Ogni parte politica ripete che l’istruzione è la chiave far
ripartire il paese, promette di rilanciare la ricerca scientifica e
riqualificare l’università, di restituire dignità alla funzione insegnante.
Siamo tutti d’accordo, ma i buoni propositi non bastano. È vana retorica
chiedere l’eliminazione di sprechi e inefficienze mentre si scialacqua con le
“pillole del sapere”, con consulenze, con cattivi progetti di valutazione;
tagliare duramente mentre ci si propone di inondare di tablet scuole in cui
manca la carta igienica. Parlare di rilancio dell’istruzione e della ricerca
mentre si taglia soltanto non ha senso, soprattutto in un paese come l’Italia,
la cui principale risorsa è la cultura. Continueremo a tagliare? Basta fare
oggi un confronto tra un campus universitario italiano e uno sudafricano per capire
cosa ci attende: il quinto mondo. Speriamo che qualcuno non coltivi l’idea
sciagurata che l’università italiana è condannata e che tanto vale farla
deperire, salvando qualche punta d’eccellenza in attesa che nasca un sistema
privato. Nel frattempo saremo finiti nel quinto mondo.
Cosa possiamo sperare da un futuro che si profila buio? Che
si combatta il male che strangola il sistema italiano dell’istruzione: il
dirigismo. Per esempio, quello che ha condotto a introdurre – eccezione
mondiale – la valutazione universitaria con la bibliometria di stato. È un
dirigismo paradossale, perché non è solo statale, o basato sul connubio tra
dirigenza ministeriale e sindacati: di esso si avvale il mondo che più dovrebbe
avere una visione liberale, quello imprenditoriale. In nessun paese l’imprenditoria
manifesta un interesse tanto spasmodico a dirigere l’istruzione e la ricerca
proponendo ricette che non vanno oltre la dipendenza funzionale dal mondo
dell’impresa. Ma in un paese avanzato la scuola, l’università e la ricerca sono
molto di più che sedi di formazione di quadri aziendali. Einstein ammonì che la
scienza applicata non esiste: esistono solo le applicazioni della scienza. E una
nazione che non sviluppa la scienza di base è destinata ad andare a rimorchio
di quelle che hanno una ricerca scientifica propriamente detta.
Restituire dignità alla funzione insegnante? È una parola
vuota se gli insegnanti saranno sempre più ridotti a esecutori di precetti
imposti dall’alto, togliendo loro ogni autonomia metodologica; e se la
valutazione verrà intesa come una procedura gestita da “tecnici” al di sopra di
ogni controllo, anziché come un processo culturale interno all’istituzione.
Questi sono i mali da
evitare perché i buoni propositi non si riducano a retorica elettorale.
(Il Messaggero, 31 dicembre 2012)
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