Napoli
è una città difficile e tutto il meridione ha non pochi problemi: sarebbe
ipocrita ignorarlo. Ma di qui a dire – come ha fatto il ministro Giannini di
fronte agli episodi al Galiani di Napoli – che non si vedono indizi nazionali
che facciano allarmare, ne corre. Chiunque sia un minimo a contatto con il
mondo della scuola sa che il degrado fisico e il teppismo da cui sono investiti
gli istituti è un fenomeno nazionale che ha dei picchi in certi luoghi, ma non
è appannaggio di questi soltanto. Chiunque sia informato sa che i fenomeni di
teppismo “interno” – il minimo è lo scasso dei sanitari – è all’ordine del
giorno, come lo è il teppismo “esterno” di bande che, facendosi beffe di
sistemi di sorveglianza e sicurezza inesistenti o fragili, entra per rubare
computer e attrezzature informatiche, svaligiare l’incasso dei distributori di
bevande, lasciando la “firma” di mura imbrattate ed escrementi sui pavimenti. È
di questi giorni la situazione esplosiva di alcune scuole romane (non
napoletane) sottoposte all’intrusione di personaggi provenienti da un campo
Rom, con lanci di sassi e bottigliate, scorribande con i motorini, furti di
cellulari agli studenti minacciati con i coltelli, roghi tossici che infestano
le aule, fino a ipotizzare un legame con la criminalità organizzata. Altro che
indizi: qui siamo di fronte a una realtà che va avanti da anni e di fronte alla
quale ci si volta dall’altra parte, fino a che scoppia un caso particolarmente
odioso e allora si preferisce presentarlo come una patologia isolata.
Del
resto, come potrebbe andare in modo diverso in un’istituzione sempre più
trascurata, come tante altre istituzioni o servizi pubblici? I passeggeri non ancora
assuefatti hanno assistito sgomenti all’arrivo dei primi treni inaugurali della
nuova linea C della metropolitana romana, già imbrattati dai writer. La scuola è
da tempo a uno dei livelli più bassi di questo degrado. Nessuno si cura di
difenderla dalle aggressioni esterne con efficaci sistemi di sicurezza, di
difenderla dal degrado derivante da inaccettabili comportamenti di alcuni
gruppi di studenti, imponendo un rigore disciplinare che, almeno in certi casi,
è assolutamente necessario. Si straparla della scuola come centro di formazione
sociale, aperto a tutti, e mirante a creare una coscienza da cittadino. Se ne
straparla a spese del comparto disciplinare, proponendo continuamente nuove
materie di educazione alla cittadinanza, e persino educazione all’affettività.
Non si capisce bene che cosa si faccia in questi nuovi comparti curriculari visti
gli effetti: basta assistere allo sciamare dalle scuole di studenti che
lasciano le cartacce della pizza sui marciapiedi o si affollano sui mezzi
pubblici senza pagare il biglietto. Forse andava meglio quando si facevano più
materie disciplinari e si instillava il senso del dovere attraverso il rigore
dello studio, invece di un profluvio di prediche fumose che destano negli
studenti una comprensibile reazione di scetticismo e derisione che serve solo
ad alimentare il cinismo. Perciò concordiamo con il ministro Giannini quando
dice che occorre smettere di alimentare il rito delle occupazioni, per cui –
qualsiasi cosa accada – il mese di novembre è dedicato a questa ripetitiva
sceneggiata. Ne ha fatto le spese il ministro, che si è sentita punta sul vivo
per l’accusa di voler “privatizzare”. Avrebbe dovuto ricordare che una simile
accusa è stata rivolta a tutti i ministri prima di lei, sempre a novembre, e
ascoltare meglio per sapere che se ne sentono di ben più ridicole, come la
presentazione dell’alternanza scuola-lavoro come una “deportazione” in
fabbrica. Noi, che siamo molto critici del piano della “buona” scuola, ci
sentiamo liberi di dire che certe questioni delicate e complesse non debbono
essere lasciate agli slogan assembleari. Ma meno liberi di dirlo sono i
politici che da decenni hanno lisciato il pelo della “contestazione” in nome di
un giovanilismo d’accatto che ora si ripropone nella formula della
“rottamazione”.
Perché un’istituzione venga rispettata occorre
renderla rispettabile e far capire a chiare note che nessuno ha il diritto di
degradarla e farne strame, magari proponendo di trasformare istituti allo
stremo in centri sociali multifunzionali. Il primo dovere è renderla
rispettabile sul piano fisico. Quale rispetto si può mai avere di un edificio che
si presenta con le mura esterne sbrecciate e cadenti e con una bandiera
italiana a brandelli? Eppure, se vi rivolgete a un dirigente scolastico,
offrendogli di tasca vostra una bandiera nuova di zecca, è probabile che
rifiuti perché il pennone è un tale rottame che l’operazione di sostituzione
rischia di accelerare una caduta con conseguenze penali. Per questo, in tanti
abbiamo salutato con favore il piano di edilizia scolastica annunciato dal
presidente del Consiglio. Ma a distanza di mesi non se ne sa più nulla e tutto
sembra arenato in una fase pre-preliminare.
Per
rendere rispettabile la scuola occorre ridare dignità alla funzione docente, non
a chiacchiere, chiedendo quel rigore nei comportamenti e nella qualità
dell’insegnamento e offrendo un accettabile trattamento economico, che
giustificano una rigorosa valutazione sia degli istituti che delle persone. Questo
non può essere fatto con una valutazione da burletta in cui non viene premiato
chi insegna meglio la matematica o la storia, bensì chi s’inventa attività
collaterali, magari le più disparate e prive di senso.
Ora
siamo di fronte alla necessità dell’immissione in ruolo dei precari, non solo
perché lo dice il piano della “buona” scuola, ma perché lo impone l’Europa. È
un passaggio assai delicato perché se vi è chi, a buon diritto, insegna da
anni, e anche bene, e mal tollera di dover subire un controllo dopo che per
tanto tempo si è accettato senza fiatare il suo lavoro, vi è chi ha acquisito
diritti avendo insegnato poco e tanto tempo fa. Il problema esiste, i guai
passati si scontano, e il ministro non può scrollare le spalle nel timore dei
soliti problemi di un processo di selezione. Dice di non conoscere
l’emendamento che propone una verifica delle competenze dei precari in inglese
e informatica. Avrebbe dovuto dire che quell’emendamento è una follia. Dovremmo
piuttosto essere certi che il nuovo assunto conosca l’italiano (la lingua che
si usa tutti i giorni in classe), che conosca i rudimenti della storia (almeno
non creda che Aristotele sia vissuto nel quindicesimo secolo ed Eulero sia stato
un matematico greco), che abbia qualche conoscenza di base di scienze. Ma
pensare che l’alternativa a non verificare niente sia constatare se uno sa dire
“good evening” e pasticciare sulla tastiera di un computer (magari per fare il
registro elettronico) è un’assurdità che non merita commenti.
Purtroppo
questi sono i parti del rigore all’italiana. Tra pochi giorni si svolgerà un
convegno per celebrare (l’unico verbo appropriato, dato il tenore della
manifestazione) il decennale dell’Istituto Nazionale di Valutazione
dell’Istruzione (Invalsi) e lanciare il nuovo Sistema Nazionale di Valutazione.
Frattanto si apprende che l’Invalsi ha pubblicato il 10 novembre un bando per
assumere un certo numero di esperti di “alta qualificazione” che per un
triennio costruiranno i test dell’ente. La scadenza improrogabile per la
presentazione delle domande era il 20 novembre, dieci giorni… Ci si chiede se
procedendo in questo modo si può pretendere rispetto per una valutazione che si
autoproclama rigorosa e “oggettiva”, conquistare il rispetto della classe
docente e di chi frequenta la scuola.
Sembra che abbiamo trattato di temi diversi. E
invece no. Siamo di fronte a comportamenti che vanno in direzione opposta a ciò
che potrebbe e dovrebbe essere fatto per riqualificare la condizione materiale
dell’istituzione, la qualità della classe insegnante e dell’insegnamento.
Occorrerebbe tenere sempre a mente l’aforisma del celebre premio Nobel Albert
Szent-Györgyi: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Al momento, a
rileggerlo c’è da sentirsi male.
(Il Mattino, 28 novembre 2014)