Pochi mesi dopo la storica fabbricazione di un clone di pecora, il biologo inglese Jonathan Slack annunciò di aver creato in laboratorio solo alcune parti di una rana programmando geneticamente la crescita dell’embrione. Si prospettò allora la possibilità di fabbricare “esseri” umani dotati di tutti gli organi salvo il cervello e il sistema nervoso centrale, e quindi utilizzabili come “materiale” per trapianti, evitando le obiezioni etiche e i divieti giuridici. Queste suggestioni sono oggi quasi dimenticate, ma allora, nell’onda dell’entusiasmo per il successo della clonazione, tra le non molte voci che si levarono a condannare quello che il bioeticista inglese Andrew Linzey definì fascismo scientifico, vi fu quella di Rita Levi Montalcini che parlò senza mezzi termini di “ricerche ripugnanti”. È un episodio, tra molti analoghi, che va ricordato perché Rita Levi Montalcini non si associò mai al coro di chi considera “oscurantista” qualsiasi obiezione a qualsiasi sviluppo della ricerca, e non esitò a criticare sviluppi che riteneva incompatibili con i principi di un’etica umanistica. Questa visione, che si legava alla sua passione per la cultura in generale – e che la spinse tra il 1989 e il 1995 a impegnarsi nella presidenza dell’Enciclopedia Italiana “Treccani” – la accomuna agli scienziati classici che consideravano la scienza soprattutto un’impresa di conoscenza al servizio della dignità dell’uomo.
Non è probabilmente un caso se la scoperta che la rese famosa e le valse il premio Nobel per la medicina, non si inquadra in una genetica riduzionista ed anzi ha mostrato che la formazione del sistema nervoso e del cervello non sono strettamente riconducibili a un programma genetico. Quando Rita Levi Montalcini scoperse una sostanza che determinava la crescita rapidissima in vitro delle cellule nervose dei gangli simpatici, non si arrestò alla constatazione di questo effetto particolare ma puntò a scoprire i meccanismi che determinano lo sviluppo di tutto il sistema nervoso. Con la tipica tenacia di chi è mosso soprattutto da un intento di conoscenza complessiva, riuscì a generalizzare la scoperta di quella sostanza, il “fattore di crescita nervosa”, NGF. Dopo le sue ricerche, come ha scritto Alberto Oliverio, “oggi non si guarda più al sistema nervoso come a una struttura rigidamente predeterminata ma come a una struttura plastica, segnata dall’individualità”.
Le caratteristiche scientifiche, culturali ed etiche della personalità di Rita Levi Montalcini si spiegano anche con la scuola da cui provenne. Sotto questo profilo, la sua vicenda è anche il paradigma del perché e come l’Italia ha perso l’occasione di essere una potenza mondiale della biologia. Suo maestro fu Giuseppe Levi, un professore di anatomia umana che all’università di Torino aveva un centro di ricerche di analisi istologica e citologica di rilievo mondiale, finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller. Levi sviluppò a un gran livello di raffinatezza la tecnica della cultura in vitro, perfezionando i metodi di microdissezione, con un’attenzione speciale per lo studio dei meccanismi di crescita cellulare. Ebbe molti allievi, tra cui spiccano tre nomi, tre Nobel, che rappresentano il gotha della biologia del Novecento: Salvatore Luria, Renato Dulbecco e, appunto, Rita Levi Montalcini; Tutti e tre profondamente devoti al loro maestro e alla sua memoria. Va anche detto che Levi, come altri scienziati italiani manifestò un’apertura inedita all’epoca per il ruolo delle donne nella ricerca scientifica.
Quando le leggi razziali fasciste espulsero gli ebrei dalle università italiane, il gruppo di ricerca di Giuseppe Levi fu distrutto: egli stesso era già in una posizione difficile per il suo antifascismo militante. Levi e la sua allieva Levi Montalcini emigrarono in Belgio, dove continuarono a lavorare fino all’invasione nazista. Dulbecco e Luria emigrarono negli USA, quest’ultimo definitivamente, assumendo il nome di Salvador E. Luria. Dopo anni drammatici - durante i quali Giuseppe Levi vagò nella clandestinità - alla fine della guerra il maestro e l’allieva ripresero la collaborazione a Torino: allestirono un laboratorio di fortuna nella casa di quest’ultima per studiare lo sviluppo del sistema nervoso degli embrioni di pollo. Nel 1947, il Consiglio Nazionale delle Ricerche affidò a Levi un centro di ricerche istologiche, ma Rita Levi Montalcini si trasferì negli USA dove proseguì le sue ricerche pervenendo alle scoperte che la resero famosa. Fu quindi dall’altra parte dell’Atlantico che il seme gettato dalla scuola di Giuseppe Levi germinò.
Per capire quel che accade di qua, basti ricordare un episodio significativo. Subito dopo la guerra, Giuseppe Levi venne designato come futuro direttore dell’Istituto Nazionale di Biologia, fino a quel momento diretto da Sabato Visco, uno dei promotori del razzismo di stato. In una lettera, Levi accettò la nomina pur preoccupato per lo stato caotico dell’istituzione cui era stata condotta da “persona nulla scientificamente e moralmente poco raccomandabile... uno degli esponenti dell’Ovra universitaria”. Levi non fu mai nominato a quella carica ma solo alla direzione dell’Istituto di cui si è detto. Invece, Visco fu prima epurato, poi assolto e reintegrato con tutti gli onori. Nel 1952, il CNR, dovendo scegliere tra le richieste di finanziamento di Levi e Visco, attribuì all’Istituto di Levi una dotazione molto modesta e una alquanto lauta a Visco consentendogli di rimettere in sesto le sue deformi creature “scientifiche”.
Per questo, oggi, con la morte di Rita Levi Montalcini lamentiamo non soltanto la perdita di una grande scienziata e persona di cultura, ma anche il disastro con cui, il fascismo prima e poi un’amnistia sconsiderata – che fece volare gli stracci del fascismo riciclandone i più influenti e peggiori arnesi, i “redenti”, per dirla con Mirella Serri – compromisero in modo drammatico una posizione di primato dell’Italia nella scienza.
(Il Foglio, 2 gennaio 2013)
(Il Foglio, 2 gennaio 2013)
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