È
facile dire che, per far ripartire il paese, occorre rilanciare il sistema
dell’istruzione e della ricerca scientifica. Purtroppo le agende elettorali non
vanno molto oltre il proclama retorico, soprattutto in tema di ricerca
scientifica. Proviamo a enunciare alcuni punti fermi suggeriti anche da recenti
esperienze.
È
invalsa l’abitudine di confondere la “ricerca” con l’“innovazione tecnologica”.
È una confusione grave che svaluta il ruolo della ricerca di base e viene
alimentata con il luogo comune degli scienziati che devono rendersi utili
scendendo dalla “torre d’avorio”. Ci si può chiudere in una “torre d’avorio”
anche confinandosi in visioni praticone, dimenticando che la rivoluzione
tecnologica che ha cambiato il volto del mondo è il frutto di una visione che
ha conferito un ruolo trainante al pensiero scientifico teorico. Come disse il
Nobel Albert Szent-Gyorgyi (uno scienziato assai “concreto”, cui dobbiamo la
vitamina C), «scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel
pensare ciò che nessuno ha pensato». Senza scienza di base non si va da nessuna
parte. I recenti esperimenti sui neutrini avevano senso e portata perché
avevano come sfondo la teoria della relatività e il modello standard. Purtroppo
pulpiti autorevoli si concedono il vezzo di discriminare le ricerche con il
criterio “a che serve?”. Chi pensi di considerare la ricerca di base come un
inutile orpello prospetta un declino del paese a mero utilizzatore delle
scoperte altrui. La ricerca di base va sostenuta senza pretendere ricadute
tecnologiche immediate.
È
necessario pensare alla formazione di persone capaci di stabilire un rapporto
diretto con le aziende e che completino la preparazione universitaria con stage
aziendali. Ma sarebbe irresponsabile pensare che questo possa esaurire la
formazione dei ricercatori scientifici. Purtroppo si sente parlare di
un’università interamente funzionalizzata alle esigenze delle imprese del
territorio, una sorta di superliceo per la formazione di quadri aziendali.
Qualcuno crede davvero che le grandi università statunitensi vivano in
dipendenza delle imprese del territorio? Oltretutto, in una condizione italiana
che vede la prevalenza della piccola e media impresa un simile indirizzo
rischia di confinare la ricerca scientifica a tematiche marginali.
Viene
quindi la questione dei finanziamenti. Su questo occorre essere chiari: se si
vuole una ricerca scientifica degna di un paese avanzato occorre spendere e
molto. Non è qui che occorre tagliare. Invece, alcune “agende” elettorali
seguono una linea da “botte piena e moglie ubriaca”: lasciano intendere che si
dovrà tagliare ancora e parlano di rilancio della ricerca scientifica. Veniamo
da un ennesimo taglio alle università che potrebbe costringerne diverse a
chiudere bottega. Forse qualcuno s’illude che la ricerca possa reggersi su
qualche punta isolata, con un CNR ridotto a ectoplasma? Inoltre, non è serio
far credere che gli investimenti nella ricerca possano essere incrementati solo
sul fronte privato e rafforzando il legame tra imprese e università: negli USA
i finanziamenti federali per la ricerca, per quanto siano stati ridotti negli
ultimi anni, hanno livelli imponenti a noi sconosciuti.
Certo,
si dice giustamente che finora i quattrini sono stati spesi male e che occorre
valutare le università e i centri di ricerca. Figuriamoci se non si può essere
d’accordo su questo, nei giorni in cui è mancata una grande scienziata
italiana, Rita Levi Montalcini, che ha conseguito le sue scoperte all’estero
perché in Italia si preferì ridare credito anziché alla scuola del suo maestro,
il grande Giuseppe Levi, a un mediocre personaggio che aveva il solo “merito”
di esser stato protagonista del razzismo di stato fascista. Si valuti quindi,
ma il sistema di valutazione deve essere sensato e deve premiare il merito.
Invece, siamo nel pieno di un’esperienza disastrosa promossa dall’Anvur
(Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca). Nel corso
dell’approvazione della riforma universitaria le forze politiche avevano
promesso: niente valutazioni dirigiste a monte, bensì valutazioni a valle.
Agite liberamente e sarete valutati ex post, e quindi premiati o sanzionati in
base ai risultati. Inoltre, niente burocrazia: la valutazione deve svolgersi
come un severo confronto tra competenti e non affidato a enti sottratti a ogni
controllo. È accaduto il contrario. Un gruppo ristretto di persone di nomina
politica ha deciso come valutare a priori chi poteva far parte delle
commissioni di concorso e chi poteva concorrere, con parametri statistici così
poco credibili da dover essere cambiati continuamente in corso d’opera e aver
prodotto umilianti ingiustizie, tali da determinare ricorsi giudiziari. Come ha
osservato Sabino Cassese, non solo l’Anvur ha ucciso la valutazione,
confondendola con una strampalata misurazione e burocratizzandola, ma ha ucciso
sé stessa consegnando l’ultima parola ai giudici amministrativi. La
“bibliometria di stato” introdotta in Italia non ha uguali nel mondo, è stata
criticata all’estero e persino derisa. Ma né queste critiche né quelle avanzate
da autorevoli istituzioni italiane sono state prese in considerazione, a
riprova che il sistema della ricerca è sotto l’egida di un dirigismo
tecnocratico privo di sensibilità culturale e democratica.
Vi
è infine un aspetto psicologico tutt’altro che secondario. Da anni il mondo
della ricerca e dell’università è depresso da continue “bastonate”
sproporzionate rispetto agli errori e alle colpe. Quando l’Anvur ha informato
che solo il 5% dei professori universitari non ha pubblicato negli ultimi anni,
qualcuno ha strepitato che non deve esistere neanche un nullafacente, sognando
mondi perfetti che non esistono, a cominciare dal proprio. Nella ricerca e
nell’università esistono tante forze valide. Sarebbe un errore irreparabile,
invece di restituire a questo mondo il senso di un ruolo culturale e sociale,
continuare a “bastonarlo” con tagli, valutazioni sconsiderate, prescrizioni
burocratiche, dirigismi soffocanti e occhiuta sfiducia. Cosa di buono può
venire da tutto questo?
(Il Messaggero, 4 gennaio 2013)
1 commento:
Istruzione e ricerca se la passano proprio male, ultimamente. Su tutti i fronti (politico, economico, mediatico, ecc.) e più del solito (il che è tutto dire). Leggendo i programmi dei vari partiti si può constatare, senza sorprendersi, solo il vuoto assoluto. Persino nell' editoriale di domenica di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, su 12 domande rivolte a tutti gli schieramenti a proposito delle più svariate questioni, non ce n' è neanche una sulla scuola o sull' università. Mentre non mancano questioni tipo termovalorizzatori sì/no (siamo ancora a questo punto...), cittadinanza ai bambini nati in Italia o sovraffollamento delle carceri. Senza parole.
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