sabato 30 giugno 2012

IL FONDAMENTALISMO BIBLIOMETRICO DELL'ANVUR DISTRUGGERA' IL POCO CHE RESTA DELL'UNIVERSITA' ITALIANA


Se il Presidente di Confindustria ha detto di aver smesso di leggere la riforma del lavoro dopo poche pagine perché gli “fumava il cervello”, la lettura del decreto per l’abilitazione nazionale a professore universitario potrebbe liquefare il cervello dei comuni mortali. Basti dire che il primo articolo è dedicato alle “definizioni” di concetti come “parametro”, “indicatore”, “mediana”. Difatti, le nuove procedure mirano a marginalizzare la soggettività dei giudizi dei commissari introducendo criteri “scientifici oggettivi”. Tra questi spicca quello della “mediana”, un numero che dovrebbe definire i requisiti minimi per far parte di una commissione giudicante e per essere ammessi al giudizio.
Siamo tutti abituati a maneggiare le medie. Se ognuno dei 10 dipendenti di una piccola azienda guadagna 1000 euro al mese e il dirigente ne guadagna 12.000, la media delle retribuzioni sarà il totale diviso per il numero di dipendenti: 22.000 diviso per 11, cioè 2000 euro. La mediana è ben diversa dalla media: messi i dati, cioè i valori degli stipendi, in ordine crescente, essa è il valore di mezzo, quello che divide la lista in due parti uguali. Nel nostro esempio, cinque da ogni parte, e la mediana è 1000. Il libro sulla statistica più venduto della storia, “Mentire con le statistiche” di Darrell Huff, spiega come essa sia una disciplina che consente di manipolare, anche con intenti poco raccomandabili. Il caso di prima fornisce un buon esempio. Il datore di lavoro userà la media (la statistica del pollo di Trilussa: ogni italiano ha mangiato mezzo pollo in media, anche se non ne ha mai visto uno) per dire “come si guadagna bene nella mia azienda!”. I lavoratori risponderanno con la mediana per dire “guarda che stipendi miserabili sono i nostri!”
Si dirà: ma cosa c’entra tutto questo con l’università? C’entra, perché – semplificando perché non fumi la testa, ma senza tradire la sostanza – l’idea è di stimare il valore di un professore universitario giudicante o candidato con una statistica. Non con il numero delle pubblicazioni – indice troppo rozzo, che non dice nulla sulla qualità – ma con il numero di citazioni ottenute dalle pubblicazioni, che dovrebbe essere un indicatore di qualità. I professori “ammessi” sarebbero quelli che superano la mediana delle citazioni nel loro settore.
A prima vista il criterio non sembra malvagio. L’esempio precedente lascia credere che la mediana difenda i “disagiati”. Niente affatto. Prendiamo i casi (autentici) di gruppi di docenti che praticano una disciplina difficile e poco citata e che appartengono a raggruppamenti in cui vi sono altri gruppi numerosi di docenti che pubblicano lavori per niente “migliori” ma molto citati. I primi avranno valori molto bassi, gli altri molto alti e la mediana si attesterà su questi ultimi. Risultato: tutti i commissari e i candidati del primo ambito (inclusi i loro settori di ricerca e didattica) saranno spazzati via.
In realtà, il difetto è molto più profondo del fatto che il migliore filologo classico o fisico teorico è inevitabilmente meno citato di un mediocre genetista (si dirà che le mediane vengono calcolate per settore, anche se questo non evita problemi come quello menzionato). Esso attiene all’idea stessa che il numero di citazioni dica qualcosa circa la qualità di un lavoro scientifico. I motivi per cui si cita sono innumerevoli ed eterogenei, e non sempre irreprensibili. Si cita per esibire la propria conoscenza bibliografica, si cita per favorire gli amici, si cita sé stessi, si cita per debito intellettuale (o servilismo) nei confronti dei maestri, non si citano i lavori importanti di colleghi sgraditi o delle cordate ostili, e via dicendo. Come se non bastasse, la stima del numero di citazioni viene fatta su un “database” gestito da una ditta privata, la Thomson-Reuters, che tiene scarso conto dei libri, nessuno di tutto ciò che sa vagamente di “umanistico”, e indicizza solo certe riviste che, guarda caso, sono quelle che poi sponsorizza fortemente affinché le biblioteche le acquistino. Come pretendere che via sia qualcosa di oggettivo in tutto questo?
Gli ambienti universitari umanistici hanno visto il pericolo della bibliometria e hanno protestato. Quel che è stato loro concesso peggiora le cose: una divisione tra settori “scientifici” e settori “umanistici”, i primi soggetti a rigidi criteri bibliometrici, i secondi a forme di valutazione diverse, per lo più basate su classifiche di qualità delle riviste elaborate dall’Anvur (l’Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca, che dirige l’intero processo), le quali, alla fine, utilizzano sempre un criterio di mediana, con modalità che tralasciamo per non far fumare la testa del lettore. Chi ha stilato le classifiche di qualità delle riviste? Una mente “oggettiva” di natura divina? Soltanto gruppi di ricercatori con le loro opinabili idee “soggettive”, tanto è vero che il risultato ha aperto un contenzioso senza fine. Né si vede perché mai un articolo debba essere considerato di valore perché pubblicato in una data rivista. Alla fine dell’Ottocento a Palermo nacque un Circolo Matematico che iniziò la pubblicazione di una rivista che, sebbene di terz’ordine (con i criteri dell’attuale decreto) si fece conoscere per la sua qualità editoriale. Mezzo mondo scientifico europeo guardò con simpatia all’impresa e i Rendiconti vantarono la pubblicazione di alcuni tra i più famosi articoli scientifici del primo Novecento. Chi oggi si sognerebbe di pubblicare articoli su una rivista classificata di serie C per poi vedere il suo articolo sotto la mediana indipendentemente dal suo valore? Altro che largo al nuovo e ai giovani: questa è la via maestra per sbarrare la strada alle novità e sclerotizzare definitivamente la ricerca.
Ma l’aspetto più devastante è aver sanzionato per decreto la divisione delle culture scientifiche e umanistiche, separate da un rigido muro valicabile soltanto attraverso il ponte della mediana. Dal lato scientifico le discipline teoriche saranno duramente ridimensionate e i pochi punti di contatto con le scienze umane (storia, filosofia della scienza) saranno spazzati via; dall’altro regnerà l’arbitrio delle classifiche delle riviste. La miopia di chi, da parte umanistica, ha chiesto un “trattamento di favore”, sta nel non aver voluto vedere che da tempo all’estero, proprio in ambiente scientifico, cresce la pubblicistica che denuncia il crollo di probità provocato dalla bibliometria dei “nefarious numbers” (i numeri scellerati), che induce a comportamenti scorretti, fino al formarsi di conventicole che citano a vicenda articoli senza valore scientifico e persino plagiati. In Australia, il governo ha abolito la bibliometria nella valutazione della ricerca scientifica. Nel nostro sfortunato paese, invece di approfittare del vantaggio di arrivare per ultimi e di valutare le esperienze altrui, siamo stati capaci di inventare una cura peggiore del male delle pastette delle commissioni: sommare all’arbitrarietà totale della bibliometria il bislacco criterio della mediana, distruggere ogni valutazione di merito a favore di tecnicismi statistici arbitrari.
È diffuso un sentimento di sollievo tra chi, vicino al pensionamento, vede la prospettiva di poter continuare a far ricerca scegliendone i temi secondo criteri esclusivamente scientifici e culturali, e sottoponendo i propri risultati a una valutazione esclusivamente di merito; anche se è un sentimento egoistico, pensando a chi dovrà sopravvivere in un contesto destinato a diventare un deserto culturale. 
(Il Messaggero, 30, giugno 2012)


E, a conferma che negli ambienti delle scienze "esatte" - soggetti alle forche caudine della bibliometria automatica – monta la più grande preoccupazione, ecco la durissima mozione dell'Unione Matematica Italiana (si può leggere nel sito http://www.roars.it/online/?p=9701).
Alla quale si aggiunge la mozione della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane): http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2098

domenica 17 giugno 2012

Il valore degli esami di maturità nella giungla delle valutazioni


Tornano gli esami di maturità e torna l’annosa e irrisolta questione: la disparità di giudizi che rende inconfrontabili i titoli ottenuti. I singoli insegnanti, le singole scuole danno degli alunni valutazioni diverse (di maggiore o minore manica larga), il che incide sul voto di maturità, il quale incide sulla scelta del percorso universitario, il quale è, a sua volta, caratterizzato da larghe disparità di valutazione, per cui i titoli con cui il giovane si presenta sul mercato del lavoro non sono equivalenti, e spesso non riflettono le sue effettive capacità.
Due sono le vie per risolvere questo problema. La prima è di rinunciare al tentativo ambizioso e complesso di affrontarlo a monte e lasciare la soluzione al mercato, in funzione della credibilità dell’istituzione che ha conferito il titolo di studio, eventualmente certificata da una valutazione di sistema. Questa via ha senso soltanto se si abolisce il valore legale del titolo di studio. È quasi superfluo dire che questo è possibile, ma vanno sottolineate le difficoltà e le implicazioni di una simile scelta. In primo luogo – come è stato segnalato da chi conosce gli aspetti giuridici della materia – non esiste uno specifico articolo di legge da sopprimere per conseguire d’un tratto l’abolizione del valore legale: esso è talmente incastrato in ogni piega nella legislazione che, per sradicarlo, occorre intraprendere un’azione complessa, ramificata e delicata che, se non condotta in modo perfetto può sollevare problemi (e contenziosi) che rischiano di far impallidire la vicenda degli esodati. Inoltre, si dimentica che la normativa europea – non è curioso che si evochi lo slogan “l’Europa lo chiede” soltanto quando fa comodo? – stabilisce precisi requisiti per la circolazione del lavoro, per cui l’abolizione del valore legale dei titoli di studio aprirebbe problemi a non finire anche sul fronte comunitario.
Per queste ragioni è sorprendente che un governo tecnico, anziché affrontare la questione sul piano a lui più congeniale, l’abbia “scaricata” sul terreno di un sondaggio “popolare” con il quale la prospettiva dell’abolizione è stata affondata in termini emotivi anziché razionali.
Resta l’altra via: “forzare” le istituzioni educative a emettere giudizi basati su criteri quanto più possibile omogenei e confrontabili. Questo approccio conduce alla tematica di moda della cosiddetta valutazione “oggettiva”, ossia di una valutazione indipendente dalle idiosincrasie soggettive dell’insegnante, dei consigli di classe, delle politiche di questa o quella scuola o università. Purtroppo, le questioni complesse non possono essere risolte in modo semplice e tutte le tecniche di valutazione “oggettiva” manifestano inconvenienti spesso più gravi dei mali che vogliono curare. Il primo degli inconvenienti è conseguenza del modo più banale di risolvere il problema: sostituire alla soggettività del docente e dell’istituto un giudizio basato su parametri “impersonali”, di carattere quantitativo. Il guaio è che tutti i parametri finora escogitati hanno rivelato difetti clamorosi. Per esempio, giudicare un istituto dal numero di abbandoni scolastici o di “successi formativi” significa suggerire un percorso poco corretto con cui si soddisfa il parametro in barba alla realtà: promuovere tutti o comunque essere più corrivi. Sono soluzioni che ricadono nella situazione descritta dalla famosa legge di Campbell: «quanto più un indicatore sociale viene usato per prendere decisioni, tanto più sarà soggetto a pressioni corruttive e sarà atto a distorcere e corrompere i processi sociali che dovrebbe valutare»; o l’equivalente legge di Goodhart: «se un indicatore sociale o economico viene scelto come obbiettivo di una condotta sociale o economica, esso perderà il contenuto d’informazione che dovrebbe qualificare il suo ruolo».
Inoltre, la pretesa che esistano procedure di valutazione esenti da fattori soggettivi è poco scientifica e priva di fondamento. Quale che sia il meccanismo usato esso sarà inevitabilmente frutto di operazioni umane (per lo più la proposizione di test) in cui intervengono dei soggetti con le loro idiosincrasie, le loro scelte e le loro opinioni opinabili. Lo si vede bene nelle discussioni in corso sulla valutazione della ricerca universitaria, per esempio quando si dibatte sull’attendibilità della classifica di qualità delle riviste scientifiche, e si mette così ironicamente in luce che il tribunale finale del valore di certi parametri “oggettivi” è il giudizio della comunità scientifica. È bene, al riguardo, tenersi alla larga dall’ossessione dell’oggettività che, pretendendo di risolvere in modo meccanicistico ciò che non vi si presta e imitando ingenuamente i metodi delle scienze “esatte”, di fronte agli insuccessi finisce col produrre esiti tragicomici. Ne è un esempio la proposta di Bill Gates, che si è gettato a corpo morto investendo più di trecento milioni di dollari per migliorare la qualità dell’insegnamento mediante criteri di valutazione “oggettiva” degli insegnanti: introdurre un braccialetto elettronico al polso degli studenti per misurare la loro “risposta galvanica epidermica” e con essa il grado di attenzione suscitato dall’insegnante, e in tal modo valutarlo. A tanto si può arrivare, persino nella patria delle libertà individuali.
Infine, questa via “oggettivista” rischia di gettare via l’aspetto qualitativo più importante dell’istruzione: la figura dell’insegnante, ridotto a un passacarte di istruzioni che vengono dall’alto, soggetto a valutazioni di organi che si pretende essere “indipendenti” e deprivato anche della facoltà di valutare gli studenti. E rischia di dimenticare che un buon insegnamento si fonda soltanto sulla base di un profondo e valido rapporto tra “persone”.
Tutto questo significa che non si può far nulla? Certamente no. Purché si parta dal principio che le questioni semplici non si risolvono con fallaci tagli gordiani. La soggettività è una componente ineliminabile – diciamo pure strutturale – nel sistema dell’istruzione e della sua funzione centrale, la valutazione. Occorre puntare, più che a un’irrealizzabile oggettività assoluta, a creare le condizioni per rompere le barriere e i meccanismi di isolamento che impediscono lo sviluppo di un sistema basato su procedimenti quanto più possibile omogenei ed equanimi. Il sistema per farlo – l’abbiamo già ricordato – non è nuovo, anche se deve essere ripensato e adattato alla natura del sistema attuale dell’istruzione: è quello delle ispezioni. Non si può più pensare a un meccanismo di ispezione ottocentesco condotto in modo centralistico da un corpo ministeriale: occorre qualcosa di più vasto e articolato che coinvolga l’intero corpo docente e altre componenti (ispettori ministeriali, insegnanti in pensione, le università) in un processo interattivo che generi una situazione di confronto trasparente. Esso può sgretolare le sacche di incompetenza e di comportamenti poco rigorosi mettendo a confronto realtà diverse e costringendole a interagire con le realtà migliori affinché queste riescano a far prevalere il loro modello. È un meccanismo che richiede impegno per essere messo in opera, e che non può produrre frutti prima di un tempo non breve. Prima ci si accingerà a metterlo in opera e meno lunghi saranno i tempi per ottenere un miglioramento effettivo e profondo, lasciando perdere le scorciatoie di un illusorio managerialismo che può soltanto ammazzare il malato più che la malattia. 
(Il Messaggero, 16 giugno 2012)

lunedì 11 giugno 2012

INDECENZA STILISTICA E CULTURALE



La commissione ministeriale che era stata nominata agli inizi del 2010 per la redazione delle Indicazioni Nazionali per il Secondo ciclo (Licei), dopo aver completato questo lavoro,  è stata convocata, a partire dal settembre 2010, per la redazione delle nuove Indicazioni Nazionali per il Primo ciclo (scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di primo grado).
La composizione della commissione era la seguente:
Sergio Belardinelli, Carlo Maria Bertoni, Emanuele Beschi, Giovanni Biondi, Giorgio Bolondi, Max Bruschi, Marco Bussetti, Giorgio Chiosso, Mario Giacomo Dutto, Paolo Ferratini, Elio Franzini, Giorgio Israel, Silvia Kanizsa, Gisella Langé, Nicoletta Maraschio, Antonio Paolucci, Andrea Ragazzini, Alessandro Schiesaro, Luca Serianni, Nicola Vittorio, Elena Ugolini, Elisabetta Mughini.
Per alcuni mesi la commissione ha lavorato e ha prodotto dei primi risultati, con l'intervento finale di alcuni altri asperti. Tra quei risultati vi è la bozza per le Indicazioni Nazionali per la matematica nelle scuole primarie, da me redatta, e che si può scaricare da questo blog in un link a fianco.
Poi le convocazioni si sono progressivamente rarefatte. Infine, non siamo stati più convocati. 
Nessuno si è sognato non dico di ringraziare per il lavoro svolto, ma neppure di dare un benservito, educato o villano che fosse, né alcuno si è degnato di spiegare perché la Commissione fosse stata di fatto liquidata.
Ora lo possiamo dedurre dal risultato. Una nuova Commissione è stata formata, del tutto diversa dalla precedente: per l’esattezza, un solo membro ne è stato confermato.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque abbia la voglia, la pazienza (e direi anche la forza) di leggere il prodotto della nuova Commissione che è stato messo in rete per una “consultazione” pubblica sul sito del Miur.
Le ragioni della “liquidazione” risultano così chiare: si è voluto togliere di mezzo chi seguiva una linea diversa dal “pedagoghese”, dal “didattichese”, dal costruttivismo di marca “otto competenze chiave di Lisbona”. Il tutto nel trionfo della “didattica della paura”, ovvero meno si fa meglio è, più si gioca e meno si studia e meglio è. Per esempio, un obbiettivo di apprendimento al termine della classe terza delle primarie è: contare oggetti o eventi, a voce e mentalmente, in senso progressivo e regressivo e per salti di due, tre... Ma cosa credono che sia un bambino di nove anni?... Il tutto in un trionfo di presunzione miseranda: ma come e a chi può venire in mente l’idea di dare le definizioni delle discipline – per esempio la definizione di geografia – nelle Indicazioni nazionali?
È difficile trovare la forza di commentare un prodotto tanto miserabile. Il confronto tra la proposta per la matematica e quel che è venuto fuori è sufficiente a capire cosa si poteva fare e cosa si è fatto. Cosa si sta facendo per ridurre a una tragica buffonata la scuola di un paese che si pretende essere avanzato.


venerdì 1 giugno 2012

Lo psicologo impazza e straparla nel dopo terremoto, si salvi chi può


Debbo fare una confessione. Da anni occupo metà del tempo a battagliare contro lo scientismo, ma durante la trasmissione di Porta a Porta del 29 maggio dedicata al terremoto in Emilia ho sentito emergere un potente rigurgito di scientismo. Era un piacere voluttuoso ascoltare i sismologi, il geologo, l’ingegnere mentre producevano argomentazioni documentate e commenti tecnici che mostravano una consolidata competenza: tanto da far emergere un mai sopito sentimento di fiducia nei confronti dell’“oggettività scientifica”. Poi arriva lo psicologo con l’aria assertiva di chi erudisce un consesso di sprovveduti, e dice che è uno sproposito che gli adulti stiano insieme ai bambini nelle circostanze che seguono al terremoto: i bambini assorbono come spugne ansie e paure degli adulti, e quindi è bene che stiano tra loro. Ma sì – ci siamo detti – non è un’idea sbagliata: le famiglie scendono nelle tendopoli, gli adulti comunicano tra di loro preoccupazione, spavento e discutono su come affrontare il futuro, mentre i bambini vengono spediti a scorrazzare e a giocare assieme tra le tende per ritrovare un po’ di spensieratezza. Che idea primitiva! L’esperto spiega che, per gestire i bambini ci vogliono gli adulti adatti: occorre raccoglierlo a gruppi, anzi costituirli in “kinderheim” sotto la guida di uno psicologo. E va bene – ci siamo ancora detti – viviamo nella postmodernità, queste cose non si gestiscono come ai tempi di Checco e Nina quando non esistevano neanche le scuole dell’infanzia. Ben venga lo psicologo che guida le “kinderheim” dei bambini mentre gli adulti, tra di loro, condividono preoccupazione e spavento e progettano il futuro… Eh no! Secondo errore! Lasciare gli adulti a “elaborare” da soli? Ci mancherebbe altro! ha proclamato stentoreo l’esperto. Sarebbe un atto irresponsabile, non ne sono capaci, finirebbero allo sbando. Anche per loro ci vogliono psicologi che li ripartiscano in gruppi, li prendano sotto tutela e gestiscano l’“elaborazione” della loro tragedia.
Forse non si ricorda che quando gli italiani, alla fine della Seconda guerra mondiale, si aggiravano tra le rovine dei bombardamenti erano ripartiti a gruppi di trenta guidati da uno psicologo, e per questo trovarono la forza di ricostruire il paese e poi avviare il miracolo economico. Anche la ricostruzione dopo il terremoto del Friuli è stata portentosa perché è stata guidata passo passo da squadre di psicologi.
Ci si chiede se gli psicologi non stiano esagerando: sia detto nell’interesse dell’immagine della categoria. In fin dei conti, non capita ancora che un architetto ti entri in casa d’autorità prescrivendoti come arredarla per il tuo bene psico-fisico, un meccanico ti fermi l’auto con la paletta per controllare il carburatore e neppure un medico ti blocchi mentre cammini per strada per misurarti la pressione; e tu non ti possa rifiutare altrimenti sei un irresponsabile. Invece qui pare che non si abbia più neppure il diritto di scendere in strada assieme ai vicini di casa noti da trent’anni senza che venga un “esperto” a irregimentare in gruppi per gestire l’“elaborazione”. Lo psicologo è prescritto d’autorità, non è una persona cui ci si rivolge quando si decide di farlo. Abbiamo uno psicologo per ogni azienda e ufficio; ne abbiamo uno per ogni scuola, presto ne avremo uno per classe. Si è approvata una legge per i disturbi di apprendimento per cui le diagnosi dei bambini “disturbati” o “agitati” sono salite da una stima iniziale del 3% al 5% e poi, via via, fino a punte del 15%, tanto che sale la preoccupazione anche in chi ha voluto la legge. Non c’è ambito giudiziario in cui non intervenga lo psicologo (talora con effetti ben esemplificati dalla vicenda di Riano Flaminio). A quando una legge che imponga lo psicologo di condominio? E una legge che imponga l’intervento dello psicologo, assieme alla polizia stradale, anche per un tamponamento d’auto? Occorrerebbe anche studiare la figura dello “psicologo di strada” che si aggirerebbe in incognito, con gli occhiali scuri e la barba finta, per studiare i comportamenti della gente e fare rapporto.
Ripensandoci bene, il sentimento provato durante la trasmissione di Porta a Porta non era un rigurgito di scientismo. Perché è difficile pensare a uno scientismo più estremista e pervasivo di questo, condito da un dirigismo che farebbe morire di invidia gli psicologi e i pedagogisti sovietici di ottant’anni fa. Al confronto, lo scientismo del sismologo o dell’ingegnere (ammesso che siano scientisti) è roba da poveri untorelli.
(Il Foglio, 31 maggio 2012)