Il ricordo più vivo che ho di Marcello Cini è di una cena a
tre con mia moglie, qualche anno fa, in un piccolo ristorante di un paesino
maremmano. Per un uomo di apparenza altera – un gran signore nei modi – e in
realtà profondamente timido, era il clima giusto per aprirsi. Raccontò della
sua giovinezza, di com’era stato un fisico fortunato, in un periodo in cui per
un giovane ricercatore brillante era possibile trovarsi accanto ai grandissimi
della fisica, in un mondo della ricerca che sembrava marciare senza posa di
scoperta in scoperta. Ma l’amata fisica era divenuta una delusione per Cini,
che aveva ormai compreso che troppe erano le interrelazioni, troppi gli
elementi in gioco perché il modello riduzionista potesse reggere. Questa
consapevolezza lo aveva indotto a esplorare nuovi approcci come quello della
complessità, suscitando le ironie dei suoi colleghi ancorati al paradigma
tradizionale – ironie sussurrate nei corridoi, perché troppo era il suo prestigio
– che tendevano a dare di lui l’immagine di un fisico “pentito”, che si era
lasciato sedurre da fumisterie tra il filosofico e il letterario. Invece era
proprio questa la marcia in più di Marcello Cini: essere più ancora che un
fisico, un intellettuale a tutto tondo, che non riusciva a pensare la scienza se non in un contesto che includeva
storia, filosofia, politica, società.
La sua presenza ha accompagnato tutta la mia vita
universitaria, dagli anni post-sessantottini, quando, da poco laureato, entrai
nel Seminario di Storia della Scienza di cui era l’animatore, fino alla
collaborazione nel Centro di Metodologia delle Scienze dell’Università “La
Sapienza” in cui gli subentrai nell’incarico di direttore. Era una presenza che
intimidiva, malgrado il suo eloquio incespicante e un po’ freddo. Ed era un
rapporto non facile, perché Cini era tanto capace di cambiare opinioni con la
massima libertà di pensiero quanto intransigente. Non so quanti siano riusciti
a non litigare qualche volta con lui. Per parte mia, ricordo l’ira con cui
accolse la mia recensione critica del celebre L’Ape e l’architetto e, in tempi recenti, il dissenso sull’appello
contro la visita di Benedetto XVI alla Sapienza. Le sue scelte politiche furono
sempre molto nette e radicali. Ma chi si occupa di scienza e la cultura
italiana in generale deve a Marcello Cini molte cose importanti.
In primo luogo, gli si deve la diffusione di una letteratura
– tra cui le opere di Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e Imre Lakatos – cui allora
i guardiani del più piatto scientismo opponevano una feroce scomunica,
tacciandole di essere roba da maghi e fattucchiere. Le sue visioni critiche
della scienza ebbero una funzione esplosiva nella sinistra cristallizzata in
uno scientismo oscillante tra una sorta di crocianesimo marxista e l’ortodossia
materialistico dialettica di Ludovico Geymonat.
Tanti furono i suoi progetti e molte le disillusioni, come ammise
con franchezza. Il titolo di uno dei suoi ultimi libri, Il paradiso perduto parla da solo circa la sua disillusione nei
confronti della fisica. S’interessò alle teorie della “complessità” ma ammise
trattarsi di un concetto ambiguo. Si aprì sempre più all’interesse per la
biologia in una prospettiva non riduzionista.
Della sua opposizione al
dogmatismo scientista voglio ricordare un episodio per cui ho un debito di
riconoscenza: l’energia con cui patrocinò la pubblicazione del mio La macchina vivente di fronte ai rifiuti
editoriali che lo tacciavano di opera “spiritualista”. Ho condiviso poco del suo
percorso politico ma condivido in pieno l’idea – che abbia o no accenti marxisti,
poco importa – che la fonte di tutti i guai presenti sia la tendenza a ridurre
l’immateriale a merce. Lo si vede proprio nel momento della sua scomparsa,
quando la figura di un grande intellettuale risalta in un deserto culturale in
cui il movente della scienza non è più identificato nella conoscenza ma nella
manipolazione dell’umano.
(Il Foglio, 25 ottobre 2012)
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