché «gli esecutori obbedivano agli ordini ed erano in grado di farlo come un computer, perché questo è lo spirito cinese». Egli lamenta di aver avuto difficoltà a lavorare in Occidente perché «gli interpreti occidentali lavorano solo quattro giorni e mezzo a settimana, fanno due pause al giorno per il caffè, ma poi non sono nemmeno in grado di stare bene allineati» e oltretutto «hanno a disposizione organizzazioni di ogni tipo e i sindacati». Il risultato è che «i cinesi riescono a realizzare in una settimana quello che gli europei fanno in un mese».
Si potrebbe rispondere che gli italiani, malgrado siano venti volte meno numerosi dei cinesi hanno ottenuto ben più di un ventesimo delle loro medaglie e che gli americani, che sono tre volte di meno, ne hanno ottenute ben più di un terzo. Quindi, il modello cinese non è tanto efficiente. Quanto alla produttività ottenuta col lavoro forzato dei lager, la rinviamo disgustati al mittente. Dello spirito da computer non sappiamo che farcene e preferiamo di gran lunga prendere due caffè al giorno e tenerci i nostri sindacati, magari litigandoci da mane a sera. Ci piacciono da morire le battaglie tra i fannulloni e il ministro Brunetta e ove riuscissimo a realizzare una maggiore auspicata efficienza si tratterà di qualcosa di totalmente diverso dalla nauseante uniformità vantata da quel cantore di regime. Difatti quel che Zhang Yimou sta vantando – se non lo sa è un ignorante, se lo sa è qualcosa di peggio – noi occidentali lo conosciamo purtroppo molto bene, se non altro perché l’abbiamo inventato: il totalitarismo, nazifascista e comunista. E sappiamo che una delle manifestazioni esteriori tipiche del totalitarismo sono le sfilate marziali o ginniche, ordinate e armoniose, che si tratti del passo dell’oca con migliaia di gambe perfettamente allineate o delle esibizioni dei ginnasti sovietici sulla Piazza Rossa.
La tragedia di questa faccenda è che i drammi del totalitarismo novecentesco si riaffacciano nella veste di due potenti nazioni come la Cina e l’Iran, di una terza, la Russia, che vi sta ripiombando; mentre l’Occidente assiste tremebondo e, confondendo la difesa della democrazia e della libertà con il “politicamente corretto”, finisce col piegarsi al nuovo totalitarismo e vezzeggiarlo.
(Tempi, 4 settembre 2008)
CONSERVATORISMO
Farebbero meglio a scorrere i sondaggi dei maggiori quotidiani secondo cui il ripristino del voto in condotta e dei voti in pagella viene approvato con percentuali fino al 90% e la reintroduzione del maestro unico con percentuali dell’ordine del 60%. Farebbero meglio a sentire quel che dicono tante famiglie e tanti insegnanti. Invece, hanno preferito partire a testa bassa e ricorrere a forme di demagogia pacchiana – come nel caso de L’Unità – parlando di “rabbia dei genitori”, “attacco alle famiglie”, “assalto alla scuola pubblica”, “privatizzazione”. Hanno preferito ignorare le dichiarazioni del ministro Gelmini («Il tempo pieno non è affatto incompatibile con il ritorno del maestro unico») e che si sta parlando di misure volte a ridare rigore e dignità educativa a una scuola pubblica in sfacelo. Certo, sono in gioco dei tagli. Ma si faccia avanti chi ha il coraggio di sostenere che la scuola e l’università italiane non siano il luogo di inauditi sperperi di risorse e del loro impiego in attività futili a detrimento di quelle essenziali. Si tratta di finanziare innovazioni volte a ridare qualità alla scuola tagliando ciò che merita di essere tagliato.
Chi si sta sollevando con tanta furia? Il solito fronte conservatore. Conservatore, s’intende, dei propri interessi di potere o di bottega che non sopporta di vedere intaccati. Si tratta di una buona parte dei sindacati della scuola, di certe congreghe di pedagogisti e didatti – già in subbuglio per la soppressione dei loro orticelli, le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario – e delle associazioni che hanno fatto della scuola il terreno di sperimentazione della didattica dell’autoapprendimento. A ciò si aggiungano le proteste degli editori che farebbero bene ad assumere un atteggiamento più riflessivo: non è anormale che in Italia si sfornino trenta volte più libri di testo di matematica che in Francia, ovvero nel paese matematicamente più avanzato d’Europa? È strano che i paladini del “pubblico” siano indifferenti alla valanga consumistica che sommerge la scuola di prodotti la cui durata è inferiore a quella di un cellulare. Dicono che mantenere ferma l’edizione di un libro per cinque anni sia troppo. Ebbene, se un libro di matematica per le scuole è buono è meglio che resti fermo anche per vent’anni: i volumi di Enriques e Amaldi di più di mezzo secolo fa sono ancora largamente superiori alla stragrande maggioranza dei testi circolanti.
Stupisce la leggerezza con cui si ripetono luoghi comuni privi del minimo fondamento. Si parla di un colpo a una scuola che ci invidierebbero tutti i paesi europei. La senatrice Bastico parla di una scuola elementare che costituisce «il punto più alto riconosciuto a livello italiano e internazionale». Non stupisce che vi sia chi difende il proprio orticello parlando del ritorno al maestro come una «perdita della dialettica pedagogica». Ma che si possa leggere su un giornale (ancora L’Unità) che «oggi in terza elementare i nostri figli parlano inglese come noi alla fine del liceo» supera ogni immaginazione (a meno che non si tratti di un’autoironica allusione alla propria totale ignoranza dell’inglese…). Ma dove vive questa gente? È mai entrata in una scuola elementare? Davvero credono che la scuola primaria di oggi sia quella di trent’anni fa, che era davvero una delle migliori del mondo? Se sono in buona fede, per rendersi conto della realtà leggano il libro di una maestra come Clementina Melotti Boltri, “C’era una volta… la scuola elementare” (Ares, 1996). E, se non basta, si leggano le Indicazioni ministeriali per il curricolo del 2007. Questa è la scuola in cui si possono trascorrere cinque anni senza mai udire la narrazione di un fatto storico reale. Pochi giorni fa un maestro mi scriveva che la sua dirigente scolastica lo aveva incitato a raccontare qualcosa sui Fenici e limitarsi a questo. Difatti, non si fa altro che discettare sulle “durate temporali”, sul “prima” e sul “poi”, “usare cronologie”, “rappresentare concetti appresi mediante grafismi, racconti orali e disegni”. Prima delle vacanze ho visto mio figlio che ritagliava un orologio in cartone e gli ho chiesto cosa facesse. “Studio storia”, è stata l’esilarante risposta… Altrettanto dicasi per la geografia. Si possono trascorrere anni senza vedere un mappamondo, in un tormentone infinito di “orientazioni”, di “davanti” e “dietro” e dei “concetti cardine delle strutture logiche della spazialità”. E mentre ci si impantana in questo ciarpame parolaio, i bambini non apprendono neanche a tenere la penna in mano, mostrano carenze gravissime di lettura e scrittura e di calcolo mentale.
Questo sarebbe il pregevole “intreccio di competenze” da preservare a ogni costo? Se lo tengano. Di fronte a questo disastro la figura di un maestro unico capace di introdurre in modo sintetico la dimensione linguistico-matematica (inscindibile in una fase formativa primaria) costituisce un vero progresso pedagogico.
Quando il segretario della Cgil scuola Panini dichiara con toni truculenti che «si sta assestando un calcio nei denti dei bambini» e che «riuscire a distruggere la quinta scuola per qualità del mondo rappresenta la concreta attuazione di un attacco spietato al diritto dei più piccoli», conviene consigliargli pacatamente di calmarsi e di tornare alla ragione. Difatti, dichiarazioni simili costituiscono un’autentica offesa a tante famiglie e insegnanti che non ne possono più di assistere da anni alla raffica di calci sui denti inflitta ai bambini da parte di chi ha ridotto la scuola italiana a una barca sfondata, con riforme sconsiderate, demagogia sessantottina, clientelismo, ideologismo e subculture parolaie.
(Libero, 4 settembre 2008)
Chi si sta sollevando con tanta furia? Il solito fronte conservatore. Conservatore, s’intende, dei propri interessi di potere o di bottega che non sopporta di vedere intaccati. Si tratta di una buona parte dei sindacati della scuola, di certe congreghe di pedagogisti e didatti – già in subbuglio per la soppressione dei loro orticelli, le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario – e delle associazioni che hanno fatto della scuola il terreno di sperimentazione della didattica dell’autoapprendimento. A ciò si aggiungano le proteste degli editori che farebbero bene ad assumere un atteggiamento più riflessivo: non è anormale che in Italia si sfornino trenta volte più libri di testo di matematica che in Francia, ovvero nel paese matematicamente più avanzato d’Europa? È strano che i paladini del “pubblico” siano indifferenti alla valanga consumistica che sommerge la scuola di prodotti la cui durata è inferiore a quella di un cellulare. Dicono che mantenere ferma l’edizione di un libro per cinque anni sia troppo. Ebbene, se un libro di matematica per le scuole è buono è meglio che resti fermo anche per vent’anni: i volumi di Enriques e Amaldi di più di mezzo secolo fa sono ancora largamente superiori alla stragrande maggioranza dei testi circolanti.
Stupisce la leggerezza con cui si ripetono luoghi comuni privi del minimo fondamento. Si parla di un colpo a una scuola che ci invidierebbero tutti i paesi europei. La senatrice Bastico parla di una scuola elementare che costituisce «il punto più alto riconosciuto a livello italiano e internazionale». Non stupisce che vi sia chi difende il proprio orticello parlando del ritorno al maestro come una «perdita della dialettica pedagogica». Ma che si possa leggere su un giornale (ancora L’Unità) che «oggi in terza elementare i nostri figli parlano inglese come noi alla fine del liceo» supera ogni immaginazione (a meno che non si tratti di un’autoironica allusione alla propria totale ignoranza dell’inglese…). Ma dove vive questa gente? È mai entrata in una scuola elementare? Davvero credono che la scuola primaria di oggi sia quella di trent’anni fa, che era davvero una delle migliori del mondo? Se sono in buona fede, per rendersi conto della realtà leggano il libro di una maestra come Clementina Melotti Boltri, “C’era una volta… la scuola elementare” (Ares, 1996). E, se non basta, si leggano le Indicazioni ministeriali per il curricolo del 2007. Questa è la scuola in cui si possono trascorrere cinque anni senza mai udire la narrazione di un fatto storico reale. Pochi giorni fa un maestro mi scriveva che la sua dirigente scolastica lo aveva incitato a raccontare qualcosa sui Fenici e limitarsi a questo. Difatti, non si fa altro che discettare sulle “durate temporali”, sul “prima” e sul “poi”, “usare cronologie”, “rappresentare concetti appresi mediante grafismi, racconti orali e disegni”. Prima delle vacanze ho visto mio figlio che ritagliava un orologio in cartone e gli ho chiesto cosa facesse. “Studio storia”, è stata l’esilarante risposta… Altrettanto dicasi per la geografia. Si possono trascorrere anni senza vedere un mappamondo, in un tormentone infinito di “orientazioni”, di “davanti” e “dietro” e dei “concetti cardine delle strutture logiche della spazialità”. E mentre ci si impantana in questo ciarpame parolaio, i bambini non apprendono neanche a tenere la penna in mano, mostrano carenze gravissime di lettura e scrittura e di calcolo mentale.
Questo sarebbe il pregevole “intreccio di competenze” da preservare a ogni costo? Se lo tengano. Di fronte a questo disastro la figura di un maestro unico capace di introdurre in modo sintetico la dimensione linguistico-matematica (inscindibile in una fase formativa primaria) costituisce un vero progresso pedagogico.
Quando il segretario della Cgil scuola Panini dichiara con toni truculenti che «si sta assestando un calcio nei denti dei bambini» e che «riuscire a distruggere la quinta scuola per qualità del mondo rappresenta la concreta attuazione di un attacco spietato al diritto dei più piccoli», conviene consigliargli pacatamente di calmarsi e di tornare alla ragione. Difatti, dichiarazioni simili costituiscono un’autentica offesa a tante famiglie e insegnanti che non ne possono più di assistere da anni alla raffica di calci sui denti inflitta ai bambini da parte di chi ha ridotto la scuola italiana a una barca sfondata, con riforme sconsiderate, demagogia sessantottina, clientelismo, ideologismo e subculture parolaie.
(Libero, 4 settembre 2008)
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