È molto astratto, e quindi poco utile, sviluppare una contrapposizione tra scuola “pubblica” e scuola “privata” senza guardare alla sostanza degli oggetti di cui si parla. Da questo punto di vista ha ragione il ministro Gelmini a ricordare che esiste oggi un unico sistema dell’istruzione “pubblica” ripartito in un settore privato e in un settore “statale”che – non va mai dimenticato – rappresenta circa il 95% della totalità. È vano negare che, un tempo, le scuole private “parificate” erano spesso una via per cavarsela a buon mercato quando non si riusciva a superare la rigorosa selezione della scuola statale: era una via per lo più riservata ai ricchi, anche se ricordo casi di famiglie povere finite a indebitarsi con lo strozzino per far andare avanti il figlio in qualche istituto compiacente. Oggi le cose sono profondamente cambiate: l’espansione (sia pur modesta) del settore privato, con una articolazione e diversificazione della sua offerta, e i profondi cambiamenti – diciamo pure il degrado – intervenuti nella scuola statale, fanno sì che buona e cattiva qualità si trovino ovunque ed esistano scuole private eccellenti e migliori di certi cattivi istituti statali accanto ad altre che, utilizzando docenti precari e malpagati, offrono promozioni in cambio di rette salate.
Proprio per questo si pone il problema di una valutazione delle scuole e degli insegnanti, della quale in questi tempi tanto si parla e per la quale si fanno progetti mal confezionati. Tutto nasce dalla profonda mutazione intervenuta nella scuola da trent’anni a questa parte e di cui tanti di noi non si rendono conto, forse perché quando si hanno figli grandi si resta ancorati alle immagini dei tempi lontani in cui si andava a scuola. C’è chi ancora parla della scuola elementare italiana come della “migliore del mondo”, pensando alla scuola che frequentò lui o i suoi figli ormai trentenni, senza rendersi conto che la scuola “primaria” di oggi non ha più assolutamente nulla in comune con quella “mitica” anteriore alla fatidica data del 1985, in cui iniziò la metodica trasformazione – per parte mia direi, la metodica distruzione – della scuola italiana sulla base di ideologie che avevano coniugato pulsioni “progressiste” e rivoluzionarie, ormai prive di riferimenti teorici, con un costruttivismo pedagogico di derivazione anglosassone.
Basta rileggere le teorizzazioni di quei pedagogisti – consulenti influenti di ministri di sinistra e di destra, da Berlinguer a De Mauro a Moratti a Fioroni – che predicavano (e predicano!) il “relativismo postmoderno” come principio orientativo di una nuova visione della scuola capace di «scardinare la didattica e i saperi formativi tradizionali» e di produrre conseguenze «velenose» per l’«assetto istituzionale, culturale e didattico del nostro sistema di istruzione». Ci vorrebbe molto spazio per analizzare le caratteristiche di questa ideologia, e in altra sede è stato fatto. Ma basti dire che non si vede perché il relativismo nichilista che si esplica con tanta forza nell’ambito della manipolazione della vita e delle tecnoscienze biologiche, il costruttivismo che vuol prescrivere il modo ottimale di nascere, di vivere e di morire, che arriva a consigliare l’aborto come pratica meno dannosa della gravidanza, che impone la “dittatura degli esperti”, non si sia sviluppato anche su un terreno strategico come quello dell’istruzione. Come, nel primo contesto, una sinistra in crisi di orientamento si è aggrappata al costruttivismo sociale, così nel contesto dell’istruzione essa ha gettato a mare la zavorra della visione gramsciana per eleggere a nuove icone don Milani, Dewey, Piaget, Edgar Morin e tanti altri, fino alle dottrine neuroscientifiche dell’educazione. Sarebbe ingenuo credere che la diffusione di una simile ideologia non abbia pervaso ogni settore dell’istruzione, statale o privato che sia. Non vi sono stati argini teorici e neppure politici, com’è provato dal fatto che uno dei prodotti più apertamente costruttivisti è dato dalla riforma Moratti, che si è spinta fino a proporre un’educazione di stato etica e persino relazionale ed emotiva in perfetto stile zapaterista. Anche qui sarebbe lungo analizzare le ragioni dell’assenza di anticorpi culturali: a mo’ di attenuante, diciamo che non è facile rendersi conto di come anche nella cultura anglosassone si sia fatto largo un costruttivismo sociale in rotta di collisione con il liberalismo classico, di cui è espressione emblematica l’affermazione di Stuart Mill, secondo cui ciascuno è l’autentico guardiano della propria salute, sia fisica, sia mentale, sia spirituale. Oggi le società che hanno prodotto quella visione sono orientate a governare dirigisticamente ogni atto del vivere, imponendo di essere “sani”, prescrivendo cosa voglia dire “salute”, medicalizzando l’intera società. Quale abisso tra la società americana immersa in nuvole di fumo, che ci mostrano i film degli anni sessanta, e quella in cui oggi è quasi vietato fumare in casa propria…
Dicevamo che questa ideologia è spalmata ovunque e la cattiva o buona qualità della scuola si misura dall’estensione e dalla profondità della sua influenza. Perché a essa – come ha ben mostrato il recente libro di Paola Mastrocola – va imputato lo sfacelo scolastico. È uno sfacelo che va imputato al buonismo don milanista, al “rodarismo” snobistico (alle ortiche grammatica e sintassi, diceva l’aristocratico che le dominava a menadito), all’ideologia del successo formativo garantito, dello studio che non deve mai essere fatica, dell’insegnante che non deve più essere maestro ma un facilitatore “alla pari”, della scuola come “open space” in cui le attività si programmano in modo autogestito, del più ignorante aziendalismo, del metodo che strangola i contenuti in nome del dilagare di insulsi adempimenti amministrativi e burocratici. Tutto ciò può trovare sponda in una scuola statale come in una scuola privata e sarebbe sommamente ingenuo credere in un’ingenua dicotomia: la scuola statale è quella del laicismo, dell’ateismo, del relativismo etico, del darwinismo eretto a fede, della mitologia tecnoscientifica per cui l’etica e la morale sono fatti meramente neuronali, e così via; mentre la scuola privata proporrebbe valori opposti. È possibile trovare scuole cattoliche influenzate dal più spinto costruttivismo “progressista”, che si bevono come acqua fresca le teorie pedagogiche più scientiste, come quelle vecchie di Piaget o quelle recenti di Morin, o anche ispirate alle neuroscienze (e persino alla neuroteologia), e che concepiscono l’insegnante come “facilitatore”. Viceversa, sarà difficile che una scuola autenticamente ispirata alle visioni di don Giussani s’ispiri al costruttivismo, solo se si pensa alla sua radicalità nel concepire l’insegnante come “maestro” e nel proporre una visione decisamente “trasmissiva” dell’istruzione. Nel libro recentemente pubblicato “Il senso religioso”, Don Giussani citava Sant’Agostino: «Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla». Ma oggi c’è chi sostiene che la scuola del futuro deve basarsi sul precetto secondo cui non conta quel che si sa, ma soltanto “come” si pensa. Come se si potesse pensare senza oggetto del pensiero… qualcosa che avrebbe fatto inorridire non soltanto Sant’Agostino e don Giussani, ma anche il filosofo del metodo, Cartesio.
In conclusione, il vero problema non è la contrapposizione tra scuola statale e scuola privata. Bensì l’ideologia costruttivista che si ripropone ostinatamente come un’idra dalle mille teste e che è la vera origine della catastrofe del sistema dell’istruzione.
(Tempi, 23 marzo 2011)
39 commenti:
Io ho lavorato per molti anni in una scuola privata e per molti altri anni in una scuola pubblica: e devo dire che sono del tutto d'accordo con lei.
Se per il costruttivismo il mondo in cui viviamo non ha una realtà oggettiva ma è il risultato della nostra attività costruttrice, mi sembra che questa posizione epistemologica non sia che l'ennesimo prodotto della presunzione (o superbia), che nella storia umana ha prodotto una serie infinita di catastrofi.
A me, spettatore (e cittadino) interessato a vedere finalmente un risorgimento della scuola italiana dallo stato franoso in cui per la maggior parte si trova, sembra che le conclusioni a cui sono giunte tante personalità di indiscusso prestigio siano assolutamente da condividere. E quel che più conta, è che tali conclusioni sembrano condivise dalle autorità ministeriali – altrimenti non staremmo a parlare di riforme.
Quindi ritengo essenziale che venga reso operativo il primo step del programma di riforma, cioè l’approvazione del sistema di valutazione delle Scuole, sia per gli allievi che per gli insegnanti. Intanto si comincerebbe ad avere un sistema di misura delle stesse riforme via via in atto. Potrebbero essere i distretti scolastici stessi a chiedere di essere valutati.
La sua proposta depositata al Centro Studi GILDA potrebbe funzionare da pietra d’angolo intorno a cui raccogliere un gruppo di volenterosi che si offre come strumento di misura del sistema scolastico.
Ma non è così.Le conclusioni di Paola Mastrocola, mie o di personalità come Cesare Segre non sono affatto condivise dalle autorità ministeriali che hanno mente riforme di tutt'altro tipo, che definirei costruttiviste. La mia proposta per la valutazione (apprezzata da Gilda) non è per niente condivisa da quelle autorità che ora seguono una linea completamente diversa. Il progetto sperimentale di valutazione adottato - e che ha avuto un rigetto totale, a mio avviso pienamente motivato - non lo condivido neanche un po', come del resto ho spiegato in un articolo che si trova su questo blog. Inoltre io credo nella valutazione come processo culturale ma non credo in alcun modo che la scuola possa essere "misurata".
Ho impiegato la locuzione "misurare il sistema scolastico" intendendola di certo non in senso fisico.
Si tratta sempre di una valutazione "critica" (in senso kantiano), e quindi non riducibile per definizione a parametri dimensionali. Ma se le cose stanno così, e vedo che stanno proprio così, il problema è filosofico, quindi politico. E visti gli argomenti e le argomentazioni che riesce a esprimere il sistema politico attuale, la scuola continuerà a franare fino a trovare uno stato di equilibrio che, trattandosi di attività viventi, rassomiglierà alla morte.
Gentile professore,
è davvero convinto che il degrado della scuola italiana sia da imputare al costruttivismo? Insegno storia e filosofia al liceo da qualche anno, ma di grandi spinte modernizzatrici non ne ho ancora viste. I colleghi (quasi sessantenni!) si sono formati perlopiù da ragazzi, nella scuola d’antan che adesso ci fa tanta nostalgia, assistendo alle lezioni dei loro rigorosi professori. Probabilmente il nerbo si sarà sfibrato nel corso degli anni, ma fatto sta che la quasi totalità delle lezioni che si somministrano agli studenti sono frontali e puramente trasmissive: ore e ore di spiegazione senza interruzioni, lettura dei testi, esercizi a corredo della spiegazione, verifiche sommative. “Problem solving? Mah... Apprendistato cognitivo? Boh... Inquiry learning? Eh...” Sono così: considerano la didattica una questione accessoria, poco dignitosa; al limite della moralità.
Forse il problema sta altrove, per esempio nella logica dell’adempimento burocratico che poco ha a che fare con la pedagogia. E allora avrebbe fatto meglio a parlare dei nostri politici, arcitaliani che pensano di riformare la scuola a colpi di tagli lineari, o con il belletto di una riforma che non sfiora nemmeno le enormi questioni di carattere educativo. Quelli a cui fa riferimento lei sono tentativi di innesto non riusciti per mancanza di coraggio politico, ma il costruttivismo è un’altra cosa: è rigore, rigore finalizzato ad uno scopo, che in quanto tale lo informa e lo trascende; è impegno da parte del docente, che diventa maestro nel senso di chi “predica” con l’esempio; è sforzo filosofico di conciliare la pluralità dei punti di vista con la verità negoziata nelle diverse situazioni.
In conclusione, non si tratta di contrapporre astrattamente didattica trasmissiva a costruttivismo. Ma di denunciare il malcostume con cui nella scuola, come nel servizio pubblico in generale, la burocrazia si impone sulla qualità e sul merito degli insegnanti responsabili che operano nel difficile compito di educare.
Cordialmente,
Orfeo Bossini
Gentile Professore, ho riempito centinaia di pagine per descrivere la catastrofe della scuola e soprattutto a partire dal primo ciclo. Non sono l'unico a averlo fatto. Ha letto il libro di Mastrocola? Non saprei quindi cosa aggiungere. Che l'ondata sia arrivata meno nei licei è indubbio. Abbiamo posto anche un fragile argine con le nuove Indicazioni nazionali. Ciò posto, sì, anch'io penso che la metodologia didattica è spesso ciarpame ideologico. Il problem solving è la scoperta dell'acqua calda, l'apprendistato cognitivo e l'inquiry learning sono sciocchezze senza capo né coda. Non al limite della moralità, oltre il limite dell'ignoranza.
Lei dice che il costruttivismo è rigore? Che vuole che le dica? Non riesco a prendere sul serio il "rigore che trascende lo scopo" e la "verità negoziata". Mi fa venire in mente la negoziazione della verità del teorema di Pitagora. E penso che si tratti di parole vuote di senso.
Infine mi spieghi: cosa intende con verifiche "sommative"? Confesso di non capirlo. Delle verifiche ottenute con processi di somma? O come si intende in docimologia, come un verifica effettuata a compimento di un processo didattico per verificare la validità delle scelte adottate in rapporto a un determinato traguardo formativo. In tale caso non vedo perché non dovrebbe piacerle: sarebbe in pieno stile costruttivista. Le verifiche "sommative" sono le più adeguate al problem solving, mentre quelle "formative" non sono valutabili. Questo almeno dicono i teorici che dovrebbero piacerle. Oppure voleva dire "sommarie"?
Intendevo con verifiche sommative le verifiche che si somministrano al termine di una serie di argomenti svolti, proprio per distinguerle dalle formative che invece dovrebbero compiersi in itinere. Se poi vogliamo dire che le verifiche ottenute con processi di somma sono di regola anche “sommarie”, non posso che darle ragione. Il punto è che qui lo stile costruttivista c’entra poco se, come penso, questo consiste soprattutto nell’attenzione verso la valutazione delle competenze (di cittadinanza!). Non è possibile valutare una competenza alta come “autonomia e responsabilità” con una prova strutturata o semi - strutturata. Nemmeno una lunga e ben discussa interrogazione può farlo. C’è bisogno di altro, di un progetto da realizzare a partire da una fase di ideazione astratta e (mi scusi) rigorosa. Ma qui mi fermo, sapendo di non poter raccogliere la sua approvazione.
Chiudo con una brevissima nota sull’ultimo libro di Mastrocola. L’ho acquistato il giorno stesso in cui ho letto la sua recensione. Divorato, perché la professoressa è davvero una brava scrittrice. Naturalmente non condivido tutti i contenuti. Credo, per esempio, che non esista una contrapposizione tra nozionismo e competenze, perché le competenze possono svilupparsi solamente a partire da una solida conoscenza dei contenuti (in questo senso, obiettivi disciplinari e finalità educative sono complementari). Credo, inoltre, che la democrazia non sia massificante o nemica del talento. Valorizza le differenze, una risorsa di cui non possiamo proprio fare a meno. Lo ammetto candidamente: sono un radical chic senza speranza!
Allora, a proposito di democrazia, mi permetto di proporle il mio articolo che uscirà sul prossimo numero di "Scuola democratica" per mostrare come e perché la contrapposizione tra competenze e conoscenze vada superata. Vorrei anche proporle la relazione che ho tenuto al Convegno Gilda, ma è un power point e non può essere messo in rete in un blog.
Grazie per le segnalazioni. Leggerò senz'altro l'articolo e magari le slide (se volesse inviarmele via mail, anche in formato pdf non modificabile). Il mio indirizzo è orfeo.bossini@gmail.com
Egregio professore, sono sostanzialmente d'accordo con lei. Vorrei solo precisare una cosa: il "don Milanismo" non esprime affatto il pensiero di don Milani. La scuola di don Milani era molto impegnativa e seria. L'errore di fondo è che lui pensava una scuola per gli "esclusi" gente di un mondo marginale, partendo dal principio che niente è più ingiusto che "fare le cose uguali per coloro che sono in condizioni diverse".
Il suo pensiero è stato travisato.
Altro dettaglio: la scuola di Barbiana era una scuola non-statale!
Sono d'accordo, e infatti io ho parlato di "donmilanismo".
Gentile signor Orfeo, periodicamente con alcune parole chiave, tra cui il mio nome, esploro la rete (senza perdere tempo, pochi minuti) e trovo divertenti citazioni. Così sono capitato subito sul suo blog dove riporta questo nostro piccolo scambio di commenti come un "botta e risposta" tra me e lei. Non le pare di esagerare? Quel che talvolta mi respinge dalla rete sono le cadute di stile che provoca. Le ho inviato i materiali che mi ha chiesto, pensavo che fosse un piccolo scambio che aveva creato la simpatica occasione per stimolare una riflessione. Non un "botta e risposta". Un botta e risposta è una cosa più polemica e, mi creda, se debbo misurarmi in questo modo non ho problemi. Per esempio, avrei potuto osservare che lei non ha capito molto del libro della Mastrocola se crede che l'autrice contrapponga "nozionismo" a competenze: come me, al contrario, pensa che non si debbano contrapporre "conoscenze" e "competenze", come invece fanno i pedagogisti costruttivisti, predicando che ormai la scuola deve essere "la scuola delle competenze". Sono loro che hanno introdotto questa distinzione perniciosa volta, per giunta, a denigrare le conoscenze come "nozionismo". Vede quindi come lei abbia parecchie confusioni in testa. Inoltre non è la democrazia nemica del talento, ci mancherebbe, ma l'egualitarismo. Questa è un'altra distinzione che le manca.
Inoltre, se avessi voluto scendere sul terreno della "botta" avrei detto con più cattiveria che se mio figlio mi dicesse che il suo insegnante gli ha propinato espressioni senza senso come "rigore finalizzato a uno scopo, che in quanto tale lo informa e lo trascende" (che diamine e come potrà mai "trascendere"?), "sforzo filosofico di conciliare la pluralità dei punti di vista" (vi sono cose inconciliabili) e "verità negoziata nelle diverse situazioni" (qui avevo alluso al teorema di Pitagora, la conoscenza che si "negozia" è una cialtronata di un certo "pensiero" postmoderno chiacchierone), avrei chiesto un cambiamento di classe. Tanto per essere chiari, mi lascia profondamente depresso vedere una persona intelligente, amante della cultura e certamente impegnata sul suo lavoro, come lei appare essere (e avrà capito che non sono uso a fare complimenti a vuoto) così "rovinato" dalla subcultura del pedagogismo cosiddetto progressista (in realtà intrinsecamente reazionario). Torni alla lezione di Hannah Arendt: buon senso, prima di tutto. E non ricorrere mai a terminologie fumose e reboanti, che nascondono dietro la loro pomposità il vuoto concettuale. "Quel che è ben pensato si enuncia chiaramente", diceva Boileau. Butti alle ortiche questo ciarpame. Anch'io ho buttato tanti anni fa molte cose della cui vanità e pericolosità mi sono reso conto e, mi creda, erano cose ben più difficili da cui liberarsi…
La critica che la Sig.ra Mastrocola fa nel suo ultimo libro al "don-milanismo" è chiarissima. Si può non condividere, ma la professoressa afferma che quella pedagogia,applicata nelle condizioni odierne, può addirittura generare il più deleterio oscurantismo: i figli del "servo della gleba" non riescono a evadere dal destino dei loro genitori.
Ma le intenzioni dell'autrice sono molto più vaste, e soprattutto più mirate a esorcizzare le condizioni di profonda "diseducazione" del moderno "utente" della scuola. E a sollecitare la responsabilità dei genitori.
Gentile professore, mi sembra che “botta e risposta” renda giornalisticamente (un blog è uno spazio di informazione e approfondimento) proprio la sostanza del nostro scambio di opinioni, che ho pensato di pubblicare perché interessante e perché lo aveva già fatto lei, moderando i miei commenti e rispondendo. Se ritiene che il titolo sia in un qualche modo inadeguato, o che non sia il caso di citare (anche in futuro) le sue risposte, me lo dica e provvederò immediatamente. La volevo comunque ringraziare per la solerzia non dovuta con cui prontamente risponde alle mie sollecitazioni, e per l’invio del materiale che appena avrò tempo leggerò.
In merito alle sue “botte”. Lei mi fa le pulci sull’uso dei termini, ma è Mastrocola che sottolinea il valore delle nozioni contrapponendolo a quello delle competenze. Il canto di Dante ha un valore in sé, sostiene la scrittrice. E chi dice il contrario? Le discipline hanno un valore in sé, e uno che è dato dal rapporto con il contesto. Un buon insegnante veicola contenuti e competenze, laddove ciò è possibile. Il punto è che le competenze (intendo life skill) non si sviluppano attraverso una didattica di tipo tradizionale. Se poi anche le competenze di cittadinanza sono ciarpame, o subcultura progressista, mi deve spiegare quale futuro stiamo preparando per i nostri ragazzi, e per il paese in generale. Per quanto riguarda le altre espressioni senza senso, mi lasci dire che è incredibile quanta ideologia veicolino certi colleghi, magari senza rendersene conto. Esortano al rispetto dei valori democratici e poi si porgono come sacerdoti del sapere. E’ “violenza simbolica”, per dirla con Bourdieu, o rigore fine a se stesso, per come la intendo io. E’ far passare per universale ciò che invece è assolutamente relativo, creando sentimenti contraddittori di ossequio e rivolta. Se, come credo, il mezzo e il messaggio sono la stessa cosa mi deve spiegare come si possono formare cittadini “autonomi e responsabili” esclusivamente attraverso queste forme di “taylorismo didattico”. Respirare, volare, stropicciarsi gli occhi ogni tanto (non sempre!) con un progetto. Lavorando in gruppo, con tutte le condizioni migliori per farlo. Orientando il rigore ad un obiettivo, così come avviene autenticamente nella vita. E’ chiedere forse troppo?
Siccome sono un insegnante che tenta di trasmettere conoscenze, di contenuti e regole, e di valori, quando ciò è possibile, ma totalmente incapace di veicolare competenze, non riuscendo a capire che cosa esse siano, in sé, a prescindere dalle conoscenze dei contenuti, delle regole e dei valori, mi sarebbe utile una definizione di competenza che, appunto, non faccia appello alle conoscenze, creando il solito circolo vizioso. Avere le idee più chiare gioverebbe tra l'altro anche a certificare senza sensi di colpa quel che ancora non si riesce a veicolare e ad essere, a tutti gli effetti, dei buoni insegnanti.
Come ho scritto, scritto e riscritto, una definizione generalmente accettata di competenza non esiste. Ne esistono centinaia, ognuno si fa la sua, chi fa finta che ne esista una univoca imbroglia. Cfr. anche il prossimo articolo che ho scritto per "Scuola democratica" e qui "La scuola delle competenze demenziali".
Professore Israel,
ma vuole che ancora non sappia quel che lei pensa su questo tema, dopo una così lunga frequentazione del suo blog? Ma mi fa scemo?
Chiedevo, implicitamente, a Orfeo, sulla base del precedente commento, parafrasando il suo intervento.
Vorrei confermare alcune cose. Primo nella scuola superiore gli insegnanti non conoscono il costruttivismo oppure se lo conoscono sono piuttosto scettici a riguardo, me compresa, come, spero, la maggior parte dei sissini a cui si è tentato di vendere tale filosofia. Secondo, non si possono disgiungere conoscenze e competenze, come non si può costruire(!) una casa senza mettere le fondamenta, nè tantomeno mettere le fondamenta senza poi costruire la casa: entrambe le cose sarebbero senza senso. Terzo, è vero che ognuno si fa la sua idea di competenza e darne una definizione sarebbe riduttivo o si finirebbe per essere piuttosto involuti.
Vorrei dissentire però su una sola cosa: sicuramente il costruttivismo ha fatto danni, ma, a mio avviso, una scuola malata è lo specchio di una società malata, in cui la famiglia sta languendo. Come si può riuscire a insegnare qualcosa (e questo lo dice anche la Mastrocola) a dei ragazzi, barbari tecnologici anoressici di cultura, che non hanno alcuna intenzione di imparare, o che, peggio, hanno ormai i buchi nel cervello a causa di chissà quali droghe? Io sento una lacerazione dentro: non è il solito luogo comune che dice che la gioventù è bruciata. Si è rotto qualcosa di fondamentale a cui non riesco a dare un nome.
Non so se posso permettermi di dire una cosa che con questo interessante dibattito c'entra come i cavoli a merenda, ma credo c'entri con alcuni articoli precedenti. Quando ho letto "Scuola democratica" mi è venuto automaticamente un sospetto, come sempre mi capita quando sento l'aggettivo "democratico". Il termine è usato da molti decenni molto spesso (quasi sempre) da persone che adorano la "democrazia" (magari "popolare", ora passata di moda), ma odiano e combattono la democrazia con tutte le loro forze. Nel caso della rivista su cui Lei scrive non ho dubbi che il nome della testata vada inteso nel senso corretto, ma volevo semplicemente segnalare un automatismo che credo non sia solo mio.
A Myosotis. No guardi, non è la rivista dove scrivo. Anzi, penso che abbia posizioni diametralmente opposte alle mie, ma se mi si chiede di esprimere la mia opinione, anche in controtendenza, vado a esporla ovunque mi si offrano garanzie di poter parlare liberamente. Figuriamoci, lo dice a me che parlo sempre di "pedagogisti democratici"… Con Junco mi scuso. Sì forse, anzi senza forse, sono ipersensibile su certi argomenti. Probabilmente perché ho una prospettiva diversa, un po' più pessimistica. Mi fa piacere avere la conferma da Epsilondelta che la maggior parte degli insegnanti delle superiori non sono costruttivisti. Ma dal mio punto di vista assisto alle nubi che si addensano e mi vengono in mente gli improperi che ho sentito di viva voce da certi pedagogisti: "Questi maledetti insegnanti che non seguono i nostri consigli…". Mi si deve credere, è terribilmente frustrante constatare come persino una commissione ministeriale con tanto di nomina debba fare i conti col fatto che non si può non usare il termine "competenze" altrimenti l'amministrazione (ormai completamente indottrinata) ti sega e non fa passare nulla. Tu scrivi le Indicazioni nazionali e ti scontri col fatto che non puoi dire «L'allievo deve studiare», «L'allievo deve apprendere», «Si studierà», «Si approfondirà»… No. NON SI PUO! Semplicemente NON SI PUO. Perché quei modi di dire non esprimono il fatto che è OBBLIGATORIO e GARANTITO che lo studente al termine del percorso saprà questo e quello, anzi saprà FARE (competenze…) questo e quello. E, attenzione, non si può neppure usare il futuro perché troppo ipotetico... Si deve scrivere al seguente modo: «Alla fine del primo ciclo, lo studente SA il teorema di Pitagora e le sue applicazioni». INDICATIVO. È il successo formativo garantito. Siccome nelle Indicazioni nazionali per i licei abbiamo più volte violato tale assoluto precetto, tenendo duro anche di fronte a opposizioni durissime e al prezzo di vari cedimenti, un alto dirigente ha avuto anche il coraggio di dire pubblicamente di fronte a un paio di centinaia di insegnanti che queste indicazioni sono contro la legge…. E mi consta che si sta già operando per "superarle" lanciando una sperimentazione di "scienze integrate" nei licei. Vedo queste nubi tempestose e mi chiedo come ci si potrà salvare da questa alluvione di delirio. Intanto arrivano nella scuola primaria i test invalsi e in molte classi hanno smesso di insegnare, per preparare i bambini alle prove invalsi, mentre viene proposto di comprare libri preparatori di infimo livello (in un caso che conosco al prezzo di 8 euro l'uno).
I casi di libri di preparazione al test Invalsi sono ormai numerosi e spesso accompagnano l'adozione (i famosi "eserciziari"). Sono per lo più lavori poco utili anche ai fini del teaching to the test ma il punto non è questo. Riguarda un atteggiamento diffuso nella scuola esemplificato dalla collega di scuola dell'infanzia che in una riunione per il curricolo verticale del mio istituto ha detto che i suoi bambini fanno "esperienze" e si è rifiutata tenacemente di concordare che dette esperienze vadano organizzate a partire dal verbo "conoscere". In molti casi non c'entra il costruttivismo (che pure fa danni nella scuola primaria) ma una preparazione professionale approssimativa, sia sulle discipline che sulle metodologie. Questo atteggiamento verso un insegnamento meno teso all'acquisizione di conoscenze di base spendibili in più contesti (che siano le competenze?) è molto diffuso e rende i docenti meno responsabili degli esiti della didattica e più attenti ai "contesti", al clima relazionale, all'approccio psicologico (per i quali noi non abbiamo "competenze" né preparazione specifica). Tutte cose importanti cui prestare attenzione ma in concreto, per parafrase Bauman, si produce una didattica "liquida" che difficilmente condurrà all'esercizio di una qualche "competenza" nei livelli superiori di studio. Le famiglie più attente si rendono conto del problema di norma in quarta e sono moltissime quelle che ricorrono fin dalla terza classe a lezioni private. L'approccio orientato alla scuola come contenitore di "altro" dall'istruzione primaria è sviluppato anche nei corsi di laurea di scienze della formazione primaria: gli studenti svolgono il loro tirocinio con docenti esperti di molte cose ma non di didattica disciplinare e spesso neppure di metodologie per insegnarla e difficilmente il loro approccio professionale sarà divergente. E del resto, la didattica disciplinare non è in primo piano nei corsi di formazione primaria, come si evince dai piani di studio.
Cordialità, Vincenzo Manganaro
Condivido tutto in toto quel che lei scrive, anche per esperienza diretta, essendo padre di due bambini frequentanti le elementari. Mia moglie ha deciso di fare un pomeriggio a settimana di "club matematico" per far recuperare ai nostri figli e ai figli di amici i ritardi vistosissimi in matematica. Ciò detto, guardi che la didattica liquida di cui lei parla non è "anche" promossa nei corsi di laurea in scienze della formazione primaria. È proprio qui che si genera il disastro e il costruttivismo pedagogistico, le teorie dell'autoapprendimento, dell'approccio ludico, del predominio dei contesti relazionali, psicologici, ecc. la fanno da padrone. Quando abbiamo ristrutturato il corso di formazione primaria ci siamo trovati di fronte al caso di università in cui l'unico corso opzionale (!) di matematica era in alternativa con neuropsichiatria infantile e l'unico corso opzionale di storia lo era con pediatria. L'andazzo era a formare una specie di infermieri-psicologi. Non sottovaluti neppure i disastri combinati dalle teorie piagettiane, secondo cui i bambini non possono apprendere la matematica prima dei 7 anni. Ho sottomano un libro di pedagogisti su il bambino e la matematica in cui si dice che non se ne parla prima dei 12 anni!... Voi forse non immaginate che cosa vi confezioniamo all'università. Speriamo soltanto che il nuovo regolamento per la formazione produca qualche effetto. Ma già vedo bastoni fra le ruote per ogni dove.
Io credo (temo?) di immaginarlo: con ruoli diversi ho lavorato nei corsi di formazione primaria di una importante università. Sono consapevole delle modalità di elaborazione concettuale dei modelli didattico-pedagogici che vengono poi presentati agli studenti; e di quanto questi modelli siano diffusi in diverse università e di quali siano i referenti scientifici degli stessi modelli. Queste convinzioni teoriche relegano numerosi insegnamenti a discipline marginali dalle quali mancano alcuni fondamentali: la grammatica, l'aritmetica di base, l'insegnamento della lettoscrittura; deficit legati proprio ai primi due anni di insegnamento nella scuola primaria in cui si gettano le basi delle conoscenze fondamentali. Credo ci sia un forte legame tra i test internazionali dei ragazzi di 15 anni e il lavoro fatto con i bambini della scuola dell'infanzia e del primo biennio della primaria: con ciò intendo dire che la scuola primaria, che forse qualche anno fa era una delle migliori, sta vistosamente perdendo qualità.
Credo ci sia perfino un rapporto causale tra questo genere di preparazione professionale e il proliferare di diagnosi di DSA: i docenti non sanno più distinguere tra un bambino che ha difficoltà risolvibili con l'educazione e con buone didattiche e metodologie e un bambino che ha reali problemi cognitivi. Si finisce con l'ospedalizzare intere classi (ne ho vedute alcune con ben tre insegnanti di sostegno) che avrebbero bisogno invece solo di buoni professionisti della scuola, che ci sono, ma sempre in minor numero.
Cordialità, Vincenzo Manganaro
Anche su questo siamo totalmente d'accordo.
Di tutte le cose interessanti e condivisibili che ho letto in questi post, devo dire che son rimasto colpito dalla seguente frase di Orfeo:"Respirare, volare, stropicciarsi gli occhi ogni tanto".
Ha proprio ragione, che bellezza riuscire a farlo in una classe! Ma riuscire a farlo, siamo sicuri sia proprio questione di metodologia? Trasmissivismo (me lo sono inventato) costruttivismo, competenze, taylorismo didattico, inquiry learning, apprendistato cognitivo, professori anziani legati alla didattica che fu...son così importanti?
Bene, in proposito ho la mia idea e la dico.
Insegnare è un poco come raccontare barzellette: una storiella raccontata da qualcuno ci fa piegare in due dalle risate, la racconta un altro e non ci fa nemmeno sorridere.
Come mai? E' evidente che il primo, essendo la trama uguale, ha fatto una scelta di parole, mimica, toni e tempi tale da ottenere l'effetto comico, l'altro ha sbagliato tutto.
Esiste un codice univoco con cui quella barzelletta va raccontata? Evidentemente no, ogni bravo "raccontatore" ha il suo, diverso dagli altri, ma alla fine si ride tutti.
Voglio dire: secondo me tutti i metodi possono essere buoni o cattivi, dipende (come spesso nelle umane interazioni) più dal "come" si utilizza un metodo che dal metodo stesso.
Si può fare una lezione frontale e renderla interessante e redditizia, si può elaborare un progetto, lavorare in gruppo e ottenere un bailamme senza capo nè coda. E naturalmente anche l'opposto: noia mortale nel primo caso, interesse e partecipazione nel secondo.
Un'altra frase di Orfeo che mi ha colpito è questa:
"Il punto è che le competenze (intendo life skill) non si sviluppano attraverso una didattica di tipo tradizionale"
Why not? Dopo aver guardato cosa sono queste "life skill" non ho dubbi: personalmente le ho imparate proprio a scuola, quella che più tradizionale non si può, affrontando le difficoltà che ti poneva.
Che in definitiva mi pare rimanga ancora il modo migliore d'imparare qualunque cosa: affrontarne e vincerne la difficoltà.
Con tutto ciò: respirare, volare ecc. cercherò di ricordarmene più spesso di quanto faccia... :)
Saluti cordiali da un collega (quasi sessantenne!)
@Nautilus Diciamo che dalla trincea le tattiche si assaporano diversamente. Si scende a compromessi, ci si plasma sulla realtà che si ha di fronte. E’ questo, in fondo, ciò che volevo dire parlando di una verità negoziabile, una verità che non si svela ma che si fa, giorno dopo giorno. “Nel primo caso la verità si dice, si riconosce, si dichiara, si professa. Nel secondo caso la verità si fa, si attua, si realizza, si costruisce. [...] Nel primo caso chi nega la verità dice un’eresia. Nel secondo caso chi nega la verità agisce ingiustamente” (V. Mancuso, ne La vita autentica, a proposito della prospettiva di Bonhoeffer)
Detto questo, ho bisogno di una teoria che orienti la mia azione. Una teoria pronta ad essere corretta e perfezionata dalla pratica, naturalmente. Quindi, venendo alla sua domanda, credo che solo una parte delle life skill possa essere implementata con una didattica di tipo tradizionale. Le passo brevemente in rassegna per condividere con lei il mio pensiero (tutto in divenire!). Imparare ad imparare: sì ma soltanto individualmente (nel senso che non è previsto l'apprendimento all’interno di un gruppo di lavoro). Progettare: assolutamente no (un progetto è unico e dà vita a un prodotto; l’unica progettazione di cui fanno esperienza i nostri studenti è la bistrattata tesina di maturità... tutto dire!). Comunicare: sicuramente sì (è la competenza più sviluppata). Collaborare e partecipare: non scherziamo (non è in gioco tanto il saper fare quanto il saper agire; una scuola che non valorizza il “riconoscimento dei diritti fondamentali degli altri” non può dirsi compiutamente democratica). Agire in modo autonomo e responsabile: sì, ma solo come rispetto dei limiti e delle regole comuni. Risolvere problemi: no (i problemi nella didattica tradizionale sono a corredo della spiegazione, mentre qui si chiede un’altra cosa, ovvero saper proporre soluzioni usando la propria “cassetta degli attrezzi”). Individuare collegamenti e relazioni: sicuramente sì, soprattutto quando il docente sceglie di tagliare il programma facendo bene poche cose. Acquisire ed interpretare l’informazione: sì, anche se è una competenza che si allena meglio attraverso la ricerca, e a scuola di ricerca non se ne fa.
Cordialmente, Orfeo Bossini
Egregio Prof. Israel,
leggo (non regolarmente, ma abbastanza spesso) il suo blog.
Devo dire che spessissimo mi trovo d'accordo con le sue posizioni. Penso che talvolta avrei potuto dire le stesse cose quasi con le stesse parole.
In particolare, sottoscrivo in pieno le considerazioni circa quello che io chiamo il "ciarpame costruttivista".
Ogni volta che mi capita di imbattermi in qualche beatificazione di questa ideologia mi viene l'orticaria, ma mi costringo (è la parola!) lo stesso a leggere o ad ascoltare, perché penso
sempre che fino ad ora possa essermi sfuggito qualcosa, che forse non ho capito. Niente. Quel nulla condito di frasi pompose con parole spesso usate a sproposito mi ripugna.
Una cosa pero' non mi è chiara. E le chiedo, senza la minima intenziona polemica ma solo per essere informato, di spiegarmela.
Lei afferma, se ho capito, che questo ciarpame costruttivista è sostanzialmente una creazione della sinistra (o almeno qualcosa cui la sinistra ha totalmente aderito).
Ora, io mi ritengo di sinistra; orgogliosamente figlio di un uomo che, dopo aver fatto il partigiano combattente, alla fine della guerra non riusciva a trovare lavoro perché aveva la tessera
del PCI e che, nonostante tutte le difficoltà, non ha mai rinunciato al suo sogno.
Bene: mio padre, e tutti i suoi "compagni" (anche dirigenti di partito) che ho conosciuto nel tempo, fino ai miei venti-venticinque anni, avevano una concezione sacrale della scuola e
degli insegnanti. Avevano l'idea che "tu le cose le devi veramente sapere", che non ci sono sconti, che devi fare fatica per arrivarci. Altro che negoziare la conoscenza.
E se dimostri di avere le capacità è giusto che tu vada avanti, altrimenti devi fare qualcos'altro. Non è una colpa, ma non hai le qualità adatte. La natura dispensa doti diverse a persone
diverse. Altro che egualitarismo. Il che non vuol dire che non sia sacrosanto offrire a *tutti* uguale opportunità di dimostrare le proprie capacità.
Ecco. Io credo che questi siano i princìpi della sinistra. Almeno di quella che io ho conosciuto. E mi sembra che siano incompatibili col ciarpame costruttivista.
Potrebbe, per cortesia, spiegarmi da dove nasce la sua affermazione?
Grazie in anticipo per il tempo che vorrà dedicarmi.
Gentile I have a Dream,
non c'è la minima contraddizione tra quello che lei dice e quel che dico io, anzi siamo perfettamente d'accordo. La chiave è tutta in quel «almeno di quella che io ho conosciuto». E cioè di quella che ho conosciuto anch'io quando sono stato comunista dai 16 anni ai 36. Non sto a portare argomenti a convalida di quel che lei dice. Potrei soltanto ricordare le pagine di Gramsci sulla scuola, sul latino, sulla necessità di abituarsi alla costrizione di studiare seduto, ecc. ecc. Sono stato un collaboratore di Lucio Lombardo Radice che era un "innovatore didattico" all'epoca molto audace, ma che ha sempre preso le distanze dalle follie dell'autoformazione e dei vari costruttivismi. Ho ricordato il suo punto di vista nell'introduzione che ho fatto 8 anni fa alla riedizione di un suo libro e provo a riportare sotto un passaggio con il mio commento.
Ma è sufficiente che lei legga quel che ha scritto Luigi Berlinguer di Gramsci, considerato in modo rabbioso come un'eredità disgraziata da buttare alle ortiche per rendersi conto che, da circa una ventina d'anni, la sinistra si è separata in modo totale da quella tradizione. Ci vorrebbe molto spazio per ricostruire le modalità e le ragioni di questo divorzio, che sono state in qualche modo l'esito di una crisi di orientamento che ha spinto alla ricerca di nuovi punti di riferimento. Questi sono stati trovati nelle correnti costruttiviste del pedagogismo anglosassone. Perciò la sinistra che ci troviamo di fronte non è certamente quella di un tempo. Essa si è alleata con l'aziendalismo confindustriale e con il pedagogismo costruttivista. Il che non significa affatto che la destra proponga dei valori diversi: l'aziendalismo e il costruttivismo allignano anche là. Basti pensare alla scuola delle tre "i"… Coloro che la pensano come "noi" (da quel che dice mi pare possa dirlo) sono spalmati in modo omogeneo in tutti gli schieramenti politici. Il che potrebbe sembrare un punto di forza - e in effetti è una prova di rigore culturale - ma è invece, dal punto di vista politico, una debolezza.
«L’introduzione dei metodi attivi nella educazione della mente è stata, ed è, un fatto rivoluzionario di importanza fondamentale. Il nuovo punto di vista credo si possa riassumere in una frase molto semplice: il ragazzo, a scuola, deve capire, e per capire deve studiare in modo attivo, ricostruendo in modo creativo ogni processo mentale, ogni esperimento, ogni vicenda, ogni teoria che gli vengono esposti. La passività intellettuale non genera conoscenze, ma imprime labilmente nozioni. Secondo certe tendenze “estremistiche” e superficiali, oggi purtroppo di moda nel nostro paese, “attivismo” significherebbe invece liquidazione di ogni sforzo, di ogni noia, di ogni sistematica disciplina mentale e con ciò di ogni organico sapere. Si esalta una scuola nella quale è sempre domenica, nella quale ad ogni ora si celebra la festa dello spirito creatore, nella quale ogni attività è individuale, libera, piacevole, giocosa. Al bando la geografia sistematica: basta organizzare un viaggio, reale o ideale, della classe in un’altra regione studiandone le carte, le comunicazioni, i prodotti, i costumi. Morte alla scienza classificatoria: tre mesi di osservazione ed esperimenti sulle lumache formerebbero lo spirito scientifico assai più di un’organica visione (in buona parte necessariamente libresca, o frutto di lezioni ex cathedra) delle grandi linee della evoluzione delle specie. Basta con le date, colla successione cronologica e le periodizzazioni storiche; episodi, racconti, immedesimazione con pochi “eroi” darebbero il vero senso della storia. Si confonde, insomma, l’esercizio con lo studio, l’applicazione con la teoria, il “di più” con il necessario, la integrazione e la “verifica” didattica con la programmazione e la realizzazione di un organico “piano” culturale.
«Si va anzi molto al di là della confusione tra due momenti educativi: si arriva ad annullarne uno, quello basilare, riducendo la scuola a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale o così via. […] Vogliamo sottolineare che un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per la acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato, è lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere». (Lucio Lombardo Radice)
Ogni commento è superfluo. Si tratta di un brano in cui ogni passaggio contiene un’analisi e una denunzia, quanto mai puntuali ed attuali, dei mali che affliggono il sistema dell’istruzione in Italia. Aggiungiamo a questo che la visione di Lombardo Radice del rapporto dinamico e aperto che doveva stabilirsi fra docente e studente era quanto mai estranea a quelle forme di codificazione meccanica della “valutazione” che oggi si vanno diffondendo, nella inconsistente pretesa che tale processo possa essere governato in forme rigorosamente obbiettive. Lombardo Radice era un intuitivo e il rapporto con lo studente era per lui qualcosa di profondamente vivo in cui la soggettività giocava un ruolo primario, ed egli avrebbe considerato come ridicolo il tentativo di dissolvere la soggettività degli agenti del processo educativo in una sorta di meccanismo fatto di “valutazioni”, di automatismi di “crediti” e “debiti”, di “bollini blu e rossi” e quant’altro tende oggi a ridurre la scuola a un processo produttivo di tipo industriale (per di più, giocoso), in totale spregio della specificità del processi culturali. (commento mio)
Caro Prof., una domanda: potrebbe dare un riferimento a ciò che Berlinguer (Luigi) ha scritto su Gramsci?
Sono curioso, ma anche preoccupato per quel che leggerò...
@ Orfeo:
"ho bisogno di una teoria che orienti la mia azione."
E infatti questo è il punto debole della mia concezione: se tutto si riduce al possesso o meno di abilità didattiche diverse e personali, è ben difficile costruirvi una teoria valevole per tutti, o le si ha o non le si ha.
Posso sbagliarmi, anzi spero, ma l'esperienza mi suggerisce che in campo didattico non è per niente facile "imparare a insegnare" seguendo una teoria elaborata da altri.
Quando poi questa teoria non è come dice lei nata "in trincea", ma dalle speculazioni di chi magari dietro una cattedra non c'è mai stato, allora sì che siamo in alto mare.
Anch'io mi rifaccio a una teoria, quella che il prof. Federigo Enriques chiamava "insegnamento dinamico" in un libriccino dei primi del '900, ma ho scoperto che una tale teoria esisteva solo dopo vent'anni che la applicavo, cioè quando il suddetto libriccino m'è capitato in mano. E non me l'aveva insegnata nessuno, scaturiva dalla "trincea", dalle noiosissime ore passate ad ascoltare insegnanti che parlavano e parlavano e non mi chiedevano mai niente, non mi coinvolgevano in nulla se non per giudicarmi col voto. E da subito cominciai a comportarmi diversamente, spiegare il minimo e molte domande-risposte. E ha funzionato, posso ormai dire.
Il coinvolgimento dei ragazzi è evidentemente la cosa essenziale, ma secondo me ci sono molti modi di ottenerlo, non esiste una sola teoria valida, Enriques parla della "scintilla" che deve necessariamente passare dall'insegnante all'allievo, ognuno dovrebbe cercare il suo modo di trasmetterla.
Quanto alle "life skill" che lei elenca, quelli effettivamente sono problemi diversi che non mi sono mai posto, forse pigrizia mentale, forse diverse priorità, dovendo insegnare fisica in troppo poche ore questioni come "collaborare e partecipare" o "agire in modo autonomo e responsabile" ho speranza che vengano indotte dai comportamenti che incoraggio in classe, per il resto quando han capito qualcosa di quel che si fa son già contento: quando un ragazzo all'una esce ed è consapevole di aver imparato qualcosa mi pare il meglio che gli può capitare a scuola.
Comunque, come dice lei, sempre pensiero in divenire... :) siamo qui apposta.
@ I Have a Dream
forse il punto è che il "rigore" che lei ben descrive richiesto dalle ideologie di sinistra non era un fine, ma un mezzo. I fini veri erano il progresso in generale e il miglioramento della condizione umana attraverso la giustizia sociale.
L'idea di "progresso" applicata alla scuola non poteva che sfociare nei tanti tentativi teorici o ideologici di migliorare l'apprendimento, renderlo meno ostico, più attraente e più redditizio; tentativi lodevoli vista l'importanza della questione, ma che a quanto pare non hanno avuto esito positivo.
Il "costruttivismo" immagino sia uno di questi tentativi.
E quale migliore perseguimento della giustizia sociale che cercare di eliminare gli insuccessi dei tanti, troppi ragazzi degli strati popolari svantaggiati dalla loro origine?
Altro intento generoso. (Cui ho creduto pure io). E il rigore si è perso per strada, intralciava.
Secondo me quindi la sinistra, tendendo inevitabilmente a costruire un mondo migliore attraverso il superamento del "vecchio" per la sua natura di ideologia "progressista", è responsabile di questi tentativi. Quando poi questi conducono al disastro è altrettanto inevitabile che molti guardino indietro: i cosiddetti "reazionari", di nascita o di ritorno.
Abbiate pietà... Una saggezza che sembra ormai perduta insegna che il "saper vivere" è una lenta e difficile conquista fatta di tantissimi elementi - esperienze, lavoro, rapporti col prossimo, letture, riflessioni, sofferenze, gioie, amori, ecc. ecc - che viene costruita man mano nella vita e che tantissimi attori, oltre a noi stessi ci aiutano ad acquisire, tra cui la scuola, la famiglia, gli amici, i nemici.... Non è una "competenza" che viene impartita, somministrata a scuola. Le "life skills" mi fanno orrore come riduzione di questa complessità a un concetto da tecnocrate con i paraocchi. Sono le "competenze della vita" dell'ingegner Abravanel che lui crede addirittura misurabili con i test Invalsi. Abbiate pietà, non soltanto di me, che ho un rigetto totale nei confronti di questo imbarbarimento rispetto a cui la saggezza degli antichi ci fa sembrare un'accolita di imbecilli, ma anche di voi stessi.
M'ha convinto :)
A me risulta che l'ing. Abravanel sia un consulente, e come tale deve rispondere,in primis, alla sua società, che mi pare sia la McKinsey.
Il vero responsabile dei risultati pertanto non è questo signore, ma il Ministero della pubblica istruzione, nella persona della sgn.ra Gelmini. Sarebbe interessante conoscere il contratto, almeno nelele voci relative agli obbiettivi, ai tempi di realizzazione, e alle tappe dicontrollo intermedie.
@Nautilus
Concordo sul fatto che il rigore non fosse un fine, ma un mezzo per raggiungere «il progresso in generale e il miglioramento della condizione umana attraverso la giustizia sociale».
Però non credo sia corretto dire che il rigore fosse di intralcio perché causa degli «insuccessi dei ragazzi degli starti popolari svantaggiati dalla loro origine», e dunque qualcosa da eliminare.
È vero che moltissimi ragazzi degli starti popolari sono stati svantaggiati a causa dell'ingiustizia sociale, ma solo nel senso che le loro famiglie non potevano permettersi di mantenerli a scuola oltre le elementari.
Per questo motivo si sono certamente tarpate le ali a numerosi ragazzi brillanti, cui è stata semplicemente negata la possibilità di dimostrare il proprio valore.
Il problema si supera dunque nel momento in cui si garantisce a tutti di poter frequentare una scuola "di serie A", indipendentemente dalle condizioni economiche della famiglia.
A quel punto, il successo scolastico di ognuno non è più questione di giustizia sociale, ma dipende solo dalle capacità dell'individuo. Nessun successo garantito. Compito della scuola è di selezionare gli individui più dotati, ai quali, proprio perché migliori della media, saranno affidate in futuro le sorti del paese.
Ed è semplicemente giusto che sia così: che diavolo se ne fa un paese di una massa di mediocri "forzosamente laureati"?
Il punto è che qui non si vuol più ammettere che ci sia qualcuno maggiormente dotato degli altri (o, che è lo stesso, che molti non siano all'altezza di determinati compiti), ma questa è semplicemente un'idiozia contro natura.
Non è più un problema di sinistra o destra: chiunque sostenga simili scemenze e si metta nella posizione di "migliorare la natura" è un idiota pericoloso.
Egregio Professore,
sono il padre di una bambina di 7 anni che frequenta una scuola internazionale in cui l'inquiry learning la fa da padrone. Per la cronaca la scuola si trova a Copenhagen ed è una scuola che segue un curriculum IB. Siamo quasi alla fine del first grade e mia figlia ora parla molto bene inglese, usa il pc ed è molto "confident" se deve parlare o ballare davanti ad una platea. Per quello che riguarda la matematica però...meglio sorvolare. Sono molto preoccupato e sto cercando di porre rimedio a casa. Il problema è che non so da che parte cominciare. Ho avuto esperienze di insegnamento all'università, ma con una bimba dell'età di mia figlia è tutta un'altra cosa. I primi tentativi si sono conclusi con una sua chiusura e mia grande frustrazione. Le sarei veramente molto grato se lei potesse darmi qualche consiglio o indirizzarmi a qualche libro che possa aiutarmi in questo arduo compito.
Cordiali saluti
Mia moglie dedica un pomeriggio a settimana a un "club matematico" per nostro figlio (poco più grande della sua) e alcuni suoi compagni, al fine di recuperare le carenze gravi che hanno in matematica. Siccome insegna a formazione primaria ne sa molto più di me, nello specifico degli approcci didattici (e anche psicologici, è chiaro che fare una seduta con diversi bambini crea un clima più divertente che non il rapporto individuale con un adulto).
Veda al sito http://www.mat.uniroma3.it/users/primaria/
e da là le può anche scrivere direttamente.
(In questo momento il sito ha qualche problema, ma sarà al più fino a domattina).
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