mercoledì 2 gennaio 2013

L'istruzione per un paese che cambia


Un collega statunitense mi scrive lamentando i tagli sulle università pubbliche che non risparmiano istituzioni famose come Berkeley. Si direbbe “mal comune, mezzo gaudio” ma – nota il collega – quel sistema regge perché in buona parte privato e sostenuto da alte rette. In un sistema quasi totalmente statale come il nostro, tagliare significa chiudere. L’Italia è l’unico, tra i paesi a istruzione statale, che persegua una simile linea. Si dice che i tagli si riassorbono abolendo gli sperperi, ma per farlo occorre fare scelte di merito. Questo non è stato mai fatto e, anzi, l’attuale “spending review” ricorre a parametri statistici più irragionevoli dei tagli lineari.
Pertanto, è giusto dire che il sistema va sostenuto pretendendo rigore ed efficienza. Nei programmi elettorali, tutte le parti politiche esaltano la centralità dell’istruzione per far ripartire il paese. L’agenda Monti parla di accrescere gli investimenti, ridare dignità alla funzione insegnante, rivalutare studio e ricerca. Troppo spesso il documento enuncia obbiettivi su cui non si può non convenire senza dire come conseguirli. Il passato offre un panorama opposto: il governo Monti ha tagliato fondi spietatamente, ha ostacolato la formazione dei giovani insegnanti, ha promosso il reclutamento con un mortificante concorsone a base di test da scuola guida, spesso formulati in dispregio della logica, ha promosso un sistema unico al mondo di valutazione universitaria (Anvur) basato sulla bibliometria di stato. Inoltre, ha rafforzato il dirigismo ministeriale, effetto bizzarro da parte di un governo liberale. L’agenda parla di rafforzare un sistema di valutazione basato su Invalsi e Indire (si ricordino le “pillole del sapere”) e di proseguire il progetto avviato dall’Anvur, e quanto agli investimenti allude solo a quelli privati. È quindi da temere che il disegno sia di affamare un sistema statale in cui non si crede più, salvandone una piccola parte e confidando nell’espansione del settore privato. Un paese avanzato che si conceda una pausa di decenni, vivacchiando con poche università statali e un paio di università private commerciali (in parte sostenute dallo stato) in attesa che nasca un sistema di tipo anglosassone, ha il declino assicurato.
A fronte di questa proposta ambigua e avventurosa, l’unico programma organico per l’istruzione è quello del partito che ha il più vasto consenso nel mondo dell’istruzione, il Pd. La proposta del Pdl, almeno per ora, è introvabile, e ciò non stupisce. Difatti, il Pdl, dopo aver ondeggiato tra lo slogan della “scuola delle tre i” e il richiamo al rigore e alla qualità, si è affidato passivamente alla dirigenza ministeriale e ai disegni confindustriali miranti – anche questo un caso unico al mondo – a smagrire il sistema dell’istruzione per ridurlo alla mera funzione di formazione di addetti per le imprese (a spese dello stato).
Il programma del Pd è vasto e propone di rifinanziare sostanziosamente scuola e università, opponendosi ai progetti di creare un sistema universitario elitario; propone di ridare dignità alla funzione insegnante, di migliorare la qualità del sistema attraverso un efficace sistema di valutazione. Molte voci a sinistra manifestano insofferenza per l’approccio tecnocratico, per la mania dei test e delle valutazioni automatiche e il disagio che dilaga nel mondo dell’istruzione condurrà a una crescita di consenso per le proposte del Pd. Sorgono però dubbi circa la loro capacità di superare errori del passato. Il vecchio modello di gestione dell’istruzione della sinistra si fondava sulla cogestione tra dirigenza ministeriale e sindacati che risolveva i problemi aggravando la spesa pubblica con scarsa attenzione alla qualità. Affinché questo modello non si riproponga occorre rinunziare per sempre al dirigismo, comunque declinato, che si tratti del Ministero o di nuovi “enti”. La valutazione – per avere senso e non essere mortificante – deve essere un processo interattivo interno all’istituzione e non governato insindacabilmente da enti “esterni” che diverrebbero – come l’esperienza dell’Anvur insegna – mostruosi centauri: per metà statalismo dirigista, in quanto deputati a un controllo globale, per metà privatismo, in quanto autonomi e non valutabili. Il rischio è che una tradizionale propensione statalista della sinistra si “modernizzi” con progetti conformi a quelli confindustriali.
Una contraddizione analoga si nota sui contenuti. Si parla di rivalutare la funzione insegnante e poi si dice che il docente non deve più essere “erogatore di conoscenze” ma “sollecitatore dell’apprendimento”. Ma quando mai un buon docente è stato “erogatore dell’apprendimento”? Casomai lo sono i docenti “sollecitatori” (o “facilitatori”) costretti a trasmettere in modo avvilente le direttive metodologiche del pedagogismo di stato. È poi contraddittorio attaccare aspramente l’ultimo ministero e riproporne alcune proposte (pessime) come quella di estendere la funzione della scuola a “centro civico”, “presidio pedagogico” del territorio, cedendo alla vecchia tentazione di mettere le brache al mondo. L’idea di creare un’istituzione preposta alle ricerche didattiche ed educative è inquietante e mortificante della libertà metodologica dell’insegnante: queste cose vanno fatte “nel” mondo dell’istruzione e non “al di sopra” di esso.
Tanto più la crisi è grave tanto più si sente la mancanza di programmi semplici e realistici: rifinanziare l’istruzione in una cornice di efficienza, reclutare conciliando l’apertura ai giovani con i diritti acquisiti su basi verificabili, valutare la qualità senza ricorrere a parametri mortificanti, riqualificare l’insegnamento partendo dai contenuti giunti a livelli troppo bassi, risanare le strutture prima di sperperare nel digitale.  
Al momento, siamo ancora nella strettoia tra una tecnocrazia che affama il cavallo in nome di miti liberisti, e tentazioni palingenetiche di rifare la società attraverso l’istruzione vista come demiurgo sociale. 

(Il Mattino, 31 dicembre 2012)

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