È
difficile negare la verità contenuta nel detto poco raffinato secondo cui “il
pesce inizia a puzzare dalla testa”. Diversi anni fa, quando la diffusione dei
cellulari non era universale come adesso, nelle riunioni di una certa
importanza ogni partecipante teneva il telefono acceso ma silenziato, in modo
da tenersi costantemente informato di ogni chiamata. Fino a che si trattava di
persone con funzioni dirigenti amministrative o politiche, manager di un certo
livello, primari ospedalieri, ecc. – insomma persone che erano suscettibili di
ricevere chiamate tanto importanti quanto urgenti – la cosa si poteva ancora
capire. Ma poi l’usanza è dilagata. Anche in un dibattito culturale, nella
presentazione di un libro, in riunioni di importanza non così vitale, i
partecipanti usano sedersi al tavolo ponendo di fronte a sé qualche foglio di
carta, una penna e uno o anche due cellulari accesi e silenziati in modo da
rimanere costantemente “wired” (connessi) in ogni istante della manifestazione.
Gettano un occhio all’apparecchio del vicino, magari per compiacersi di
possedere il modello più avanzato e poi tengono sotto controllo il piccolo
schermo attenti alla minima vibrazione, alle chiamate e ai messaggi in arrivo.
Spesso digitano una risposta, magari soltanto per dire che non possono
rispondere, in non pochi casi si alzano con gesti compulsivi per appartarsi a
rispondere, anche se sta parlando uno degli interlocutori – una maleducazione
che un tempo veniva evitata anche sopportando per qualche tempo una necessità
corporale, mentre il cellulare appare dotato di per sé di una necessità di
ordine superiore che schiaccia tutto il resto.
Inutile
dire che un simile comportamento ne induce uno analogo non solo da parte degli
interlocutori, ma anche da parte del pubblico che non vede perché mai dovrebbe
spegnere il proprio apparecchio e non tenere sott’occhio lo schermo, visto che
lo fa chi ha un ruolo centrale nell’incontro. Abbiamo parlato di una caduta di
livello nei rapporti, di autentica maleducazione, ma questo è soltanto
l’aspetto esteriore. C’è qualcosa di più profondo che richiederebbe un’analisi
psicologica e antropologica. A noi sembra che indichi che l’apparecchio induce
– consapevolmente o meno, non importa – lo stato d’animo di chi, in fin dei
conti, considera quel che sta accadendo – il suo intervento, quello degli
altri, l’attenzione del pubblico, la propria attenzione – come secondario, o
almeno potenzialmente secondario rispetto a quel che può accadere “altrove”.
Non è solo il timore di non poter essere informati di qualche evento: è minima la
probabilità che proprio in quelle due ore accada qualcosa di grave o di
talmente importante per persone che non hanno responsabilità tali da richiedere
un loro intervento immediato. No. Si tratta del timore di perdere il controllo
di quel che accade “fuori”, con l’esito di mettere in secondo piano quel che si
sta facendo, l’evento non virtuale ma reale, fisico, concreto, cui si sta
partecipando. Gli esiti sono due. Il primo è personale. Ci si mette in una
situazione simile a quella di chi si droga: si considera il mondo in cui si
vive come una realtà insoddisfacente, da cui si è pronti a fuggire in attesa di
qualcosa “di più”, “di meglio”, di più importante e gratificante. La dipendenza
non produce effetti fisici immediati, ma quelli psicologici non sono meno
devastanti. Poi c’è l’esito collettivo: per effetto di “mimesis” tutti sono
indotti a considerare più importante la propria connessione “esterna”. E perché
mai non dovrebbero farlo davanti a una persona il cui sguardo si porta
continuamente sul piccolo schermo e che finisce con l’incespicare nel parlare, con
l’esporre i concetti in modo frammentario e sgangherato, oppure si alza e si
assenta mentre parla un altro? Il risultato è un consesso di persone la cui
attenzione primaria è “altrove” e in cui è svilito, se non dissolto del tutto,
il fine dell’incontro, e cioè creare un rapporto umano sostenuto dalla fisicità
dell’eloquio, dalla presenza materiale attiva e attenta.
Ora,
tutte le testimonianze dicono che questa prassi sta dilagando anche nel sistema
dell’istruzione. Se fino a qualche tempo fa dirigenti scolastici o insegnanti
rigorosi erano intransigenti rispetto all’ingresso dei cellulari in classe,
sembra che anche questo muro stia cadendo a pezzi. Cresce il numero degli
insegnanti – universitari o delle scuole di ogni ordine e grado – che entrano
in classe, depongono il cellulare sulla cattedra, acceso e silenziato, ogni
tanto danno un’occhiata allo schermo e sono attratti da una vibrazione che
segnala una chiamata o l’arrivo di un messaggio. Il parlare s’incespica, la
lezione si frammenta e talora, a mo’ di giustificazione si borbotta: «Ma guarda
per quale sciocchezza mi disturbano!». Ma allora perché non spegnere a priori,
magari soltanto per quei tre quarti d’ora di lezione? Inutile dire che,
scendendo dalla testa sempre più in giù, gli studenti si sentano perfettamente
legittimati a tenere acceso il loro cellulare, magari sotto il banco, comunque
in posizione da poterlo tenere sotto controllo. Così anche qui l’aggregato (la
classe) si sgretola, i legami diventano evanescenti: ognuno si proietta verso
l’esterno, verso qualcosa che “conta di più“ (almeno potenzialmente) dello
stare insieme e con l’insegnante. Poi magari, nel pomeriggio, in modo non più
fisico ma virtuale, si ricostituisce un tessuto di relazioni in cui si fanno
insieme i compiti con il cellulare alla mano. Ma l’insegnante non c’è più, la
lezione non c’è più, il rapporto è virtuale. Il rapporto diretto in cui
attraverso la parola e il confronto dovrebbe scoccare l’interesse e la
comprensione è svilito, perché ne è lacerato il tessuto di fisicità.
In
un libro recente, Massimo Recalcati ha indicato ne “L’ora di lezione” l’unica
via per salvare un’istruzione in sfacelo, l’unico momento in cui può scoccare
quella scintilla magica tra maestro e allievo capace di generare la passione
per la conoscenza intesa come un processo aperto, fatto di continue domande e
di questioni irrisolte, l’unico momento in cui il bambino o il ragazzo può
conoscere e avvalersi della “potenza generativa” della scuola. Ma come potrà
mai l’ora di lezione assolvere tale funzione se il maestro, invece di pensare
esclusivamente a trovare entro sé stesso l’energia e il desiderio di creare
quella scintilla generativa, frammenta la sua presenza nel rapporto con un
“fuori” e invita, neanche tanto implicitamente, i suoi allievi a fare
altrettanto, a proiettare “fuori” la loro attenzione primaria? Come potrebbe
una scintilla suscitare una fiamma su un tessuto completamente lacerato?
Per
questo, chiediamo agli insegnanti – tra cui tanti continuano a manifestare una
dedizione che resta l’unico fronte di resistenza al crollo totale
dell’istruzione – di spegnere i cellulari e di farli spegnere ai loro allievi.
Forse non solo i giovani inizieranno a sentire che anche a scuola ci si può
appassionare a qualcosa, ma anche la “testa” inizierà a capire la miseria del
suo cattivo esempio.
(Il Mattino, 14 novembre 2014)
5 commenti:
Lezioni alla specialistica: i venticinquenni scrivono sistematicamente messaggini davanti all'insegnante, senza pudore. E così tocca pure fare le raccomandazioni che si fanno ai dodicenni. Non dico poi le volte in cui è squillato un cellulare in classe. E a botte di cellulari e Ehi Prof.! si percepisce come è valutato lo studio in questo disgraziato paese.
Lezione in terza elementare. Maestro mentre aspettava che finissero l'esercizio, anzichè passare fra i banchi a controllare/aiutare, preferiva distrarsi con il tablet. La scusa era quella di supportare l'attività didattica. Non ci credevano neanche i bambini.
Ormai, con l'uso di tablet e PC in classe difficile pensare di eliminare la"connessione".
Piuttosto vietare l'uso di cellulari nelle ore di lezione mi sembra doveroso, sia per gli alunni sia per gli insegnanti. La connessione può servire esclusivamente a scopo didattico, sotto la supervisione del docente.
La capacità di concentrazione dei ragazzi è sempre più limitata, distratti come sono da mille stimoli… Occorre lavorare per ripristinare l? "hic et nunc" con tempi di relax, naturalmente, ma privilegiando in questi l'attività motoria e la socializzazione "de visu". (Insegnante di Lettere scuola media)
Antigone non tiene conto del fatto che i giovani della generazione 2.0 sono già diversi e il loro cervello multitasking non è danneggiato, anzi si giova del fatto di sentire contemporaneamente musica, chattare, googlare e svolgere il loro lavoro scolastico. Se l'insegnante vuole svolgere consapevolmente il suo compito di facilitatore non deve ostacolarli, pena l'essere additato come reazionario oscurantista, forse addirittura capace, persino, di pensare allo svolgimento di una nefanda lezione frontale!
Ad un corso di aggiornamento di didattica si auspicava il ricorso significativo agli Smart Phone in classe interconnessi alla rete e alle Lim. Io che regolarmente spengo e faccio spegnere i cellulari in aula mi sono sentito inadeguato. La modernità.
Antonello Tinti
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