Il proposito del “pacchetto merito” che dovrebbe essere
approvato dal Consiglio dei Ministri – introdurre il merito nel sistema
scolastico – non può che suscitare plauso. Ma chi conosca questa problematica
sa che le difficoltà iniziano quando si passa dai principii all’applicazione e che
si riassumono così: come e chi valuterà il merito? La questione centrale –
valida per tutto il sistema dell’istruzione – è la definizione del ruolo
dell’insegnante, che si lega a quella del rapporto tra autonomia delle strutture
scolastiche e universitarie e centralismo ministeriale.
Si ripete che alla figura dell’insegnante va restituita
dignità, premiando i meritevoli, e che l’efficienza del sistema ha bisogno di
autonomia (che esiste per l’università e sulla carta anche per le scuole). Poi
le cose vanno quasi sempre all’opposto, sia per l’eredità del passato, sia
perché, in Italia, dietro un fragile liberalismo si riaffaccia sempre un
invadente dirigismo centralistico, che si esprime nel diluvio di prescrizioni
da cui è travolta la scuola e nella tendenza a rosicchiare l’autonomia
universitaria mediante procedure di valutazione di un meccanicismo che lascia
stupiti persino i colleghi di paesi di antica tradizione dirigista.
Il proposito del “pacchetto merito” va inquadrato nel
contesto. Un aspetto importante è la situazione che si determinerà con
l’approvazione (quasi completata) di una legge sull’autonomia scolastica che è
una sintesi di aziendalismo e assemblearismo – un prodotto partiticamente
trasversale che esprime bene il livello di crisi cui è giunta la politica in
Italia.
Le scuole sarebbero trasformate in una sorta di fondazioni
gestite da consigli dell’autonomia presieduti da un genitore e in cui gli
insegnanti sarebbero in minoranza, essendo prevista oltre alla loro presenza
paritetica con i genitori, quella di rappresentanti di «realtà» culturali,
sociali, produttive, professionali e degli studenti. Di fatto, l’unica
autonomia non preservata sarebbe quella degli insegnanti, cui si lascerebbe la
programmazione della didattica però entro le «linee educative e culturali della
scuola» da negoziare con le altre componenti, oltre che soggette alle
multiformi prescrizioni ministeriali.
Ci si chiede: chi e come, in una simile struttura, sceglierà
lo “studente dell’anno” (e perché poi uno soltanto?), titolare della carta
“Io-merito” e di una borsa? Se saranno ancora i docenti – come si osa sperare –
dovranno comunque “negoziare” le loro scelte con le altre «realtà» ed è meglio
non pensare agli esiti.
Si prospetta un piano di valorizzazione del sistema
scolastico che premi le scuole eccellenti. Ma come? Si parla di tener conto del
numero di studenti che arrivano al diploma senza bocciature. Come recita la
nota legge di Goodhart, quando una misura diventa un obbiettivo cessa di essere
una buona misura e diventa un incitamento a comportamenti scorretti. In questo
caso, basterà promuovere tutti per diventare “eccellenti”.
Un’altra questione cruciale è l’uso dei test. Ne dovrebbe
essere introdotta una nuova tipologia universitaria: i “test diagnostici” volti
a individuare se il corso scelto corrisponde alle capacità. In generale, i test
dovrebbero valutare le competenze logiche e di comprensione dei testi. È
difficile non preoccuparsi della tendenza a generalizzare il ricorso ai test
dopo due anni di discussioni in cui sono state ignorate le critiche di merito
ai test proposti dall’Invalsi, e a pretese come quella di valutare mediante
quiz la comprensione o l’interpretazione di un testo letterario. Questa sordità
è un sintomo di preoccupante autoreferenzialità e solleva un problema generale.
È noto che già gran parte dei test universitari non è formulata dai docenti ma
commissionata a esterni o a “ditte” senza che si sappia come vengano scelti e che
qualifica abbiano. Per interrompere questo andazzo occorrerà che i “test
diagnostici” siano preparati dai docenti con procedure trasparenti, altrimenti
saremo all’arbitrio e parlare di valutazione “oggettiva” sarà derisorio. Anche
i docenti debbono essere valutati? Certamente. Ma è illogico che non si
consideri “oggettivo” l’operato di chi almeno una volta è stato valutato, e “oggettivo”
quello di chi forse non lo è mai stato o mai lo sarà, e non si sa neppure chi
sia.
La questione della valutazione dei docenti ritorna sempre, ed
è innegabile che la riqualificazione della professione passa per un buon
sistema di valutazione. Ma è noto che sul tema siamo sempre in alto mare,
essenzialmente perché non si vuol prendere atto che l’unico sistema valido è
quello delle ispezioni, concepito come un processo interattivo all’interno del
sistema capace di attivare il fine autentico della valutazione, ovvero un
processo di crescita culturale.
Un’altra riflessione che viene in mente di fronte
all’ambizioso progetto governativo è: con quali mezzi? Lo stato di sfacelo del
sistema scolastico è ben noto e non è una buona carta da visita la gestione
passata e presente della spesa. Piovono su scuole dalle mura pericolanti acqua
e LIM (lavagne interattive multimediali), uno strumento – per chi l’ha visto
all’opera – didatticamente mediocre e ormai obsoleto. Si parla continuamente di
digitalizzazione delle scuole, della loro trasformazione in web communities, ma
non si trova un euro per dotarle di biblioteche e di laboratori, come se la
storia o la fisica si potessero “apprender-giocando” sui tablet.
Il tema del dualismo autonomia-dirigismo, della funzione dei
docenti e della valutazione ci porta a qualche osservazione conclusiva
sull’università. Un recente documento della Classe di Scienze Morali Storiche e
Filologiche dell’Accademia dei Lincei ha espresso preoccupazione per la
tendenza dell’Anvur (Agenzia per la valutazione dell’università e della
ricerca) a privilegiare le pubblicazioni in inglese e su riviste (penalizzando
le monografie) e a estendere l’uso dei parametri bibliometrici. Secondo
l’Accademia questi sistemi (gestiti da enti privati a scopi di lucro)
sviliscono la ricerca in ambito umanistico e ne danneggiano la qualità. In
realtà, le critiche crescenti rivolte all’estero a questi metodi provengono da
ambienti scientifici che li additano come un “attentato all’integrità
scientifica”, Quindi nulla va concesso al tentativo di elevare una nuova
barriera tra le “due culture”. Ma preoccupano ancor di più le voci secondo cui
l’uso di tali criteri automatici verrebbe ulteriormente esteso. È da augurarsi
che nessuno pensi a decretare l’ammissibilità dei commissari e dei candidati
all’abilitazione nazionale a professore universitario con il criterio della
“mediana” statistica e a usare la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR)
in corso per calcolare numericamente tale “mediana”. La sottomissione dei
concorsi a criteri estrinseci e arbitrari mutilerebbe in modo drastico
l’autonomia universitaria, riducendola alla gestione dei concorsi locali, in
omaggio a teorie statistiche inconsistenti e con il risultato di conseguire un
degrado culturale senza precedenti.
In conclusione, grande è la confusione sotto il cielo
dell’istruzione italiana, il che non è affatto una cosa eccellente, contrariamente
al parere di Mao Tse Tung.
(Il Messaggero, 27 maggio 2012)