Dice Sylvie Goulard [autrice con Mario Monti di un libro sulla democrazia e le élite] che la democrazia è inefficiente se non è governata nell’interesse generale da élite capaci. Ovvero, è inefficiente se è governata da incapaci privi di senso dell’interesse generale. Fa venire in mente quei propositi di Catalano, il filosofo di Quelli della Notte che, dopo essersi spremuto le meningi, sentenziava: «È meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente, che una povera, brutta e cretina». In verità, se vogliamo conservare qualche dignità alla sentenza di Goulard occorre ricordare che lei parla di «élite selezionate in base al merito». Ma allora sorge la domanda: selezionate da chi e come? E allora si capisce che qui si lascia intendere in modo pudico: selezionate da sé stesse, da chi ha merito, “meritocrazia” per l’appunto, potere del merito, che si legittima da solo. Goulard dice che, nelle sue riflessioni, ha citato Gardels ma si è riferita soprattutto alle analisi dei padri fondatori americani ed europei, agli Illuministi, insomma a quelle riflessioni che si sviluppavano nei salotti parigini di fine Settecento tra i protagonisti delle rivoluzioni americana e francese. Se avesse approfondito questa tematica avrebbe fatto ricorso a un aforisma meno catalanesco e più chiaro e brutale del suo: quello del celebre Condorcet quando disse che «una società che non è governata dai filosofi cade in mano ai ciarlatani». L’idea era vecchissima, risaliva a Platone ed è stata ampiamente criticata. Per esempio, Alexandre Koyré, nei suoi saggi su Platone ha osservato che è evidente che solo il sapere giustifica l’esercizio del potere, ma soltanto il sapere assoluto giustifica un potere privo di legittimazione democratica. Una società che fosse governata da uomini assolutamente saggi, e quindi dotati di una scienza capace di estendersi alla comprensione degli individui sarebbe più felice di una società governata dalla legge, che non si applica mai in modo perfetto ai casi individuali. Ma «una scienza siffatta non esiste. Il politico ideale dovrebbe essere un saggio, anzi un dio. Se fosse un uomo, e si ponesse al disopra della legge, sarebbe assolutamente un tiranno». Chi prese alla lettere l’aforisma di Condorcet fu Napoleone che stabilì la propria tirannia al disopra della legge – ovvero creando lui stesso la legge – e vantando la sua onniscienza: come amava ricordare compiaciuto, era anche membro dell’Accademia delle Scienze...
In realtà, Condorcet non era così semplicista e il suo aforisma rappresenta, in parte, una caduta sfortunata, perché tutto il pensiero dell’epoca è concentrato attorno al principio chiaramente espresso da Sieyès: «tutto è rappresentanza nell’ordine sociale». Il vero problema, la vera ossessione dell’epoca è come determinare le procedure ottimali con cui “rappresentare” adeguatamente e fedelmente la volontà popolare. In altri termini, è il problema delle elezioni e delle loro modalità, che è uno degli aspetti fondamentali della democrazia. Per cui, in fin dei conti, l’unico modo per selezionare i più capaci, i più “meritevoli” di governare la società è di determinare un sistema che rifletta nel modo più fedele la volontà popolare. I “padri fondatori” fecero ogni sforzo in tale direzione, mobilitando persino il pensiero matematico, con la famosa “mathématique sociale” di Condorcet. Quando oggi dibattiamo attorno al sistema elettorale migliore, non facciamo altro che sviluppare un filone di pensiero che risale a quel periodo.
Tornare alle analisi dei padri fondatori della democrazia ha senso se non se ne dissolve la complessità e la ricchezza, proponendo una versione un po’ ipocrita dell’aforisma di Condorcet, cioè senza avere il coraggio di dirla tutta, parlando di “selezione in base al merito” senza affrontare il problema centrale di come si deve operare questa selezione. Se l’idea è quella che la selezione la facciano i meritevoli stessi, allora l’unico modo di sfuggire al circolo vizioso è di dire, sinceramente e brutalmente, che il potere se lo prende la corporazione che si autodefinisce come insieme dei “saggi”, o “competenti” (come si dice oggi). Alla faccia della democrazia: difatti, quel che si sta dicendo è che la democrazia è efficiente se non è tale, se è un altra cosa, se è “meritocrazia” per l’appunto (che vuol dire “potere dei meritevoli” e non il premio del merito, come sarebbe più saggio e “democratico” perseguire). Ma la ricerca di un sistema efficiente che mette da parte il problema della rappresentanza è una banalità: proprio i “padri fondatori” avevano dimostrato che i sistemi più efficienti sono quelli in cui non sono rispettati requisiti come l’assenza di un potere dittatoriale.
In realtà, questa maniera di buttare alle ortiche il problema della rappresentanza e della democrazia è il portato di un pensiero tecnocratico e manageriale che è all’opera tutti i giorni, nella pretesa di demandare le decisioni a organismi “tecnici” e “competenti”, con risultati spesso desolanti, ma sottratti a contestazione, perché gli organismi di “valutazione” sono fuori controllo, in quanto competenti per definizione. Ma allora si abbia il coraggio di dire chiaro e tondo quel che si vuole, invece di mascherarlo con elaborazioni teoriche catalanesche.
(Il Foglio, 10 gennaio 2013)
8 commenti:
Questo discorso sulla democrazia efficiente non tiene conto, secondo me, di una pregiudiziale fondamentale: i "meritevoli", i "competenti", i "tecnici" perseguono il "bene comune" del loro Paese? E se perseguissero quello della Goldman Sachs?
Ragionamenti temo troppo complicati e ... fuorvianti per chi e' autoreferenzialmente, maniacalmente e quindi efficacemente occupato solo nella conquista del potere.
Bell'articolo, grazie, se non fosse che l'evidenziare il gorgo in cui siamo pianificatamente e volonterosamente risucchiati rende ancora piu' amara l'esistenza.
Sacrosantamente vero. Del resto, il termine "meriotocrazia" è nato come dispregiativo, in un saggio che - a sentirselo raccontare - sembra piuttosto un racconto di fantascienza, ma di quelli amari. L'inventore della parola, Michael Young, si è addirittura pentito di averla inventata! visto che è stata presa esattamente al contrario (se vuole, c'è l'articolo qui: http://www.guardian.co.uk/politics/2001/jun/29/comment).
Umberta
Anni fa, quando si era appena iniziato a discutere all'interno dell'università sull'introduzione dei criteri di valutazione quantitativa ("meritocratici"), un collega più anziano, persona profonda e acuta, coinvolto in una delle commissioni istituite ad hoc dalla Facoltà di Scienze mi raccontò un aneddoto che mi colpì molto. La difficoltà più grande, mi disse, quasi insormontabile, che incontrava la commissione era quella di pervenire a una definizione condivisa di "merito". Da allora questa domanda mi ronza in testa: che cos'è il "merito"? La risposta migliore che sono riuscito a darmi è "non lo so". Se si riuscisse a concordare sul significato di questo termine, cosa che ritengo difficile se non impossibile, forse tanti conflitti potrebbero trovare una soluzione.
Invece, oggi, l'imposizione di uno slogan privo di fondamento semantico è solo un mezzo per rivestire di rispettabilità gli abusi di una classe dirigente autoreferenziale, autoselezionata, automeritocratica.
Gentile Professore,
qua il merito è quello di capire tempestivamente da che parte è imburrato il pane.
Non capisco. La democrazia non dev'essere valutata sulla base dell'efficienza di garantire ottimi governanti, bensì, la sua efficienza si limita, nel senso stretto del termine, a garanzia dell'espressione elettorale individuale e alla partecipazione dell'attività politica.
Inoltre, faccio notare che, sono piuttosto scettico per quanto concerne la coincidenza del principio di isonomia con quello di meritocrazia: l'uguaglianza non implica la meritocrazia e viceversa.
Proprio così. Bisogna andarlo a dire a Goulard, Monti & co.
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