«Al centro di tutti i corpi celesti sta immobile il Sole.
Chi infatti in questo bellissimo tempio potrebbe porre questa lampada in un
altro e miglior posto che quello dal quale può illuminare ogni cosa nello
stesso tempo? Non è invero sconveniente che qualcuno l’abbia chiamato la luce
del mondo; altri, la sua mente, e altri ancora, il suo sovrano. Trismegisto lo
chiama il Dio visibile; l’Elettra di Sofocle, colui che tutto vede. Così, come
se effettivamente sedesse su un trono regale, il Sole governa la famiglia delle
stelle che lo circondano».
Questa è la giustificazione dell’eliocentrismo data da
Copernico, intrisa di un misticismo che si richiama all’“autorità” di Ermete
Trismegisto leggendario fondatore del Corpus Hermeticum. Egli non fornisce
dimostrazioni dell’eliocentrismo basate su osservazioni empiriche. Più che
altro, si adopera a demolire le antiche obiezioni contro il moto della terra; per
esempio, osservando che non ha senso dire che, se la terra ruotasse, andrebbe in
pezzi, perché in tal caso dovrebbe andare in pezzi l’intera sfera celeste, che
ruota di moto uniforme. Copernico ha messo il Sole al posto della Terra in un
cosmo ancora tolemaico, finito, formato da sfere rotanti l’una attorno
all’altra e racchiuse dalla sfera delle stelle fisse. I metodi che usa per
descriverne il moto non differiscono di molto da quelli di Tolomeo.
A ben vedere, la motivazione dell’eliocentrismo è
metafisica. Perché la Terra dovrebbe comportarsi diversamente dagli altri corpi
celesti, producendo una disarmonia nel cosmo? Certo, il privilegio della
centralità è trasferito al Sole, ma v’è una buona ragione per farlo: è la
natura speciale di questo pianeta, lanterna del mondo. E cos’è la luce se non l’estrinsecarsi
della gloria divina? Mettere al centro la luce è ricostituire la vera armonia
del cosmo attorno a Dio. L’umanità è un po’ sminuita dalla perdita della sua
posizione centrale, ma quella centralità, nella concezione medioevale, non era
solo un privilegio: la Terra era anche il “fondo” del cosmo, la sua sentina,
raccolta di ogni bruttura, unico luogo dei processi di generazione e
corruzione, a differenza del resto, fatto di sostanza perfetta e
incorruttibile.
Alla visione positivista e neopositivista della scienza dispiace
ammettere che le teorie eliocentriche non si sono affermate attraverso
l’osservazione empirica e che hanno faticato assai per conquistare una
superiorità descrittiva rispetto al modello tolemaico, tanto complicato quanto
efficace. Gli storici della scienza sanno tutto questo, ma la visione dominante
della scienza che ha origine nel positivismo ottocentesco, predica che
l’impresa scientifica è l’unica forma di ragionamento oggettivo, basato sui
fatti, alieno da qualsiasi concessione ai miti, alle credenze, alla metafisica,
alla teologia. Questa visione è difesa accanitamente, altrimenti – si dice –
prevarrà l’irrazionalismo e il discredito della scienza. Com’è sbagliato credere
che la scienza sia un’impresa “pura”, unico dominio della razionalità
incontaminata dai “pregiudizi”, lo è ancor di più credere che un’immagine siffatta
la renda più simpatica e interessante e serva a combattere l’analfabetismo
scientifico. Al contrario, isolare la scienza dal resto del pensiero umano ne offre
un’immagine intimidatoria e persino repellente. È la via ideale per rendere la
scienza antipatica a chi non fa parte del consesso dei suoi sacerdoti.
La storia della scienza può agire fino a un certo punto per correggere
questa immagine positivistica, perché è una disciplina specialistica che trova
difficoltà nel rivolgersi a un pubblico largo. Può giovare molto la
presentazione dell’impresa scientifica nel contesto della vita autentica, degli
scienziati. È la via intrapresa da tempo da Jean-Pierre Luminet, astrofisico e
romanziere, proponendo brillanti romanzi biografici sui protagonisti della
rivoluzione scientifica. Lo ha fatto con La
parrucca di Newton, una biografia dello scienziato di cui parlammo su
queste pagine; e ora proponendo il romanzo L’occhio
di Galileo (La Lepre, 2012, € 22,00) che è multibiografico perché Galileo
ne è uno dei protagonisti con Keplero, e neppure il più importante.
Non ci troviamo davanti alle figure austere e disincarnate dell’agiografia
positivistica, ma a personaggi umani, che ricercano appassionatamente il vero intrecciando
l’osservazione empirica con filosofie, teologie, credenze, misticismi e
pregiudizi. E lo fanno in un contesto paradossale: difatti, mentre l’Europa è
attraversata da un fervore frenetico di nuove idee e dalla spinta verso un
pensiero libero dai vincoli del passato, un’ondata di intolleranza opprime il
continente. La Riforma protestante suscita la reazione della Chiesa cattolica
che si chiude nella riaffermazione dei suoi principi, cui segue un
irrigidimento degli altri mondi religiosi. Tutti i grandi protagonisti della
Rivoluzione scientifica sono stati vittime dell’intolleranza. Descartes fuggì
dall’Olanda per l’accusa di ateismo. Newton se la cavò nascondendo di essere
anti-trinitario. Se Galileo è l’emblema di queste forme d’intolleranza,
Copernico non ebbe sorte molto migliore nel mondo protestante. Nel 1540, il suo
allievo Georg Joachim Rhäticus ottenne a fatica il permesso di pubblicare i
manoscritti del maestro ma, per l’opposizione di Lutero fu costretto a passare il
compito al teologo luterano Andreas Osiander. Il manoscritto, nella versione
oggi nota, fu pubblicato nel 1543 – pochi mesi prima della morte di Copernico –
con una prefazione di Osiander che ne limitava il valore rivoluzionario presentando
l’eliocentrismo come un’ipotesi matematica utile tutt’al più a fini di calcolo.
La linea scelta da Osiander s’inquadrava in un classico tentativo
di “addomesticare” le nuove teorie, seguendo la soluzione proposta da Tommaso
d’Aquino. Difatti, già nel passato si era dovuto far fronte
all’inconciliabilità tra il sistema aristotelico, che faceva coincidere il
centro del cosmo con il centro della Terra, e il sistema tolemaico che, per far
tornare i conti, supponeva che fossero distinti. Era un problema grave per la
teologia, che aderiva al sistema aristotelico e si trovava di fronte a un primo
scardinamento del geocentrismo. Tommaso d’Aquino, nel commento al De caelo di Aristotele, propose una fine
distinzione concettuale tra il punto di vista della teoria fisica – il cui
compito è dedurre la struttura del cielo da principi indubitabili e quindi
comprenderne l’essenza – e quello della matematica – che mira a proporre una
descrizione coerente con le osservazioni. La teoria matematica era data dal
sistema tolemaico che offriva rappresentazioni efficaci e concordanti con i
fatti, ma inaccettabili sul piano fisico. La circolarità dei moti e la centralità
della Terra nel cosmo erano verità di ragione evidenti; ma la mente non riusciva
a farle combaciare con le osservazioni suggerite dai sensi imperfetti
dell’uomo. I successi del metodo matematico non dovevano indurre nell’errore di
ritenere che esso conduca alla verità, che soltanto la fisica (ovvero la teologia
e la filosofia) può conseguire. Questa distinzione stabilì una precaria
convivenza fra il sistema tolemaico e il sistema aristotelico: il secondo
esprimeva la verità circa la realtà fisica del cosmo mentre il primo offriva un
metodo pratico per il calcolo del moto dei corpi celesti.
È una visione che presenta sorprendenti aspetti di
modernità. Difatti, per la scienza di oggi, un modello matematico non è altro
che un’immagine di un aspetto della realtà il cui valore dipende solo dalla sua
efficacia pratica e non dalla sua “verità”. Ma, nello spirito contemporaneo,
dominato dal relativismo, non esiste un’altra sfera che si occupi della ricerca
del vero.
Non era infondato sperare che l’antica strategia
dell’Aquinate potesse funzionare anche nei confronti delle nuove ipotesi
eliocentriche, derubricandole a ipotesi matematiche accettabili, purché si
rivelassero più efficaci del collaudato sistema tolemaico. Non era infondato
anche perché le ipotesi eliocentriche erano argomentate in modo debole, mostravano
falle e contraddizioni. In fondo, tanto più si aderiva ai fatti, tanto più era
necessario andare con i piedi di piombo nell’accettare l’eliocentrismo, a meno
di non essere una “testa calda” sensibile a visioni filosofiche e persino
mistiche. Così, il più grande astronomo pratico del tardo Rinascimento, Tycho
Brahe, il maestro di Keplero – famoso per la vista potente e i nuovi strumenti
di misurazione che aveva installato nel castello di Uraniborg – escogitò un
bizzarro compromesso tra il sistema geocentrico e il sistema eliocentrico: la
Terra restava al centro del cosmo e il Sole gli ruotava attorno trascinandosi
però attorno gli altri pianeti. «Credo fermamente e senza riserve – proclamava
Tycho – che la Terra immobile debba essere posta al centro del Mondo, in
accordo con le credenze degli astronomi e dei fisici antichi e le testimonianze
delle Scritture». D’altra parte, la credenza totalmente geocentrica degli
Antichi era insostenibile: «Piuttosto credo che i moti celesti siano stabiliti
in modo tale che soltanto la Luna e il Sole e l'Ottava Sfera — la più distante
di tutte — hanno i loro centri nella terra. Gli altri pianeti girano attorno al
Sole come attorno al loro Sovrano e Re, e il Sole si trova sempre al centro
delle loro sfere ed è accompagnato da loro nel suo moto annuale. Quindi il Sole
sarà la legge e la fine di tutte queste rivoluzioni e, come Apollo fra le Muse,
egli soltanto determinerà l'armonia celeste dei moti che lo circondano». Questa
bizzarra miscela di geocentrismo e di eliocentrismo è proposta dal più grande
osservatore di fatti astronomici della modernità, la cui immane raccolta di
dati fu la base per le ricerche di Keplero: altro che evidenza dei fatti…
Del resto, Keplero non fu da meno, anzi superò il maestro nel
creare una bizzarra miscela tra credenze e precise osservazioni empiriche; solo
che al posto del richiamo alle credenze antiche egli mise una mistica eliocentrica
e la nuova religione dell’epoca: l’essenza del mondo è matematica, il mondo è
stato scritto da Dio nel linguaggio della matematica e spetta all’uomo
decrittare questa segreta stenografia.
Nella sua prima opera, il Mysterium Cosmographicum (1595) Keplero costruì un’immagine del
cosmo a dir poco stupefacente. La geometria greca aveva scoperto un fatto strano.
Nel piano esistono poligoni regolari –poligoni che hanno tutti i lati e gli
angoli uguali – con un numero qualsiasi di lati. Ma nello spazio, le figure
equivalenti, i poliedri regolari (le cui facce sono tutti poligoni regolari e i
cui angoli solidi sono uguali) sono soltanto cinque! Ne derivò la credenza che
questi cinque solidi “platonici” esprimessero qualcosa di molto speciale.
Keplero fu colpito da questa coincidenza mistica: 6 erano i pianeti (allora
noti), 5 erano le loro distanze dal Sole, come il numero dei poliedri regolari.
Ecco la chiave mistico-matematica dell’universo! Egli immaginò di inscrivere un
esaedro nella sfera del pianeta più lontano, Saturno. La sfera iscritta nell’esaedro
era allora quella su cui ruota Giove. In questa iscrisse un tetraedro e pensò
che Marte si muovesse sulla sfera in esso inscritta. E così, di seguito per il
dodecaedro, l’icosaedro e l’ottaedro, ottenendo le sfere della Terra, di Venere
e Mercurio. In tal modo era possibile determinare le loro distanze, non appena noto il raggio dell’universo.
Da una
tavola del Misterium Cosmographicum di
Keplero.
Nel romanzo di Luminet, Galileo
definisce il Mysterium di Keplero un
«confuso andirivieni tra geometria e fisica» e aggiunge: «Cosa importa a me se
un cerchio è più perfetto di un quadrato?». Non la raccontava giusta neppure
lui. Di certo, Galileo era più vicino di Keplero all’idea moderna di
razionalismo e la sua più grande “colpa” – origine di tutte le sue disgrazie –
fu di rigettare il “lodo” di Tommaso d’Aquino. Per lui, l’osservazione col
cannocchiale e, soprattutto, le deduzioni matematiche erano verità e non
modelli e questo fu il vero scandalo. Ma anche lui era ancora con un piede nel
vecchio cosmo, chiuso, finito, circolare. Al dogma del primato del cerchio non
rinunciò, tanto che la sua formulazione del principio d’inerzia è ambigua e
suona come l’affermazione che un corpo non soggetto ad azioni esterne si muove
di moto circolare uniforme, più che rettilineo. Ed è completamente falsa
l’immagine di Galileo che ricava le leggi dall’osservazione empirica: la legge
di caduta dei gravi (“matematica purissima”) fu dedotta col ragionamento e poi
verificata con complicati esperimenti sui piani inclinati, mai col lancio di
palle dalla torre di Pisa, come pretende una buffa leggenda. Galileo scavò a
fondo la meccanica terrestre, ma in meccanica celeste fu meno audace di
Keplero, forse proprio perché questi era più mistico e spregiudicato.
Certo, il Mysterium era un’opera giovanile, ma egli non la rinnegò mai, anche
quando, sulla scorta dei dati di Tycho e di lunghissimi calcoli, arrivò alla
conclusione scandalosa che le orbite planetarie attorno al sole non erano circolari
ma ellittiche. Difatti, nella sua opera – sommo rompicapo per gli interpreti –
ellitticità e circolarità convivono. Nel cercare una spiegazione del meccanismo
del mondo proclamò un intento rivoluzionario: considerare il sistema planetario
non come un essere animato da Dio (instar divini animalis) ma come un orologio
(instar orologii) fabbricato dal divino orologiaio sulla base di principi
matematici. Cosa muoveva questo meccanismo? Non “forze” come le intendiamo noi:
il concetto di forza non c’è nella fisica prima di Newton. Keplero s’ispirò al De magnete del medico inglese William
Gilbert: i corpi celesti sono come magneti che interagiscono e tutto è
governato dal grande magnete, il Sole, che emette il suo influsso lungo
filamenti circolari, imprimendo un moto rotatorio a una sostanza immateriale,
una species che, ruotando, trasporta
i pianeti lungo cerchi di diametri crescenti. La species diminuisce di densità e così l’influsso del magnete Sole s’indebolisce
alla distanza. Ne segue che la velocità del pianeta è inversamente
proporzionale alla distanza dal Sole. È una curiosa miscela di dinamica
aristotelica e di copernicanesimo che ripropone il carattere circolare del moto
dei pianeti.
Questi pochi spunti bastano a
dare un’immagine ben diversa da quella convenzionale della complessa
transizione dalla scienza antica alla scienza classica nel periodo della
rivoluzione scientifica. La visione geocentrica è rotta in modo irrimediabile,
ma la rottura è avvenuta, per così dire, a pezzi spesso incoerenti. Galileo
demolisce la concezione aristotelica dei corpi terrestri, aderisce al
copernicanesimo, propala notizie “scandalose”, come la constatazione che la
Luna è rugosa e irregolare e la Via Lattea non è continua, ma non esce del
tutto dal mondo chiuso e circolare dell’aristotelismo. Keplero perviene alla
formulazione di leggi rivoluzionarie sul moto dei corpi celesti (come l’ellitticità
delle orbite) ricavate dall’osservazione ed espresse in termini matematici, ma
le inquadra in ipotesi mistiche della struttura del cosmo. Le nuove teorie
convivono in modo difficile e talora contraddittorio con alcuni capisaldi del
pensiero aristotelico e scolastico. I protagonisti di questa epoca
straordinaria sono uomini che vivono all’incrocio dei venti: tra il
razionalismo antico, la cui coerenza sistematica si è imposta per secoli; le
intuizioni fantastiche, audaci e mistico-magiche del pensiero rinascimentale;
la credenza che occorre risalire indietro, fino alla “prisca sapientia” che
fiorì tra Atene e Gerusalemme; e il nuovo razionalismo basato sull’idea che
l’alfabeto del mondo è la matematica e che l’uomo possiede nuovi mezzi, come il
cannocchiale, per moltiplicare a dismisura la sua capacità di osservare il
mondo. È in questo crocevia entusiasmante e fervido di intuizioni avventate e di
passioni umane che nasce la scienza moderna.
4 commenti:
Il fascino della scienza, raccontata dalle parole pacate ed alate di Giorgio Israel. Grazie , professore!
Gentile professore,
ritiene che i due libri di Luminet siano adatti per ragazzi di 16 anni frequentanti il III anno di un liceo scientifico? Li vorrei proporre ai miei studenti. Grazie per l'eventuale risposta.
Sarei tendente a rispondere di sì, se penso ai ragazzi anche di 10-15 anni fa. Pensando agli attuali che sono mediamente disabituati a leggere qualcosa di più lungo di qualche pagina, sono perplesso. Ma si può tentare. La scrittura è piana e non vi sono difficoltà tecniche.
Grazie, sono abituati a leggere i miei studenti, almeno il 70%. Temevo per i contenuti, ma lei ha fugato ogni perplessità.
Posta un commento