martedì 3 aprile 2007

È vero, medie e licei sono allo sfascio, ma la (d)istruzione inizia alle elementari

(Settimanale Tempi, 29 marzo 2007)

Una settantina di anni fa il premio Nobel per la medicina Albert Szent-Györgyi emise questa sentenza: «Il futuro sarà come sono le scuole oggi». Roba da far tremare le gambe, se si pensa allo stato della scuola italiana. Eppure, siamo convinti che Szent-Györgyi avesse perfettamente ragione. Per questo, occuparsi del nostro sistema educativo è un dovere morale, un’urgenza assoluta.
Si parla molto della condizione drammatica in cui versano i licei e le scuole medie inferiori, ma non si dice che il disastro ha evidenti radici nella condizione delle scuole elementari. Si provi ad entrare in una classe elementare: assenza di qualsiasi disciplina, un chiasso indescrivibile, bambini che passeggiano per la classe mentre altri sono accasciati sui banchi senza far nulla. Conosco casi di bambini che sono tornati a casa dicendo di non voler più andare a scuola per il mal di testa provocato dal rumore, altri che si deprimono, altri ancora che si lamentano di annoiarsi. Del resto, basta leggere i rapporti dei tirocinanti per rendersi conto di quanto l’anarchia e il chiasso nelle elementari distruggano ogni sviluppo delle capacità di concentrazione e siano causa di incredibile inefficienza. A volte, in otto ore di tempo pieno si fa poco più di un dettato e dopo quattro mesi di scuola si è fermi ancora all’apprendimento del numero 9. Durante la ricreazione, poi, i più prepotenti impongono le loro regole e dettano legge su chi e come può partecipare ai giochi: è il bullismo in forma embrionale.
In tutto ciò cosa fa il maestro? Per lo più è sopraffatto. A parte i casi estremi, ma non infrequenti, di maestri che ricevono oggetti in testa e debbono persino farsi medicare, il maestro passa il tempo a tentare con scarso successo di domare la classe. Qualcuno si porta persino un fischietto in classe per farsi sentire. La vera ragione dell’impotenza dei docenti risiede negli effetti nefasti del “pedagogismo democratico”, come l’ha bene definito Ernesto Galli Della Loggia. È l’ideologia che capovolge qualsiasi forma di meritocrazia e si propone di fabbricare tanti individui tutti identici, tutti allo stesso livello. E siccome, in questa forma di cretinismo demagogico, nessuno deve restare indietro, bisogna sempre aspettare l’ultimo della classe, riservare a lui ogni cura e attenzione, “capire” e sopportare le sue intemperanze, invece di stimolarlo, con una sapiente miscela di bastone e di carota, ad adeguarsi al livello dei più capaci (che ci sono, non c’è niente da fare, non dispiaccia ai comunisti dell’intelligenza). Nel frattempo, i migliori vengono trascurati, e restano fermi in attesa, a vivacchiare nel chiasso e nel caos provocato dagli ultimi – quelli che non soltanto non fanno ma non lasciano fare – e che il buonismo democratico vieta di sanzionare. Inutile dire che una siffatta ideologia ha diviso il mondo degli insegnanti in due: coloro che soffrono e coloro che ne sono stati plasmati e che non sanno più neppure quale sia la funzione di un’educatore e non sono in grado di esprimere alcuna autorevolezza.
Il crollo della disciplina è quindi strettamente connesso allo sfacelo del modello educativo del pedagogismo democratico. Tuttavia, siccome la questione della disciplina ha raggiunto livelli di vera e propria emergenza, e in Italia per fare riforme ci vogliono tempi geologici – con il rischio di peggiorare la situazione esistente – intervenire nel primo ambito è divenuta un’urgenza assoluta, come soccorrere un diabetico in fin di vita per un’incidente stradale: alla cura del diabete ci si pensa dopo. Vi torneremo su la prossima volta.

Giorgio Israel

5 commenti:

GiuseppeR ha detto...

Sono anni che sono, come padre, testimone dello sfacelo del sistema educativo.
Non sopporto più quei genitori che, di fronte a ogni problema, sono sempre alla ricerca di una colpa da addebitare ai professori o alla scuola pur di non risparmiare fatiche e preoccupazione per i loro figli.
Non è più tollerabile la prevaricazione di minoranze di studenti prepotenti che occupano gli Istituti.
E' assurdo che ogni mese diverse si tengano assemblee durante l'orario didattico.
Non è possibile che i nostri figli siano molestati con corsi di "Educazione affettiva" (come si fa ad insegnare l'"affettività"?) quando si trascurano le materie fondamentali.
Faccio fatica a mantenere la calma quando i professori si trincerano dietro una presunta "ingestibilità" della classe (ma non è il loro mestiere "gestire" una classe?)
Vorrei denunciare tutti quei professori lassisti e assenteisti (ma tanto non serve a niente).
Ma, più di tutto, mi angoscia la superficialità e l'incoscenza di molti genitori che, quando denuncio queste situazioni, mi guardano come se fossi un marziano, come se appartenessi ad un'altra epoca, come se andasse tutto "discretamente" bene....

Nessie ha detto...

E' vero, la distruzione parte dalle elementari con le solite sinistre predicare una scuola da soviet supremo con tre maestre su due classi; col tempo pieno o tempo prolungato che altro non è che un'area di parcheggio per bambini precocemente resi alienati. E che serve più a rimepire l'"organico" (che detto in "sindacalese", vuole dire il corpo docenti a cui dare lavoro), che a venire incontro alle reali esigenze psicologiche degli scolari. Con genitori che giocano a scaricabarile sulla scuola, e con docenti che non vogliono assumersi la responsabilità di trasmettere valori, regole e criteri.
Ma volendo andare ancora più indietro questo permissivismo parte dalla materna, della puericultura alla Benjamin Spock e soprattutto dall'illusione che l'educazione sia un processo "ludico" e non impegnativo come dovrebbe essere sia per il docente che per l'allievo.

Antonio Candeliere ha detto...

Tutti i professori dovrebbero leggere ai loro alunni il libro "cuore" di Edmondo De Amicis e fare meno corsi di "educazione affettiva".

Giorgio Israel ha detto...

D'accordo al cento per cento. Proporrei anche la lettura obbligatoria di Pinocchio...

Anonimo ha detto...

Posto alcuni paragrafi del libro da me scritto "Risposte senza domande e domande senza risposte"


L’imbroglio delle paroline magiche.

E così, mentre continuo a salire, la successione di pensieri continua a snodarsi senza che mi riesca di fermarli. Si dice che nel nostro Paese si cambia tutto per non cambiare nulla. Non è una buona cosa, ma non sarebbe poi così grave come quella di cambiare tutto per rovinare anche quello che di buono già c’è. In Italia quella di peggiorare le cose contrabbandandole per novità è un’altra passione nazionale. Si tratta di una più o meno cosciente italica inclinazione all’imbroglio, alla quale la scuola non è estranea. La scuola è divenuta terreno di scorribande di battaglioni di conferenzieri, socio-psico-pedagoghi, esperti in valutazione, progettualisti, luogo di proliferazione di inutili, dannose e parassitarie burocrazie. È inondata da tonnellate di carta stampata di pseudo studi, analisi e tecniche della didattica che, anche quando sono lette e per quanti sforzi i bene intenzionati facciano, risultano incomprensibili e inapplicabili. Ed è una fortuna se si considera come quella chiacchiera socio-psico-pedagogica sia lontana dalla scuola e da quanti, insegnanti e studenti in carne ed ossa, in essa e fuori vivono e lavorano. Ma non per questo i danni sono minori. L’onda lunga di tanta inutile chiacchiera è riuscita comunque a creare una moda: quella secondo la quale quando si parla ciò che deve importare è impressionare; non si parla per comprendere e aiutare gli altri a comprendere. Il fine non è quello di esprimere con chiarezza e semplicità di un pensiero perché oggi, per lo più, chi parla e scrive sa, in cuor suo, di non dir nulla e teme che il giochino venga scoperto. Migliaia di insegnanti partecipano a corsi di formazione che non formano alcunché, con l’unico scopo di portare a casa un attestato di cui si spera vanamente di fare un qualche uso. La maggioranza degli insegnati è divenuta parte integrante di questo sistema di acquiescenza alla pseudo scienza propalata nei corsi di aggiornamento, dove la più trita banalità si riveste di una linguaggio che più è oscuro e incontrollabile, più affascina e ne accresce l’autorevolezza scientifica. Del resto si sa che gli scranni sono di per se autorevoli. Se poi qualcuno vi adagia il sedere, quell’autorevolezza viene trasferita agli astanti, che ne vengono contagiati. E’ già di per sé un rito, che si potenzia se dallo scranno vengono formule in un linguaggio indecifrabile e allora tutto si carica di magia. Non importa se ci si annoia: comunque si va via soddisfatti perchè lo scranno ha parlato bene e alla fine se pure non si è capito nulla, il perché sta nel fatto che siamo noi ad esser ignoranti. Vi voglio raccontare quanto mi è accaduto in uno di questi incontri quando, per la prima volta, udii pronunciare la parola ricercazione. Mi sembrava una parolina un po’ inelegante. Credevo che fosse solo un brutto neologismo sinonimo della parola ricerca. Non capivo, ma i miei colleghi sembravano aver compreso. Così chiesi ad uno che conoscevo cosa volesse significare e mi spiegò che in realtà le parole erano due: ricerca- azione. Potenze del trattino! L’intelligenza e la memoria di essere italiano mi aveva fatto difetto. Mi ero dimenticato di come siano importanti i trattini nella parole del Bel Paese. Non si dice forse centro-sinistra? centro-destra? rosso- verde? Vedrete che tra poco si dirà anche alto-basso, bianco-nero, giusto-ingiusto, codardo-vile, bello-brutto, sapido-insapido. Così alla fine quando dovremo dare qualche informazione la daremo sempre con i trattini. Ma chissà che già l’abitudine non sia diffusa. Insomma quello che più amiamo è l’approssimazione. Se qualcuno ha l’ardire di porre una domanda chiara la risposta comincia sempre con un: dipende. Altro che chiarezza cartesiana, la verità è che noi siamo tutti nipotini di Hegel e della dialettica, che ci raccomanda che le cose sono e non sono allo stesso tempo, che ogni negazione è affermazione e viceversa. Le parole erano due: ricerca e azione. Ma che voleva significare il trattino tra di essa? Continuai ad ascoltare e dallo scranno, ad un certo punto l’oracolo sentenziò: la ricerca-azione significa quindi che noi dobbiamo educare i ragazzi all’idea che la ricerca deve essere legata all’azione, al fare e non rimanere fine a se stessa. Bel principio accidenti! Proprio non ci avevo pensato. Magia della parola che ti fa scoprire ciò a cui non avevi pensato. Ma io avevo letto Galilei - e vi risparmio l’elenco di tutti quelli che dopo di lui hanno creato le fondamenta della razionalità moderna - lo avevo preso sul serio e gli avevo creduto, così, dopo un po’, mi affligge una domanda: ma esiste un ricercare che non sia anche un agire? Com’è possibile fare ricerca senza contestualmente agire? Certo può esservi qualche sconsiderato che agisce senza ricercare, senza aver chiaro che cosa cercare. Ma è assai difficile immaginare una semplice e normale persona, che ricerca senza agire. Un matto può agire in maniera sconclusionata senza aver chiaro nessuno obiettivo particolare, ma chi ricerca lo fa sempre con una qualche intenzione, insomma cerca e agisce per qualcosa. Ci sono insegnati che sanno tutto delle paroline magiche, ma sono divenuti del tutto incapaci di stupirsi per la potenza della semplicità della scienza di Galileo e contagiarne i ragazzi, di condividere l’estasi e il fascino nei quali quel grande scianziato si sentì smarrito quando scopri i satelliti di Giove. Così i nostri ragazzi divengono cavie d’una noiosa e annoiata ricercazione, totalmente ignoranti del miracolo della fisica, della matematica della biologia e di quella cultura che ha fondato il pensiero moderno. La razionalità che ha fatto il nostro mondo non conosceva i trattini, né voleva impressionare. Voleva far comprendere che se la fede ci dice come andare il cielo, la scienza insegna come funziona il cielo. Così, d’improvviso, la magia del trattino si rivela per quello che è: l’imbroglio di una parola vuota. Ricordo che fui tentato di rendere pubblico questo pensiero, ma ero conscio che le magie dei riti non vanno mai infrante, si corrono troppi rischi, così me ne trattenni per non incorrere nelle ire non tanto di chi officiava il rito, quanto degli iniziati. Forse non lo sapete, ma ormai la scuola è stata profondamente corrotta da questi oracoli. Se leggete le relazioni che gli insegnanti premettono alla presentazione dei loro programmi trovate un formulario nel quale vengono distinte le competenze dalle conoscenze, il sapere dal saper fare. Ma dico, voi riuscite ad immaginare una competenza, insomma un’abilità, che non sia anche conoscenza? Se un falegname è competente nel fare porte e finestre è mai possibile che egli non sappia, prima di produrle, come si fa? Insomma che non debba disporre, già prima di agire, nel suo cervello di un pensiero, delle conoscenze dei vari legnami, del funzionamento delle macchine e degli utensili che usa quando lavora con competenza? Che non debba già avere, una teoria - per usare una parola difficile - che lo guida nell’azione pratica del suo lavoro? Il sapere se è sapere è sempre un saper fare. Ma Fedro, della soloneria di chi ammonisce che non basta sapere ma bisogna anche saper fare, non riuscirebbe a resistere dal dire: de te fabula narratur! Sarebbe interessante chiedere a costoro di spiegare come si passa dal sapere al saper fare nell’insegnare il latino, la lingua italiana, quella straniera, la fisica, la chimica e via discorrendo. Ma statene certi: ne verrebbero solo farfugliamenti. Sta di fatto che nonostante questo ridondante chiacchiericcio, che assorda da decenni le orecchie degli insegnanti, i laboratori, quando ci sono, restano chiusi. Le scienza della natura sono sperimentali, destano interesse perché sono fondate sull’osservazione dei fenomeni della natura, non sono nate nel chiuso dell’alambicco di cervelli in qualche polverosa soffitta. Quale interesse dovrebbe provare un ragazzo per le scienze, quando queste vengono presentate con le morte formulette di un libro di testo, lontano dalla viva pratica della manualità in un laboratorio? Invece di avere programmi nei quali la lingua straniera viene insegnata con la finalità di dare ai ragazzi gli strumenti per parlarla, si continua a pretendere che un ragazzo traduca la lingua che Shakespeare parlava ai suoi tempi e i classici della letteratura inglese. E’ vero, ci sono insegnati che organizzano la proiezione di qualche film in lingua inglese, ma la cosa è episodica, nessuno è in grado di capire cosa dicano gli attori, e la faccenda si risolve solo nel rompere il tedio, che sempre più affligge i ragazzi rinserrati nelle aule per cinque o sei ore come si faceva negli anni antecedenti il secondo conflitto mondiale. Ma nonostante tutto questo c’è ragione di sperare: benedetti questi ragazzi, che nonostante l’assurdità di una scuola male educata e sconclusionata, benché rassegnati ad un continuo rimbambimento, riescono a resistere agli inviti quotidiani all’ammattimento!