«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)
lunedì 29 ottobre 2012
sabato 27 ottobre 2012
Quanti danni dal mito della scienza infallibile...
La formulazione più radicale del determinismo scientifico fu
data, a fine Settecento, da Pierre-Simon Laplace, secondo cui ogni evento ha
una causa determinata e una mente onnisciente potrebbe prevedere l’evoluzione
di qualsiasi oggetto dell’universo. Ma neppure Laplace pensava che un simile
programma fosse umanamente realizzabile. Anzi, sosteneva che la mente umana
limitata ne sarebbe rimasta sempre infinitamente lontana. Non a caso questa
formulazione del determinismo è premessa al primo trattato sulle probabilità,
le quali riflettono «in parte la nostra ignoranza, in parte le nostre
conoscenze». Insomma, essendo impossibile prevedere tutto con esattezza
dobbiamo accontentarci di approssimazioni in termini di probabilità.
Nonostante ciò, l’aspirazione alla massima esattezza è
rimasta come un ideale della scienza. Anzi la scienza è comunemente vista come l’unica
forma di conoscenza che permette di acquisire risultati indiscutibili. Gli
scienziati stessi sono talvolta tentati dal farlo credere, per nobilitare l’immagine
delle loro discipline. Ma sappiamo che non è così e assai più che non ai tempi
di Laplace. Non solo perché la fisica, avventurandosi nel microscopico ha
dovuto rinunciare all’approccio strettamente deterministico, ma perché
l’estendersi del metodo scientifico a campi dominati da un’enorme varietà di
interazioni complesse ha ristretto ulteriormente le capacità di previsione. È
di una quarantina di anni fa la scoperta che i modelli matematici meteorologici
presentano un fenomeno (detto “caos”) che rende inattendibili le previsioni oltre
un breve periodo. La previsione esatta dei terremoti è al di fuori della
portata della scienza. E non parliamo delle previsioni nei processi vitali (per
esempio i tentativi di prevedere la diffusione dell’Aids hanno prodotto solo
insuccessi) ed economici, dove è evidente che non si riesce a dire neppure cosa
accadrà tra un’ora.
Eppure l’aspirazione alla previsione esatta è nella natura
umana. Vorremmo sapere che cosa ci riserva il futuro, se vivremo in benessere e
in buona salute. Il caso non ci piace affatto, anzi è un nemico da battere; non
soltanto quando è ostile, ma anche quando potrebbe essere favorevole: se
compiliamo la schedina del totocalcio è per sfidare il caso, non lo faremmo di
certo se pensassimo alla probabilità infima di fare un tredici. Questa
aspirazione alla certezza può diventare molto pericolosa se si incrocia con il
mito dell’esattezza della scienza. In tal caso si rischia di concentrare su di
essa e sugli scienziati ogni aspettativa. Gli scienziati hanno la loro parte di
responsabilità che deriva spesso da un uso sconsiderato della statistica, che
indica al più l’esistenza di correlazioni tra eventi: quando accade l’evento X
nel tot% dei casi accade l’evento Y. Ma questo non implica affatto che se
accade X allora accadrà certamente Y.
Esiste una forte correlazione tra fumo e cancro polmonare, ma fumare non implica
deterministicamente il cancro. Se poi la correlazione non è forte si rischia la
cialtroneria. I medici che proposero di asportare la mammella alle giovani con
un malfunzionamento genico correlato al 60% al cancro al seno, erano scienziati
mediocri e persone irresponsabili.
Quindi, il corto circuito nefasto dipende dalla pretesa di
trasformare le statistiche in leggi scientifiche: in mezzo c’è un abisso non
sempre valicabile. Se non si comprende questo e si continua ad alimentare il
mito di una scienza infallibile saranno guai per tutti. Saranno guai per gli
scienziati che finiranno in galera per non aver previsto terremoti e temporali.
Saranno – e lo sono già – guai per i medici che, se non riescono a guarire un
malato, pagheranno somme salate o finiranno sotto la scure penale. Saranno guai
anche per gli economisti che saranno tradotti in ceppi per non aver previsto le
crisi economiche. Saranno guai per la gente che soffrirà credendo di vivere in
un mondo ostile che, chissà perché, nega loro benessere, salute, tranquillità. Nessuna
situazione come questa illustra meglio il paradosso per cui la credenza mistica
nel potere assoluto della ragione può essere fonte di irrazionalità e di infelicità.
(Il Giornale, 25 ottobre 2012)
Un ricordo di Marcello Cini
Il ricordo più vivo che ho di Marcello Cini è di una cena a
tre con mia moglie, qualche anno fa, in un piccolo ristorante di un paesino
maremmano. Per un uomo di apparenza altera – un gran signore nei modi – e in
realtà profondamente timido, era il clima giusto per aprirsi. Raccontò della
sua giovinezza, di com’era stato un fisico fortunato, in un periodo in cui per
un giovane ricercatore brillante era possibile trovarsi accanto ai grandissimi
della fisica, in un mondo della ricerca che sembrava marciare senza posa di
scoperta in scoperta. Ma l’amata fisica era divenuta una delusione per Cini,
che aveva ormai compreso che troppe erano le interrelazioni, troppi gli
elementi in gioco perché il modello riduzionista potesse reggere. Questa
consapevolezza lo aveva indotto a esplorare nuovi approcci come quello della
complessità, suscitando le ironie dei suoi colleghi ancorati al paradigma
tradizionale – ironie sussurrate nei corridoi, perché troppo era il suo prestigio
– che tendevano a dare di lui l’immagine di un fisico “pentito”, che si era
lasciato sedurre da fumisterie tra il filosofico e il letterario. Invece era
proprio questa la marcia in più di Marcello Cini: essere più ancora che un
fisico, un intellettuale a tutto tondo, che non riusciva a pensare la scienza se non in un contesto che includeva
storia, filosofia, politica, società.
La sua presenza ha accompagnato tutta la mia vita
universitaria, dagli anni post-sessantottini, quando, da poco laureato, entrai
nel Seminario di Storia della Scienza di cui era l’animatore, fino alla
collaborazione nel Centro di Metodologia delle Scienze dell’Università “La
Sapienza” in cui gli subentrai nell’incarico di direttore. Era una presenza che
intimidiva, malgrado il suo eloquio incespicante e un po’ freddo. Ed era un
rapporto non facile, perché Cini era tanto capace di cambiare opinioni con la
massima libertà di pensiero quanto intransigente. Non so quanti siano riusciti
a non litigare qualche volta con lui. Per parte mia, ricordo l’ira con cui
accolse la mia recensione critica del celebre L’Ape e l’architetto e, in tempi recenti, il dissenso sull’appello
contro la visita di Benedetto XVI alla Sapienza. Le sue scelte politiche furono
sempre molto nette e radicali. Ma chi si occupa di scienza e la cultura
italiana in generale deve a Marcello Cini molte cose importanti.
In primo luogo, gli si deve la diffusione di una letteratura
– tra cui le opere di Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e Imre Lakatos – cui allora
i guardiani del più piatto scientismo opponevano una feroce scomunica,
tacciandole di essere roba da maghi e fattucchiere. Le sue visioni critiche
della scienza ebbero una funzione esplosiva nella sinistra cristallizzata in
uno scientismo oscillante tra una sorta di crocianesimo marxista e l’ortodossia
materialistico dialettica di Ludovico Geymonat.
Tanti furono i suoi progetti e molte le disillusioni, come ammise
con franchezza. Il titolo di uno dei suoi ultimi libri, Il paradiso perduto parla da solo circa la sua disillusione nei
confronti della fisica. S’interessò alle teorie della “complessità” ma ammise
trattarsi di un concetto ambiguo. Si aprì sempre più all’interesse per la
biologia in una prospettiva non riduzionista.
Della sua opposizione al
dogmatismo scientista voglio ricordare un episodio per cui ho un debito di
riconoscenza: l’energia con cui patrocinò la pubblicazione del mio La macchina vivente di fronte ai rifiuti
editoriali che lo tacciavano di opera “spiritualista”. Ho condiviso poco del suo
percorso politico ma condivido in pieno l’idea – che abbia o no accenti marxisti,
poco importa – che la fonte di tutti i guai presenti sia la tendenza a ridurre
l’immateriale a merce. Lo si vede proprio nel momento della sua scomparsa,
quando la figura di un grande intellettuale risalta in un deserto culturale in
cui il movente della scienza non è più identificato nella conoscenza ma nella
manipolazione dell’umano.
(Il Foglio, 25 ottobre 2012)
venerdì 19 ottobre 2012
COME SFASCIARE L'ISTRUZIONE IN 12 MOSSE
Il
ministro Profumo lancia un “patto” per la scuola. Un “patto” è qualcosa che
presuppone un confronto, un accordo e allora è sembrato che fosse venuta l’ora
del dialogo e, in questo spirito, ho commentato l’intervista del ministro al
Messaggero in cui egli lanciava questa idea del “patto”.
Poi
ho letto la frase pronunciata dallo stesso ministro alla convenzione Diesse e
commentata sul Sussidiario da Fabrizio Foschi: «La scuola, come luogo fisico,
diventerà un ambiente di interazione allargata e di confronto, che mano a mano
supererà gli spazi tradizionali dell’aula e dei corridoi. La immaginiamo come
un vero e proprio Hub della conoscenza. Aperto agli studenti e alla
cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un
vero e proprio centro civico».
L’ho
letta e mi sono detto che è troppo, francamente troppo.
Dice
cortesemente il titolo dell’articolo di Foschi che al centro civico di Profumo
mancano le parole “educazione” e “docente” . Nel testo si dice che la scuola è
un’altra cosa. Infatti, al “centro civico” di Profumo manca semplicemente la
scuola.
Sarebbe
impietoso riferire i commenti di quei giovani che egli vuole sedurre (alla
maniera di quegli anziani descritti nella Repubblica di Platone) alla lettura
di questo brano. Un luogo fisico che supera gli spazi delle aule e dei
corridoi? Per allargarsi a che? Alla palestra, ai gabinetti (possibilmente meno
intasati e puzzolenti di quanto lo siano in media attualmente), al cortile,
fino a finire in strada? E quali servizi verranno prestati alla comunità?
L’emissione di carte d’identità, qualche piatto caldo, la visita medica per il
rinnovo della patente? “Hub della conoscenza”... Davvero inedita – ma per nulla
sorprendente – la contaminazione tra linguaggio ingegneristico e linguaggio da
centri sociali. Già, perché lasciando da parte le facili ironie, è proprio
questa contaminazione che costituisce il segno delle politiche ministeriali
dell’istruzione.
Basta
vedere il recente video zuccheroso e privo del più elementare senso dell’humour
affidato dal Miur al cantante Roberto Vecchioni (ma è proprio il caso di
buttare dalla finestra così i pochi quattrini disponibili?). Sfilano immagini
di inesistenti classi supermoderne, con un computer per banco (pardon,
tavolino), lavagne interattive multimediali, mentre si alternano volti
improbabili di ragazze e ragazze che si sganasciano in sorrisi da pubblicità di
dentifrici. Tutto così dolce, sereno e tecnologico. La voce suadente del
cantante “democratico” per definizione ricorda che «c’erano un tempo i libri di
carta, c’erano le lavagne col gesso» e - udite, udite – «un tempo si credeva
che si potesse imparare soltanto dalle maestre e dai professori»... Un tempo
c’erano i trogloditi, che insegnavano con carta e gesso, bastonando con la
mazza chi non ascoltava e obbediva. Oggi apprendiamo dalla vita... C’è
internet, ci sono i libri elettronici, le lavagne digitali e «noi insegnanti»,
mettendo via la mazza da trogloditi, abbiamo persino capito che abbiamo da
imparare dai ragazzi.
Viene
in mente l’inossidabile commento di Platone sul «bello e baldanzoso principio
da cui si genera la tirannia»: «che il maestro tema e aduli gli scolari, e gli
scolari facciano poco conto dei maestri e dei pedagoghi; e in tutto i giovani
si mettano alla pari con gli anziani e con essi gareggino a parole e in atti; e
i vecchi cedendo ai giovani si mostrino pieni di arrendevolezza e imitino i
giovani per non sembrare né sgraditi né autoritari». È la fotografia delle
visioni del nostro ministero.
Quanto
precede apre territori sterminati al sarcasmo ma con quale utilità? Lo
spettacolo non è serio, ma la situazione è grave e c’è poco da ridere. Per
imbastire discussioni costruttive occorre un terreno minimo di serietà. Si può
parlare di tutto, confrontare dottrine pedadogiche diverse, anche dibattere
sulla figura dell’insegnante tra “maestro” e “facilitatore”, ma quel che non è
ammissibile è proporre come base una rappresentazione caricaturale al limite
dell’autolesionismo per cui tutto finora sarebbe stato un colossale errore e
soltanto adesso avrebbe inizio la storia di una vera scuola moderna e
“democratica”. E quale incosciente pretesa farlo dal fondo di una crisi epocale
del sistema dell’istruzione su cui pure hanno avuto campo libero da qualche
decennio proprio quelle teorie sventolate come toccasana! Nessuna discussione
seria è possibile se si prende come punto di partenza la derisione della scuola
della carta e del gesso, che dava un ruolo troppo centrale a maestre e
professori, come se quella scuola non avesse prodotto il meglio della cultura
nazionale di fronte al quale l’immagine del presente desta un senso di pena.
È
semplicemente penoso confrontare le barriere sociali che pone la scuola di oggi
– tanto più quanto più solletica idee ludiche e si prostra davanti al soggetto
studente – di fronte all’ascensore sociale che era possibile nella scuola
italiana postunitaria; quando il futuro “signor scienza italiana” Vito
Volterra, figlio di una vedova indigente e destinato al mestiere di impiegato,
riuscì a farsi valere in un Istituto Tecnico sotto la guida di un professore di
fisica che ebbe l’autorità (quale professore di Istituto Tecnico l’avrebbe
oggi?) per farlo entrare alla Normale di Pisa.
Nessun
rimpianto per vecchi modelli ma, per favore, lasciar sfottere un passato
rispettabile da un canzonettista, con slogan di una retorica vuota e bolsa,
indica il livello culturale cui è giunto il nostro ministero, capace ormai
soltanto di un dirigismo statalista e di operazioni di propaganda che indicano
la discendenza dal modello autoritario costruito da Giuseppe Bottai. Cosa di
buono può venire da tutto ciò?
Il
ministro Profumo è da poco al ministero e non è responsabile di tante cose
negative accumulatesi nei decenni e di cui portano la massima responsabilità
diversi suoi predecessori. Ma è ormai il caso di chiedersi cosa abbia fatto di
buono in questa breve permanenza.
1)
Si è trovato davanti al dossier del nuovo regolamento per la formazione degli
insegnanti e invece di implementarlo ha dato spazio alla guerra della dirigenza
ministeriale contro i numeri proposti dalle università per le lauree magistrali
e per il Tirocinio Formativo Attivo.
2)
Ha definitivamente affossato le dette lauree magistrali per la formazione degli
insegnanti, che erano uno degli aspetti più innovativi di quel regolamento e la
cui preparazione aveva stimolato un inedito coinvolgimento delle università nel
rapporto con le scuole.
3)
Ha lasciato che le prove di ammissione al TFA fossero gestite nel modo più
contrario allo spirito del regolamento e cioè con batterie di test che, anziché
servire a una scrematura iniziale, sono state una esibizione indecorosa di
nozionismo e di errori sesquipedali.
4)
Anziché cassare queste prove, chiedere scusa e ricominciare in modo serio, ha
fatto “aggiustare” la baracca da una commissione in forme a dir poco
discutibili.
5)
Alla vigilia dell’esame di maturità, di fronte alla richiesta di pronunciarsi
contro la prassi del “copiare”, ha nicchiato ed ha evitato di prendere
posizione. Basterebbe questo a dire quanto sia “internazionale” la posizione
del ministro, ove si pensi a quanto sia considerato scandaloso copiare negli
USA, dove si è scatenato un dibattito acceso circa le vie oblique che
offrirebbe al copiare la procedura del “copia e incolla” da internet.
6)
Ha preso posizione con grande leggerezza sul tema dei compiti a casa, che
merita riflessione e non dichiarazioni estemporanee e su cui, comunque, il
ministero non deve mettere becco, lasciando al docente la libertà di
metodologia didattica, a meno di non tornare a stili autoritari di stampo
“bottaiano”.
7)
Ha fatto dichiarazioni a ruota libera sulla scuola che deve diventare web community,
con la sostanziale abolizione dei libri, mentre le conoscenze debbono essere
costruite attraverso lo studio collettivo e in rete degli studenti,
“verificate” in classe con l’aiuto dei docenti, in un’alternanza
docente-studente sulla cattedra. Il tutto per finire con la proposta della
scuola come “centro civico”.
8)
Ha promosso un concorsone per la scuola il cui bando sulla Gazzetta fa
inorridire: sembra un esame per la patente di guida, con la pretesa di
verificare con test le competenze “logiche e deduttive” e un esame per
discutere come si gestisce una classe. Ciò si accompagna alla ripetuta
affermazione del ministro secondo cui le conoscenze sono meno importanti dello
“stare in classe”. Il ministro dovrebbe avere il buon gusto di rendersi conto che
egli non è Aristotele e che non basta affermare una cosa (tanto discutibile)
perché sia vera e tantomeno per farne l’ossatura di un concorso di stato (torna
ancora Bottai).
9)
Ha fatto una proposta di aumentare l’orario dei professori a 24 ore che non merita
altro commento se non quello del professor Ferratini sul Corriere della Sera:
“chiacchiere da bar”. Le quali però rischiano di diventare realtà, di provocare
un altro sconsiderato taglio proprio sul fronte su cui andrebbe evitato e di
produrre un ulteriore degrado della figura dell’insegnante verso quella
dell’“istruttore”, che passa di classe in classe come una sorta di badante (il
che sembra essere voluto, perché è plateale la coerenza con i propositi di cui
al punto 7).
10)
Sul fronte universitario il ministro Profumo ha lasciato che l’Anvur (Agenzia
nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca) si arrogasse
poteri non previsti dalla legge di riforma, in particolare quello di definire
mediante criteri numerici chi ha o non ha diritto di essere commissario per
l’abilitazione nazionale e di presentarsi al concorso. Ha lasciato che l’Anvur
definisse criteri basati su un calcolo della “mediana” a livello nazionale, che
non sono adottati in nessun paese del mondo, ignorando con intollerabile
supponenza le critiche pur fondate su un’ampia letteratura internazionale. Ha
patrocinato la messa in opera di un sistema di valutazione di stato sotto il
controllo di un ente irresponsabile, il che ancora rappresenta un caso unico al
mondo di dirigismo che può essere spiegato soltanto con l’inossidabile eredità
di stile bottaiano.
11)
Ha ignorato gli innumerevoli errori commessi dall’Anvur nei suoi calcoli, il
fatto stesso che il ripetuto cambiamento di algoritmo della mediana indicava il
carattere totalmente arbitrario (altro che “oggettivo”!) del procedimento
adottato. Ha ignorato lo scandalo di decine e decine (ma il numero continua ad
aumentare) di riviste per nulla scientifiche che l’Agenzia ha accreditato come
scientifiche. Ha ignorato il fatto che con i calcoli dell’Anvur sono state
escluse a priori dal ruolo di commissari persone riconosciute in Italia e
all’estero come di grande prestigio, magari ammettendone altre che tale
prestigio non hanno.
12)
Non ha fatto quel che doveva, ovvero sconfessare e sciogliere l’Anvur, e in tal
modo si è reso corresponsabile delle sue imprese.
Vi
sarebbe dell’altro ma quanto precede basta e avanza. Il ministro Profumo è
riuscito nell’impresa di fare un numero incredibile di cose sbagliate e
perniciose in un tempo ristrettissimo. Dovrebbe avere almeno la sensibilità di
ritirarsi prima di provocare altri guasti.
mercoledì 17 ottobre 2012
Lo scandalo infinito delle riviste "scientifiche" secondo l'Anvur
Una nuova puntata su Roars ripresa da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera.
lunedì 15 ottobre 2012
sabato 13 ottobre 2012
venerdì 12 ottobre 2012
ULTIMISSIME SUL FRONTE ANVUR
In una nota emessa poco fa (inizio del fine settimana) l'Anvur ammette candidamente il proprio fallimento, e cioè che tutti i calcoli fatti per stabilire chi ha diritto a essere commissario per l'abilitazione nazionale universitaria e chi non lo ha, sono inattendibili. E se ne sono accorti ora... e hanno scaricato prontamente la patata bollente sui docenti e sul ministero. I primi dovrebbero fare delle rettifiche delle loro "inadempienze" in rete. Non si sa con quale risultato e in che contesto visto che l'Anvur ha trasmesso il suo "lavoro" al ministero, che non si capisce cosa dovrebbe fare, visto che compete all'Anvur fare i conti...
Domanda retorica: cosa succederebbe in un paese civile di fronte a una simile catastrofe?
giovedì 4 ottobre 2012
lunedì 1 ottobre 2012
BESTIARIO MATEMATICO n. 16 bis
Ancora sulle "competenze" matematiche dell'Anvur:
Ricevo
una cortese segnalazione da parte del dott. Sebastiano Carpi, ricercatore di
analisi matematica. Riguarda un passo delle FAQ sugli indicatori bibliometrici
che si trova sul sito dell’Anvur (http://www.anvur.org/?q=it/content/faq-indicatori). Eccolo:
«Come si
applicano le mediane ai fini del superamento delle stesse?
Il DM 67 specifica che ogni indicatore si intende
superato se il soggetto presenta un
valore maggiore della rispettiva mediana. Il
dettato della norma va inteso nel senso di strettamente maggiore. In pratica se l’indicatore è frazionario,
si intende la frazione superiore,
troncata alle due cifre decimali (es. se il numero di citazioni normalizzato ha mediana 12,25, passano il criterio
coloro che hanno un indicatore di
12,26 o superiore). Se l’indicatore è per
costruzione un numero intero, come nel caso dell’ h contemporaneo, si intende l’intero superiore.»
Esaminiamo questo brano che
descrive bene le “competenze” anvuriane. Assioma (per decreto): un soggetto verifica i requisiti se supera
strettamente il valore della mediana di riferimento. Quindi, il “suo”
indicatore numerico deve essere strettamente maggiore della mediana di
riferimento e non uguale ad essa (non ≥ ma >).
Ora, si dice che, se i
valori sono per costruzione (sarebbe meglio dire “per definizione”, ma lasciamo
perdere) numeri interi, l’indicatore deve essere il numero intero superiore alla
mediana: se la mediana è 2, l’indicatore deve essere almeno 3. (Come è scritto
qui sembra che debba essere proprio 3, ma lasciamo perdere, la precisione di
linguaggio non è un cavallo di battaglia anvuriano). E fin qui è tutto chiaro.
Ma che succede se la
mediana è un numero frazionario? Anche in tal caso, occorre superarla, e si dice che il
numero che la supera è la frazione
superiore.
Ah, questa è bella
davvero! All’Anvur (che pure conta dei laureati in materie scientifiche) non
sanno che non esiste “la” frazione
“superiore” di una frazione data. Difatti, tra un numero come 12,25 e
12,26 vi sono infiniti numeri frazionari e se prendo uno qualsiasi di questi,
anche uno vicinissimo a 12,25, tra lui e 12,25 ve ne sono ancora infiniti, e
così via. Insomma, l’insieme dei numeri
razionali (a differenza degli interi) è
denso. (Non è continuo, ma è denso, ma non addentriamoci in concetti
troppo complicati).
Insomma, a quanto pare,
all’Anvur non sanno cosa siano i numeri razionali…
Si dirà: ma no, hanno
chiarito tutto con la faccenda delle frazioni "troncate". Ma il problema è proprio nella "troncatura"! La legge è chiara: si accede se si supera strettamente la mediana. Quindi, se
la mediana è 12,25 = 1225/100, e se il mio indicatore è 12,251 = 12251/1000,
esso è strettamente maggiore di 12,25 (12,251 = 12251/1000 > 12250/1000 =
1225/100 = 12,25) e quindi, a norma di legge sono ammesso.
L’Anvur “tronca” al
secondo decimale. E chi l’ha autorizzata a far questo? E per giunta a fare un'operazione (la "troncatura") di una grossolanità sesquipedale? E per giunta definita con i piedi.
Già, perché se volessimo prendere la frase alla lettera, ci si dice che si sarebbe ammessi con il valore della "frazione superiore troncata alle due cifre decimali": allora, siccome 12,251 è maggiore di 12.25, "troncando" si ottiene che si è ammessi con 12,25 (ovvero 12,25 > 12,25). Esilarante.
Ma no, siamo seri con 12.25 non si passa. Fedeli al dettato anvuriano, esaminiamo il caso in cui la mediana sia 12,25 e una persona abbia come indicatore 12259/1000 = 12,259. L’Anvur “tronca” e quindi con 12,25 la persona non passa. Se ha 122599/10000 = 12,2599, l’Anvur tronca e non passa lo stesso. Se ha 1225999/100000 = 12,25999, l’Anvur tronca e neppure passa. E così via… Però un’altra persona che ha 1226001/100000 = 12,26001, “troncando” avrebbe 12,26 e quindi passa.
Ma no, siamo seri con 12.25 non si passa. Fedeli al dettato anvuriano, esaminiamo il caso in cui la mediana sia 12,25 e una persona abbia come indicatore 12259/1000 = 12,259. L’Anvur “tronca” e quindi con 12,25 la persona non passa. Se ha 122599/10000 = 12,2599, l’Anvur tronca e non passa lo stesso. Se ha 1225999/100000 = 12,25999, l’Anvur tronca e neppure passa. E così via… Però un’altra persona che ha 1226001/100000 = 12,26001, “troncando” avrebbe 12,26 e quindi passa.
Semplicemente ridicolo.
Casomai, se si fosse
voluto rendere l’indicazione meno grottesca, occorreva interpretare la
“troncatura” nel senso di approssimazione per difetto e per eccesso (come è
d’uso). In tal caso, una persona che ha 12253/1000 = 12,253 viene approssimata
a 12,25 e quindi non passa perché non supera strettamente la mediana. Invece,
il signore che ha 12259/1000 = 12,259 viene approssimato a 12,26 e passa.
Sarebbe stato meno
assurdo. Ma sarebbe stato comunque contrario allo spirito del decreto che,
parlando di «valore maggiore della mediana», implica che chiunque abbia un
valore maggiore della mediana, anche per una quantità piccola a piacere, è ammesso.
Sarà ridicolo anche questo, ma sono i numeri, bellezza (Humphrey Bogart dixit)…
Avete voluto la bibicletta numerica, pedalate.
Domanda: che
indicatore ha chi manipola numericamente l’intero sistema dell’università e della ricerca
italiane e non conosce le proprietà dei numeri razionali?
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